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Faustine, l'immagine*

Note ad un racconto di Adolfo Bioy Casares

di Vincenzo Cuomo

 

 0.     Premessa

 Chi scrive spera che il lettore delle considerazioni che seguono abbia già letto il racconto di Adolfo Bioy Casares La invenciòn de Morel (1941), giustamente famoso per la perfezione del suo intreccio.

 1. Le due lune e i due soli

 Colui che nel racconto parla in prima persona – e di cui sappiamo solo che è fuggito dal suo Paese avendo qualche conto in sospeso con la polizia – approda su di un’isola animata da strane presenze. Intorno ad una costruzione centrale, che ha tutta l’aria di un museo, si muovono uomini e donne, come per trascorrere una breve vacanza, tra conversazioni, cene e balli. C’è una donna, che gli altri chiamano Faustine, che attira subito l’attenzione del narrante. Superato il timore di essere scoperto ed eventualmente denunziato, egli cerca di entrare in comunicazione con lei. La delusione è immediata: “è come se i suoi occhi non servissero a vedere, le sue orecchie non servissero a sentire”.

Otto giorni dopo il primo incontro egli è testimone dello strano accadere delle medesime conversazioni e dei medesimi incontri. Ma all’improvviso tutto si ferma; l’isola appare deserta; non c’è più nessuno; il museo resta al buio. Il narratore riesce ad azionare un generatore di elettricità ed ecco riapparire le medesime persone nei medesimi atteggiamenti di alcuni giorni prima. Nel cielo si alternano due lune e due soli.

Uno degli ospiti, quello che gli altri chiamano Morel, dice ad un altro: “e se le dicessi che sono registrati tutti i suoi gesti e le sue parole?”. Morel ha inventato e costruito una macchina per registrare la vita.

 2.      Apocatastasi

Il narrante ascolta la “rivelazione” di Morel: “tutti i nostri atti sono rimasti registrati (…) vivremo per l’eternità”.

L’ipotesi di Morel è che, una volta riuniti in una “ripresa” totale tutti i simulacri sensibili dei corpi viventi, l’anima sorga di conseguenza. Egli ritiene che si possa così “registrare”, rendendola eterna, la vita stessa e non solo le sue apparenze simulacrali.

3.      Metacosmo

Il narrante si è innamorato perdutamente di Faustine, ma sa che non potrà “comunicare” con lei. Il presente della vita di Faustine non è il suo presente. Convivere con lei significherà progettare la propria vita futura sull’ineluttabile del “già-stato”.

Sulle prime il narrante non presta fede all’ipotesi metafisica di Morel. La nostra vita, egli sembra pensare, è spontaneità, essenziale libertà, mentre quella “registrata” di Faustine è l’assoluta necessità del passato, del passato eterno. Eppure la non-vita di quei simulacri è tale forse solo per noi che viviamo in un’altra dimensione temporale. E se anche noi “non-vivessimo”? Se anche noi vivessimo come simulacri registrati? Se anche la nostra vita fosse solo eterno passato che si ripete? Il narrante ha accettato l’ipotesi di Morel, traendone le dovute conseguenze.

Fermiamo un attimo il nostro commento e domandiamoci: siamo abitatori di un cosmo in cui tutto accade come eternamente accaduto, secondo ferrea necessità, in cui tutto ciò che facciamo (che decidiamo di fare) è già stato deciso, oppure il nostro fare deve essere pensato come “attualità” di un non-fare sempre “possibile”, come attualità di quella “libertà dal fare” di cui Epicuro ci racconta che consista la vita degli dei nel metacosmo (perfetta scholé direbbe Massimo Cacciari)? Ma torniamo a Casares.

4.      Il dramma e la decisione

“Non c’è altra Faustine che quest’immagine, per la quale io non esisto”. La consapevolezza di questo dramma metafisico spinge il narrante ad una decisione estrema. Registrerà sette giorni della sua “vita” con (?) Faustine, recitando la sua parte su quell’eterno passato. “Spero che, in genere, diamo l’impressione di essere due amici inseparabili, di capirci senza bisogno di parole”.

Le macchine proietteranno la nuova settimana eternamente.

5.     La gioia e l’atto pietoso

“La gioia di contemplare Faustine sarà lo stato in cui vivrò per l’eternità”: contemplazione mistica senza indiamento, inferno paradisiaco, paradiso infernale. Trionfo della necessità?

Se anche la decisione del narrante, soggettivamente “libera”, può essere intesa, secondo l’ipotesi di Morel, come ripetizione eterna di un già-stato, dovremo concludere che la liberà è solo l’eterna illusione dell’uomo? Ma forse non è così e, comunque, c’è ancora qualcosa da dire.

A chiusura del racconto il narrante supplica quell’uomo, che forse un giorno riuscirà ad inventare una macchina capace di “riunire le presenze disgregate”, affinché unisca le due vite separate. “Cerchi Faustine e me, e mi faccia entrare nel cerchio della coscienza di Faustine. Sarà un atto pietoso”. 

Ciò che la supplica del narrante chiede è l’impossibile per eccellenza: un atto di libertà che possa volere a ritroso. Ma tale potenza di libertà, è stato detto, pare non sia concessa neppure a Dio.

Tuttavia questa supplica riporta in primo piano l’esigenza umana di libertà, questa sì reale e non illusoria: essa ci dice ulteriormente che senza l’eterna ricerca della libertà il “fenomeno umano”, così come l’abbiamo finora conosciuto, non sarebbe comprensibile[1]


* Il presente testo è stato già pubblicato, in una versione leggermente diversa, nella rivista Coincidences (n° 12, Marseille, Juin 1996) diretta da Roland Caignard.

[1] Le citazioni da L’invenzione di Morel sono tutte tratte dalla traduzione italiana del testo curata da Livio Bacchi Wilcock ed edita da Bompiani (Milano, 1989, II edizione dei “Tascabili Bompiani”).  

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