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Note su L'ultimo uomo*
(Der letzte man - Murnau, 1924)
di Alain Badiou
Nulla evidenzia di più il genio di Murnau dell'uso che fa dei codici dell'epoca.
Perché la sua superiore maestria non li disgrega, a partire dalla disposizione
arrogante del desiderio sperimentale. Piuttosto li addomestica, e con
l'uso indiretto e, allo stesso tempo, deciso e sorprendente che ne propone,
li piega al servizio di una poetica coerente, in cui questi codici sono
più esaltati che scantonati.
Murnau dà
sempre l'impressione d'inventare degli artifici, che noi sappiamo essere
la prassi nel cinema degli anni Venti. In un modo tale che, come Eschilo
o Sofocle, c'è nella sua arte un classicismo superiore, qualcosa di aurorale,
che trasforma il già-visto in mai-visto.
Consideriamo tre
di questi codici d'epoca: la considerazione del carattere di classe della
società, i virtuosismi tecnici del muto, l'esercizio espressionista degli
attori.
La questione di
classe investì l'impurità cinematografica particolarmente nel cinema tedesco
e russo di quegli anni, che su questo punto si rivolse alla scuola del
romanzo e del teatro. Lo fece secondo due orientamenti principali: un
cinema populista e miserabilista, un cinema didattico o rivoluzionario.
Può sembrare che Murnau, nell'Ultimo uomo, faccia parte in ogni caso della
prima tendenza. Il film, ridotto al suo aneddoto, è un melodramma sociale.
Ma quando lo si vede, ci si rende conto che ciò che Murnau trattiene del
dispositivo classista, è la forma pura della Dualità. Quella che potrebbe
essere null'altro che una sinistra storia di decadenza, è l'esplorazione
filmica delle risorse della dualità. Ci sono due spazi, l'hotel Atlantic
e il quartiere popolare dove vive il personaggio principale. E una buona
parte del film è consacrata all'essere tra-due. È il leitmotiv, costantemente
variato, del tragitto che conduce il protagonista dall'uno all'altro dei
due spazi. Inoltre, la dualità si duplica senza fine, come se fosse la
legge di tutto il visibile. É così che l'hotel Atlantic è lui stesso diviso
in due strati, quello dei clienti e della direzione, e quello degli impiegati,
i cui luoghi non coincidono che a causa di peripezie in cui non si verifica
nessun incontro reale. Ma a sua volta lo strato degli impiegati si divide:
tra lo status di portiere, che il protagonista vive gloriosamente, e lo
status di inserviente alle toilettes, c'è un abisso materiale, come ci
mostra la scala, terribile, che scende alle toilettes come verso l'inferno.
Infine, questa ricorrenza della dualità è raccolta e concentrata da ciò
che ne è il vero segno filmico: i due costumi, quello del portiere, con
i suoi falsi galloni che il protagonista inalbera come se fosse un colonnello,
e la veste bianca dell'uomo delle toilettes. Come per il tragitto dall'hotel
al quartiere, il motivo dei due costumi è supporto a sottili variazioni.
L'arte di Murnau,
in questo film come negli altri, consiste molto spesso nell'estrarre dalle
differenze spaziali o sociali la pura opposizione di due emblemi materiali.
Così, la dualità è alla fine concentrata nel cambiamento di costume, che
trasmuta in segni la sociologia manifesta dei luoghi e delle funzioni.
Per cui Murnau giunge simultaneamente a trattenere l'esattezza descrittiva
(non si occulta l'infinita materialità delle classi sociali), e a porre
il film in una polarizzazione generale, esteticamente trascendente alla
sua materia classista, che autorizza un trattamento formale, e infine
ideale, dello spazio, dei segni, e di ciò che viene scambiato tra i due.
Se ora si considerano
gli artifici tecnici prodotti dal cinema d'"avanguardia", sovrimpressione,
deformazione, ecc., è risaputo che conducono generalmente ad un cinema
nevrotizzato dalla volontà visibile dell'effetto. Ora, la singolarità
di Murnau è che pur non essendo nessuno di questi artifici assente dai
film, uno dei caratteri maggiori della sua arte è una completa denevrotizzazione.
Murnau in effetti (e Tabu è il compimento di questo desiderio) ha per
mito personale un universo assolutamente disteso, in cui si mostra la
calma essenziale, quasi intemporale, del visibile nella sua interezza.
Nel film di cui ci stiamo occupando, numerosi piani di raccordo sulla
città, le sue strade, i suoi passanti, non hanno altro oggetto che contrastare
la tensione dell'aneddoto con uno sguardo distaccato, eterno, senza cura
per ciò che accade, per il mondo che ci circonda. Ne risulta che l'uso
delle sovrimpressioni o delle deformazioni è esclusivamente destinato
a circoscrivere i differenti modi dell'eccesso: dall'ubriachezza al sogno.
Queste forme non sono l'arrogante affermazione di uno stile. Derivano
naturalmente dal fatto che il personaggio, cessando di muoversi nella
calma del mondo, inventa un altro regime della visibilità. La sovrimpressione
è prima di tutto nell'essere stesso, di modo che ad un certo momento particolare
si dà al personaggio. Da questo si deduce anche che questi artifici sono
quasi come delle citazioni: li si richiama come ciò che è disponibile
per un capovolgimento evidente in un altro universo. Così, la grande scena
in cui il protagonista gioca abilmente con il baule, è trattata non solamente
con gli strumenti del virtuosismo tecnico, ma cita, evidentemente, le
regole dello spettacolo del circo.
La pratica attoriale
dell'epoca, senza essere supportata dalle parole, è di buon grado espressionista,
con una iperaccentuazione gestuale o mimica che teatralizza l'attore.
Jannings può sembrare che appartenga a questa tendenza, come anche i piani
ravvicinati delle comari del quartiere. Ma in realtà, l'uso che fa Murnau
di questo gioco molto analitico, uso controllato e personale, s'iscrive
in una visione ambiziosa, che tocca la questione del vicino e del lontano.
Occorre ben vedere
che, nel rapporto metafisico al visibile come donazione calma ed intemporale
che è di Murnau, la poetica si dà innanzitutto come lontananza. Citiamo,
nel film, gli ombrelli dietro la porta, il movimento della città, il gioco
delle finestre e delle ombre...L'uomo non è per Murnau che un segno, in
un dispiegamento dell'universo che, solo, è veramente reale. La ripresa
di Jannings sul suo banco, nelle toilettes, mostra esemplarmente cosa
significa: il luogo, il muro, la luce, fanno dell'attore, incorporato
al visibile, il segno puro della desolazione, così puro che questa desolazione
stessa partecipa in definitiva alla bellezza di tutto ciò che è. In questa
condizione, il primo piano - e la pratica espressionista che ingrandisce
- non è mai altro che una procedura d'isolamento del segno, quando occorre
indicare che tra questo segno e il senso dell'universo c'è un distacco
provvisorio. La figura maggiore è allora quella della meraviglia: interno
e disarticolato, il segno umano si separa visibilmente dal suo destino
universale, in modo da essere interiormente preso dall'irreale, la cui
trama ci è data dall'azione in primo piano.
La libertà di Murnau
è ugualmente grande riguardo alla questione dei generi. L'ultimo uomo
è una commedia o un melodramma? Nel calmo raccoglimento universale che
costituisce il fondo dell'essere, si passa dall'uno all'altro nello stesso
punto. É così che i tragitti del portiere, con lo stesso rito e lo stesso
ritmo, possono designare la sovrabbondanza della gioia o l'infinito della
disperazione. Le scene del quartiere popolare, che assomigliano a quelle
di Tati, riempiendo in modo lento e multiforme lo spazio, si dispongono
in un margine equivoco tra la commedia mattutina e la tragedia persecutoria.
Tutte le scene delle valigie e dei bauli (oggetti - segni fondamentali,
come lo sono i due costumi) possono essere affascinanti o prostranti.
L'universo accetta univocamente che un oggetto, un luogo, un tragitto,
siano portatori di significazioni opposte: il suo proprio essere è al
di qua di queste opposizioni. Diciamo che la passione di Murnau è di filmare
in definitiva il baule, o i costumi, o il quartiere, come si danno "realmente",
e quindi al di sotto (o al di là) delle variazioni di senso o di genere
che assumono.
In questi termini
occorre spiegare l'enigma apparente del film: la grande cesura che lo
attraversa verso la fine, e che fa venire, proprio dopo una immagine di
esilio assoluto e di morte soggettiva, una sequenza che si direbbe tratta
dalle scene più buffe di Chaplin, e in particolare da Le luci della città.
Questa cesura ci dice che la finzione, ed i suoi generi differenti, non
sono che degli apparati per catturare una verità dell'universo, che è
distribuibile nello stesso punto ( qui, per lo stesso personaggio) secondo
generi opposti. La verità non ha un genere. È neutra , perché è come la
luce dell'universo stesso, e ciò che importa a Murnau è di far arrivare
questa luce nei suoi film, mettendo al servizio di questa venuta la diversità
di superficie delle immagini, delle tecniche e dei generi. Murnau può
dunque legare liberamente dei materiali d'epoca, a partire da una tesi
che solo il cinema può affermare: l'universo è incessantemente permeato
da una grazia di esistere che avviluppa e copre il terrore che genera.
Perché il cinema? Perché questo viluppo è quello della mobilità attraverso
la luce. Nosferatu ce lo mostra chiaramente: il terrore è propriamente
sovvertito, dall'interno della sua propria crescita, da un'aura luminosa
che comincia dalle riprese crepuscolari dei prati e dei cavalli selvaggi,
e si compie in quel mattino solare in cui morte ed amore coincidono.
Il cinema di Murnau
è quello del tempo della luce. È ciò che ben ricapitola, nel film, il
grande totale del quartiere, che nei muri, nei tetti, nelle finestre,
non coglie altro che il passaggio dell'essere - luce. Ma ugualmente, dalla
parte dell'hotel Atlantic, l'azione tra le porte che sono sia trasparenza
che chiusura, e l'esterno, sempre stupefacente. Il portiere, quanto a
lui, è il traghettatore, il segno che circola tra la trasparenza e l'esterno.
Di questo cogliere
il movimento e ciò che vi è racchiuso dall'indifferenza calma di ciò che
è aperto, Murnau ne avrebbe dato la più splendida trascrizione nella sequenza
di Aurora, ancora una volta distante da ogni aneddotica, in cui non vi
è altro che il tram che scende verso la città, e dove è il movimento stesso,
e le lente giravolte di ciò che lascia alla vista, che sono trasportati
verso l'immobile, verso l'eterno.
Per Murnau, l'opposizione
del nero e del bianco, che dispone il visibile nelle sue opposizioni,
non è costruzione filmica di una materia. È ciò per cui ogni cosa non
è data se non come visibile venuta della sua immaterialità.
*(Il presente testo è una conferenza tenuta
da Alain Badiou il 19 novembre 1996 all'Università di Paris - VIII).
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