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Si può parlare di un film? *
di Alain Badiou

C'é un primo modo di parlare di un film, che consiste nel dire: "mi ha molto", o "non mi ha entusiasmato". Il proposito è indistinguibile, perché la regola del "piacere" lascia la sua norma occultata. Riguardo a quale aspettativa verte il giudizio? Un romanzo poliziesco può ugualmente piacere o non piacere, essere buono o cattivo. Queste distinzioni non fanno del romanzo poliziesco in questione un capolavoro dell'arte letteraria. Designano piuttosto la qualità, il colore, del breve tempo passato in sua compagnia. Dopo di ciò, la memoria lo perde con indifferenza. Chiamiamo questo primo momento del dire: giudizio indistinto. Esso riguarda l'indispensabile scambio di opinioni, che succede spesso, dalla considerazione del tempo che fa, a ciò che la vita promette o sottrae di momenti piacevoli o precari.
C'è una seconda maniera di parlare di un film, cioè precisamente difenderlo contro il giudizio indistinto. Di mostrare, cosa che presuppone già qualche argomento, che questo film non è soltanto situabile nello slargo tra piacere ed oblio. Non si tratta solamente che vada bene, bene rispetto al suo genere, ma che a suo proprosito qualche Idea si lasci prevedere, o fissare. Uno dei segni superficiali di questo cambiamento di registro è che l'autore di un film è menzionato, menzionato come autore. Mentre il giudizio indistinto menziona prioritariamente gli attori, o gli effetti, o una scena stupefacente, o la storia raccontata. Questa seconda specie di giudizio cerca di designare una singolarità di cui l'autore è l'emblema. Questa singolarità è ciò che resiste al giudizio indistinto. Essa cerca di tenere separato ciò che è detto del film dal movimento generale dell'opinione. Questa separazione è anche quella che isola uno spettatore, che ha percepito e nomina la singolarità, dalla massa di un pubblico. Chiamiamo questo giudizio il giudizio diacritico. Questo crea delle argomentazioni riguardo alla considerazione del film come stile. Lo stile è ciò che è opposto all'indistinto. Legando lo stile all'autore, il giudizio diacritico propone che si salvi qualche cosa del cinema, che esso non sia votato all'evanescenza del gradimento. Che siano ribaditi nel tempo qualche nome, qualche figura del cinema.
Il giudizio diacritico non è in realtà che la fragile negazione del giudizio indistinto. L'esperienza mostra che salva più i nomi degli autori che il film, più qualche elemento sparso degli stili che l'arte del cinema. Sarei abbastanza tentato di dire che il giudizio diacritico sta agli autori come il giudizio indistinto sta agli attori: l'indice di un ricordo provvisorio. Alla fine dei conti, il giudizio diacritico definisce una forma sofisticata, o differenziale, dell'opinione. Designa, pone, il cinema "di qualità". Ma la storia del cinema di qualità non disegna alla lunga alcuna configurazione artistica. Disegna piuttosto la storia, sempre sorprendente, della critica del cinema. Perché è la critica, in tutte le epoche, che fornisce al giudizio diacritico i suoi punti di riferimento. La critica dà nome alla qualità. Ma così facendo, è ancora comunque troppo indistinta. L'arte è infinitamente più rara di quanto la migliore critica può supporre. Lo si vede già leggendo oggi i critici letterari lontani, come Sainte - Beuve. La visione che il loro senso innegabile della qualità, il loro vigore diacritico, danno del loro secolo, è artisticamente assurda.
In realtà, un secondo oblio coglie gli effetti del giudizio diacritico, in una durata certo differente dall'oblio che provoca il giudizio indistinto, ma in definitiva ugualmente perentoria. Cimitero degli autori, la qualità designa più l'ideologia artistica che l'arte di un epoca. Ideologia in cui, sempre, la vera arte fa breccia.
Occorre dunque immaginare una terza maniera di parlare di un film, né indistinta, né diacritica. Io vi vedo due tratti esteriori.
Innanzitutto, il giudizio gli è indifferente. Perché ogni posizione difensiva è abbandonata. Che il film vada bene, che sia piaciuto, che non sia commensurabile agli oggetti del giudizio indistinto, che fallisca nel distinguerlo: tutto questo è silenziosamente supposto per il semplice fatto che se ne parla, e non è assolutamente il fine da raggiungere. Non è la regola che si applica alle opere d'arte sancite del passato? Ci si rende conto che significativo sia il fatto che l'Orestiade di Eschilo o la Commedia umana di Balzac prendono "di più"? Che siano francamente "non male"? Il giudizio indistinto è ridicolo, allora. Ma tanto quanto il giudizio diacritico. Non è ugualmente richiesto di scervellarsi a provare che lo stile di Mallarmé è superiore a quello di Sully - Prudhomme, il quale, tra parentesi, veniva considerato ai suoi tempi come della più eccellente qualità. Si parlerà dunque del film nella presa incondizionata di una convinzione d'arte, non al fine di stabilirla, ma al fine di trarne la conseguenze. Diremo che si passa dal giudizio normativo, indistinto ("va bene") o diacritico ("è superiore"), ad una attitudine assiomatica, che chiede quali sono per il pensiero gli effetti di tale o tal'altro film.
Parliamo dunque del giudizio assiomatico.
La seconda caratteristica del giudizio su un film è che nessun elemento del film vi possa essere convocato senza che sia definito il suo legame al passaggio di una Idea impura.
Nella mia precedente conferenza qui ho detto, dell'arte del cinema, due cose:
- che trattava l'idea in guisa di una visitazione, di un passaggio.
- Che si riferisce a tutte le altre arti, essendo una-in-più. E che quindi la sua lavorazione dell'idea ne cattura singolarmente l'impurità.
Parlare di un film esamina le conseguenze del modo specifico per cui un'idea è trattata proprio così in quel film. Le considerazioni formali, dei tagli, dei piani, dei movimenti globali o locali, dei colori, dei corpi agenti, dei suoni, ecc.....non devono essere citati che in quanto contribuiscono a "toccare" l'idea ed a catturarla nella sua impurità nativa.
Un esempio: la successione di piani che, in Nosferatu di Murnau segna l'avvicinamento alla località del principe dei morti. Sovraesposizione dei prati, i cavalli nervosi, tagli turbinanti, tutto questo spiega l'idea di toccare la prossimità, una visita anticipata della notte al giorno, di una "no mans land" tra la vita e la morte. Ma nello stesso tempo, si trova una miscela impura in questa perlustrazione, qualcosa di troppo manifestamente poetico, una sospensione che sposta l'attenzione verso l'attesa e l'inquietudine, invece di farcela vedere nel suo contorno definito. Il nostro pensiero non è contemplativo qui, è trascinato, viaggia in compagnia dell'idea piuttosto che impadronirsene. La conseguenza che ne traiamo è che giustamente il pensiero è possibile come pensiero - poema che attraversa l'idea, che è più un timore di smarrimento che un brano.
Parlare di un film sarà spesso mostrare come ci guida ad un idea tramite la forza della sua perdita; contrariamente alla pittura, per esempio, che è per eccellenza l'arte dell'idea minuziosamente e integralmente data.
Questo contrasto mi impegna in ciò che io ritegno la difficoltà principale del parlare assiomaticamente di un film. Ed è di parlarne in quanto film. Perché quando il film organizza realmente la ricognizione di un idea - ed è ciò che supponiamo poiché ne parliamo - , è sempre in un rapporto di sottrazione, o difettivo, rispetto ad una o più delle altre arti. Sostenere il movimento difettivo, e non la pienezza del suo supporto, è la cosa più delicata. Soprattutto la via formalista, che rimanda a delle pretese operazioni filmiche "pure", incontra un impasse. Nulla è puro al cinema, questo è intrinsecamente, e integralmente, contaminato dalla sua condizione di "più - uno" rispetto alle arti.
Si prenda ad esempio la lunga traversata dei canali di Venezia all'inizio di Morte a Venezia di Visconti. L'idea che passa - e che tutto il resto del film di volta in volta satura o risolve - è quella di un uomo che ha fatto tutto quello che doveva nell'esistenza, e che è in attesa, sia di una fine, sia di un'altra vita. Ora questa idea si organizza per la convergenza di una disparata quantità di ingredienti: c'è il viso dell'attore Dirk Bogarde, la qualità particolare, opaca ed interrogativa, portata da questo volto, e che deriva, che lo si voglia o meno, dall'arte dell'attore; ci sono le innumerevoli eco artistiche dello stile veneziano, tutti connessi al tema di ciò che è compiuto, liquidato, ritirato dalla Storia, temi pitturali già presenti in Guardi o nel Canaletto, temi letterari, da Rousseau a Proust; c'è, per noi, in questo tipo di viaggiatore dei grandi palazzi europei, l'eco dell'incertezza sottile che emanano, per esempio, gli eroi di Henry James; c'è la musica di Mahler, che è il compimento disteso, esasperato, di una totale melanconia, dalla sinfonia tonale e del suo allestimento di timbri (qui, le corde sole). E si può mostrare come questi ingredienti di volta in volta si amplifichino e si corrodano gli uni con gli altri, in una sorta di decomposizione per eccesso, che giustamente pone l'idea, sia come passaggio, sia come impurità. Ma, propriamente, che cos'è qui il film?
Innanzi tutto, il cinema non è che riprese e montaggio. Nient'altro. Voglio dire: nient'altro che sia "il film". Occorre dunque sostenere che considerato secondo il giudizio assiomatico, un film è ciò che espone il passaggio dell'idea secondo la ripresa ed il montaggio. Come arriva l'idea alla sua ripresa, cioè alla sua sor - presa? E come è montata? Ma soprattutto: che cosa ci rivela di singolare il fatto d'essere presa e montata come "più - uno" eteroclito delle arti, e che noi non possiamo sapere, o pensare, prima di questa idea?
Nell'esempio del film di Visconti, è chiaro che ripresa e montaggio cospirano a stabilire una durata. Durata eccessiva, omogenea al vuoto perpetuarsi di Venezia, come allo stagnante adagio di Mahler, così come alla performance di un attore immobile, inattivo, di cui non si richiede, interminabilmente, che il viso. E di conseguenza, cioè che dell'idea di uomo nella sospensione del suo essere, o del suo desiderio, è qui catturato, è in effetti che tale è uomo è immobile di per se stesso. Le antiche risorse sono prosciugate, le nuove possibilità sono assenti. La durata filmica, composta nell'accostamento di più arti lasciate alla loro mancanza, è la ricognizione di una immobilità soggettiva. Ecco cosa è un uomo abbandonato al capriccio di un incontro. Un uomo, come dirà Samuel Beckett, "immobile nella tenebra", finche non gli arrivi la delizia incalcolabile del suo boia, cioè del suo nuovo desiderio, se arriverà.
Ora, di tale idea è questo il versante immobile che è dispiegato, ed è propriamente in ciò che qui si attua il passaggio. Si potrebbe mostrare che le altre arti, sia dispiegano l'idea come donazione - al culmine di queste arti è la pittura -; sia inventano un tempo puro dell'idea, esplorano le configurazioni delle movenze del pensabile - al culmine di queste arti, è la musica - . Il cinema, per le possibilità che gli sono proprie, in riprese e montaggio, di amalgamare le altre arti senza presentarle, può, e deve, organizzare il passaggio dell'immobile.
Ma nello stesso tempo l'immobilità del passaggio, come sarebbe facilmente dimostrabile dal rapporto che intrattengono alcuni piani di Straub con il testo letterario, la sua scansione, la sua progressione. O ugualmente da ciò che l'inizio di Playtime di Tati, istituisce di dialettico tra il movimento di una folla e la vacuità di ciò che si potrebbe chiamare la sua composizione atomica. Per ciò Tati tratta dello spazio come condizione per un passaggio immobile. Parlare assiomaticamente di un film sarà sempre ingannevole, perché sempre esposto a non farne che un rivale caotico delle arti primordiali. Ma possiamo attenerci a questo filo: mostrare come questo film ci ha fatto viaggiare con queste idee, in modo tale che ci fa scoprire ciò che nient'altro poteva farci scoprire: che, come aveva già pensato Platone, l'impuro dell'idea è che una immobilità passi, o che un passaggio sia immobile. E che per questo noi dimentichiamo le idee.
Contro l'oblio, Platone convoca il mito di una visione prima e di una reminescenza. Parlare di un film è sempre parlare di una reminescenza: di quale sovra - avvenire, di quale reminescenza, tale o tal'altra idea è capace, capace per noi? È di questo punto che tratta ogni vero film, idea per idea. Dei legami dell'impuro, del movimento e della quiete, dell'oblio e della reminescenza. Non tanto di ciò che noi sappiamo, assolutamente, ma piuttosto di ciò che possiamo sapere. Parlare di un film è parlare più delle sue possibilità, che delle risorse del pensiero, una volta assicurati, come le altre arti, i suoi mezzi. Indicare ciò che potrebbe esserci, oltre ciò che c'è. O ancora: come l'atto di togliere purezza al puro apre la via ad altre purezze.


(Il presente testo è una conferenza che l’autore ha letto allo Studio delle Orsoline il 7 giugno 1994)


(trad. Aldo Pardi)

 

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