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L'antropologia filmica: una genesi difficile ma promettente
di Claudine de France

 

Un vasto campo di studi dai contorni sfuocati

 

Affrontare la questione degli ambiti dell'antropologia filmica non è cosa semplice. Definendo l'oggetto di questa disciplina come l'uomo e l'immagine dell'uomo si intravede un ben vasto campo di studi per il ricercatore.

 

In linea di massima, nessun modo di vivere o di esprimersi degli uomini, o dei gruppi umani, quali che siano, è estraneo all'antropologia filmica, la cui materia è la cultura stessa. E se, nella sua accezione più ampia ispirata alla definizione di Taylor, la cultura è tutto ciò che l'uomo aggiunge o sostituisce alla natura, allora la restituzione animata, attraverso il film, di tali differenziate forme di aggiunte e sostituzioni, ovunque esse si producano, testimonia nel modo più ampio e più aperto possibile della loro unità e della loro diversità.

 

Dato che ogni fugace e fluente manifestazione può essere filmata, l'antropologia filmica non si applica soltanto allo studio degli uomini nelle società di tradizione orale, che si mettono in scena col gesto e la parola, ma anche a quello degli uomini nelle società di cultura scritta, dove gran parte dell'attività sociale si esprime attraverso gesti, parole e modi di fare. Se l'antropologia filmica accosta l'uomo dal lato delle sue apparenze, prestando grande attenzione alla loro resa, è sia per l'interesse che queste offrono in sé, sia per ciò che esse esprimono, o dissimulano, e che è invisibile per ragioni di carattere strutturale (non sensibile, dunque non mostrabile) o contingente (sensibile ma non mostrato). Non ci si stupirà dunque dell'inesauribilità dell'oggetto di questa disciplina in quanto a comprensione. In effetti, esso include tutto ciò che si trova sulla linea che congiunge la più piccola apparenza d'attività umana, o del suo prodotto, a ciò che questa stessa apparenza esprime, o dissimula, della società alla quale rinvia. Ciò va dalle manifestazioni concrete momentaneamente nascoste nel campo dell'immagine, oppure lasciate fuori campo, fino a strutture, significazioni, valori, funzioni, norme e regole sottostanti ogni apparenza. Ma l'ambito di studi dell'antropologia filmica è altrettanto vasto in estensione.

I suoi oggetti sono molteplici. Inesauribilità e diversificazione hanno per effetto di estendere all'infinito le frontiere della disciplina e di confonderla a volte con altre discipline delle scienze umane sul cui terreno ha sconfinato. E' così che l'antropologia filmica si dedica talvolta ad avvenimenti, ad azioni non mostrabili, che si dispiegano sull'asse temporale, evocabili soltanto con la parola, o con la ricostruzione storica. Storie di vita, testimonianze individuali o collettive di eventi di un passato inaccessibile all'immagine diretta, frammenti dell'unità di un gruppo umano contesi all'oblio. Memoria vivente, l'antropologia filmica sostituisce qui la tradizione orale, assicurando la trasmissione di valori e fatti che, senza di lei, sparirebbero con la scomparsa degli ultimi testimoni. Appoggiandosi all'evocazione verbale e alla ricostituzione audiovisiva di fatti ed ambienti, l'inchiesta dell'antropologo-cineasta si avventura nel campo dello storico, del giornalista televisivo e del cineasta di finzione. Si capisce perciò che simili lavori escano più facilmente dai "cassetti" del patrimonio filmico degli antropologi facendosi strada sulle scene della diffusione televisiva. Ma contemporaneamente si spiega come mai essi tendano spesso a modellarsi sulla messa in scena dei film di finzione o dei reportages televisivi.

Lo stesso accade nel vasto ambito del non mostrabile strutturale cui il film accede solo con l'intermediazione del linguaggio. E' il caso, ad esempio, delle rappresentazioni mentali (miti, credenze, opinioni, sentimenti, ecc.) e dei processi sociali o culturali (sviluppo, conflitti di potere o di valori, ecc.). La loro valorizzazione filmica richiede talvolta una messa in scena che, descrivendo o meno una cronologia di comportamenti, si appoggia su una tematica astratta o su una problematica di cui l'immagine illustrerà, trasversalmente, certi aspetti o momenti privilegiati della sua rappresentazione materiale. Ancora una volta, l'inchiesta filmica dell'antropologo si avvicina sensibilmente a quella del sociologo.

Casi ancor più delicati, riguardo alle frontiere della disciplina, sono quelli in cui la cinepresa mette a nudo aspetti, manifesti o diffusi, della nostra società che per diverse ragioni releghiamo ai margini delle nostre preoccupazioni, o nei reconditi meandri del non-detto e del non-visto. Mi riferisco a quei gruppi umani, a quelle minoranze etniche o culturali, nei cui confronti ogni società, nelle convulsioni del suo sviluppo o per il peso della cultura dominante, secerne sradicamento, marginalizzazione o una troppo brutale assimilazione. Nel testimoniare dei modi di vivere e di pensare di questi gruppi cercando di situarli nell'insieme sociale di cui fanno parte, l'inchiesta filmica dell'antropologo approda sovente ad un'esplicita esposizione di problemi di carattere sociale. Sollecitato dalle stesse persone filmate, il ricercatore sarà tentato di non limitarsi a testimoniare della loro situazione ma di mettere a loro disposizione il film come elemento di lotta nei confronti del potere dominante. Condotta a questo scopo, la sua ricerca si trasformerà impercettibilmente in un atto d'animazione o d'intervento sociale.

L'ambito dell'antropologia filmica non è sempre stato così vasto come oggi ci appare. Vasto, lo è diventato progressivamente, trasformandosi per ragioni di carattere strumentale o ideologico nel corso della storia del film etnografico. Paradossalmente, ciò che contribuisce a rendere sfuocati i contorni della disciplina è di per se stesso la prova della sua sorprendente vitalità. A seconda, quindi, della strumentazione audiovisiva utilizzata (apparecchi di registrazione e di diffusione), alcuni ambiti o temi sono stati privilegiati dal film etnografico a scapito di altri. Ai tempi del cinema documentario muto o post- sincronizzato, l'accento è stato messo su ciò che risulta più direttamente accessibile all'osservazione visiva. L'ambito del film etnografico si è così limitato a ciò che chiamerei la base classica della disciplina: la descrizione dell'azione dell'uomo sull'ambiente (tecniche materiali), di cui abbiamo un eccellente esempio in The Hunters di John Marshall (1956); i rituali quotidiani o cerimoniali d'azione dell'uomo sulle divinità (danze, sacrifici, ecc.), di cui testimoniano i film di Marcel Griaule (per esempio, Sous les masques noirs, 1938); le tecniche d'azione sul corpo o "tecniche del corpo", filmate ad esempio da Margaret Mead et Gregory Bateson in Trance and dance in Bali (1936-1938). L'espressione verbale, quando esisteva, era accaparrata da un commentatore esterno alle persone filmate, le cui parole venivano trascritte oppure registrate in differita rispetto alle immagini.

Gli effetti dei condizionamenti dovuti alle strumentazioni sono stati rafforzati dall'ambiente ideologico che imperava durante tutto il periodo del cinema sonoro post-sincronizzato. Così in Francia, il film post-sincronizzato degli anni '30-'40- '50 ha coinciso con gli ultimi fuochi dell'epoca coloniale. Similmente, rispetto agli ambiti filmati, sono stati privilegiati l'esplorazione di culture altre da quella dell'antropologo-cineasta e tutto ciò che, nel comportamento di tradizione orale delle popolazioni filmate, si distingueva maggiormente dalla cultura occidentale (danze, rituali magico-religiosi, tecniche tradizionali, ecc.). L'accento è stato posto sulla differenza nei confronti di un mostrabile lontano di difficile accesso e, più in generale, sulla scoperta di un nuovo spazio umano.

La comparsa, nel 1960, di tecniche leggere per la registrazione sincronizzata delle immagini e dei suoni, e più tardi quella delle tecniche di videografia (1970), hanno rivoluzionato il panorama del film etnografico. Generalmente, queste nuove tecniche hanno permesso d'approfondire l'inchiesta filmica e di conquistare, scoprendolo, non più solo lo spazio ma anche il tempo degli uomini. Gli ambiti di studio si sono considerevolmente allargati nel momento in cui è stata data, sul terreno stesso dell'inchiesta, la parola alle persone filmate e quando è diventato possibile filmare, in relativa intimità, lunghi piani sequenza di ore ed ore. Hanno potuto essere affrontati diversi temi rimasti, fino ad allora,

inesplorati. Si è così aggiunta alla semplice descrizione visiva delle attività osservabili e mostrabili l'espressione verbale diretta, da parte degli stessi interessati, di rappresentazioni mentali non mostrabili, come il vissuto, le emozioni, le interpretazioni, i giudizi. Temi precedentemente riservati all'antropologia scritta, come i ritratti o gli autoritratti, sono diventati, attraverso l'autocommento, appannaggio della parola delle persone filmate. Lo stesso orizzonte della descrizione visiva del gesto si è allargato grazie alla presentazione continuata ed accurata delle tecniche del corpo che accompagnano la parola: mimiche, posture prolungate, continuum gestuale dei narratori, dei cantanti, dei musicisti e, in genere, supporto materiale costante della retorica degli uomini e delle donne in ogni circostanza della vita quotidiana. Pur continuando a sussistere la base materiale mostrabile, senza la quale il film non è immaginabile, il suo peso specifico e la sua densità sono diminuiti a profitto dell'espresso non mostrabile veicolato dalla parola.

Lo sviluppo di queste nuove attrezzature audiovisive si è trovato a coincidere con il movimento di decolonizzazione degli anni '60. Sull'onda di questo movimento, gli antropologi-cineasti hanno parzialmente ceduto i loro strumenti a coloro che avevano fino ad allora filmato, i quali, divenuti indipendenti, si sono a loro volta impossessati della macchina da presa. Contemporaneamente, gli antropologi si sono a poco a poco rivolti verso la loro propria cultura facendone un oggetto di studio. Provvisti di un potente strumento, capace di rendere la parola, il gesto ed il tempo, hanno, da quel momento in poi, seguito diverse strade. Gli uni, da etno-sociologi, si sono applicati ad esprimere i problemi sollevati dai cambiamenti sociali; gli altri, riprendendo la tradizione della descrizione etnografica, si sono soffermati sull'inestricabile tessuto di fatti e di gesti quotidiani e banali della loro propria società, nei quali ciascuno è continuamente immerso e che passano, perciò, inosservati. Questi fatti e questi gesti, le cui regole di strutturazione si trasmettono per tradizione orale e semplice imitazione, sono costantemente presenti e mostrabili ma spesso trascurati proprio perché diffusi o troppo fugaci. Essi diventano invece, per chi sa scoprirli, osservarli e descriverli, dei rivelatori incontestabili del funzionamento, delle strutture e dei valori - spesso antagonistici - di una società. Perché se l'uomo è nella società, la società è altresì nell'uomo, rivelandosi ad ogni istante nei gesti di ogni individuo.

Qualunque sia l'avvenire dell'antropologia filmica, il suo campo d'applicazione si modificherà senz'altro ulteriormente, secondo le trasformazioni dei suoi strumenti e la congiuntura scientifica. Più precisamente, le sue frontiere continueranno a spostarsi per effetto delle fluttuazioni epistemologiche che tendono a trasformare lo statuto del soggetto e dell'oggetto della conoscenza, dell'osservatore e dell'osservato, della relazione stessa tra osservatore e osservato. Se ne percepiscono già alcuni movimenti. La produzione di film etnografici o affini, benché emanazione di ricercatori o cineasti sempre più numerosi, tende ad abbandonare il periodo "eroico" dell'accumulazione per inoltrarsi in una fase di esame critico e di riordino che apre una nuova era della disciplina. Sul piano della strumentazione, il ricorso al supporto magnetico di registrazione e di diffusione delle immagini, proprio della videografia, sviluppando le possibilità di circolazione, di scambio e di consultazione individuale dei prodotti filmati, permette finalmente di prevedere un confronto progressivo e sistematico dei lavori accumulati da circa un secolo. Vi si aggiungono attualmente le possibilità quasi illimitate di conservazione e di riproduzione delle immagini grazie alle tecniche video-informatiche dell'immagine digitale. Ma i considerevoli progressi compiuti dalle strumentazioni sono accompagnati e rafforzati da un'evoluzione di carattere epistemologico che tende al relativismo ed al (retournement sur soi) volgersi verso se stessi degli artigiani del film etnografico.

I ricercatori non si sono solo volti, come in molti casi, verso la loro stessa società ma si sono anche volti verso se stessi in quanto osservatori e commentatori della vita degli altri. Esaminando criticamente la propria inchiesta, nel corso stesso della realizzazione del film, gli antropologi-cineasti tendono ad interrogarsi sui fondamenti e sulle modalità della relazione tra filmante e filmato. Cercano pertanto di moderare le posizioni universalistiche del ricercatore, riguardo a ciò che afferma degli esseri filmati, e di situarsi essi stessi il più chiaramente possibile all'interno della relazione d'osservazione. Abbandonando un confortevole anonimato, il ricercatore-cineasta si palesa allo spettatore, tanto quanto rende palesi gli esseri che filma. Non espone più certezze assolute ma un punto di vista argomentato, acquisito a prezzo di un'inchiesta di cui sono, qua o là, precisate incertezze e difficoltà. La sicurezza dei risultati e perfino la validità del procedimento vengono messi in discussione ad ogni istante. Allo stesso modo sono precisate le illusioni dovute alla messa in scena: ciò che l'immagine ha deliberatamente occultato o non ha accidentalmente potuto mostrare. Sono insomma relativizzati i poteri conoscitivi e sono suggerite - se non dimostrate – le condizioni in cui sono state ottenute le immagini e le informazioni verbali. Testimoniano in tal senso i film di David MacDougall, Jean Rouch, Marc Piault, Eliane de Latour, ecc. In realtà, questo sforzo di trasparenza nella relazione d'osservazione e d'inchiesta si ottiene grazie ad un parziale spostamento, nella messa in scena della ricerca, del centro d'interesse dall'essere osservato verso l'osservatore: l'oggetto dell'inchiesta viene spartito tra filmato e filmante. E' importante tuttavia tener presente, e qui risiede una delle difficoltà del procedimento, che lo spostamento del centro di gravità tematico si opera più con la parola che con l'immagine. Difatti, è in genere sotto forma di commento constatativo o critico, effettuato nel corso stesso delle riprese (commento immediato "a caldo") o introdotto in sede di montaggio (commento differito), che si esprimono le lacune dell'immagine. Solo la parola è in grado d'attenuare gli effetti della non trasparenza metodologica del filmato. Ne risulta una tendenza all'ingombro verbale dell'immagine da parte del filmante, che tende a indebolire lo spessore degli esseri filmati. Nel peggiore dei casi, questi ultimi appariranno come un pretesto all'espressione personale del filmante.

Nonostante tale condotta comporti il rischio di cadere nell'intimismo, da cui si potrebbe arguire una decadenza del film etnografico, sembra che i tentativi di spostamento tematico dal filmato verso il filmante, quali che siano le forme che assumono, testimonino di una maturazione della disciplina. Il patrimonio culturale acquisito dall'antropologia filmica è tale da permetterle d'interrogarsi, nel corso stesso dell'esperienza, sulle modalità di quest'acquisizione.

Ricerca fondamentale, tempo e descrizione

Come ogni disciplina, l'antropologia filmica possiede la sua gamma di metodi. Sebbene a volte resi espliciti, discussi, questi restano più spesso impliciti,persino negati: in quest'ultimo caso gli antropologi-cineasti preferiscono "trovare le soluzioni strada facendo" "dimostrare di saper camminare camminando"["prouver le mouvement en marchant"]. Sono anche in causa le condizioni artigianali della realizzazione dei film etnografici, associate al rigetto dello scritto. Per alcuni, l'esperienza di cineasta è più legata all'arte che alla scienza, alle doti individuali o all'ispirazione più che a regole proprie ad una comunità scientifica.

Eppure esistono alcuni principi che contribuiscono a formare il "nocciolo" della disciplina. Più rigorosamente li si applica e più la disciplina ne guadagna in specificità, ma il percorso risulta più ingrato e i prodotti – salvo eccezioni – di non sempre facile digeribilità. Più si applicano con lassismo questi stessi principi e più il film etnografico diventa commestibile, ma, in compenso, tende ad avvicinarsi ad altri generi di documentari (reportages giornalistici, film sociologici, d'intervento sociale o d'animazione culturale), o ad altri generi cinematografici (film di finzione). L'antropologia filmica tende allora a dissolversi in altre discipline vicine o ad allontanarsi dalla ricerca fondamentale.

Mi limiterò ad evocare alcuni di questi principi, che mi pare formino un blocco unico, nel momento in cui viene presa come finalità una delle due facce della disciplina: la conoscenza dell'uomo attraverso l'immagine.

Innanzitutto, prendendo in considerazione l'antropologia filmica unicamente sotto l'aspetto della ricerca fondamentale, diventa prioritaria la conoscenza o, se si preferisce, la scoperta dell'oggetto osservato. Se un destinatario immediato di tale ricerca esiste, questi presenta la particolarità di confondersi con il ricercatore stesso, in quanto quest'ultimo fa parte della comunità dei ricercatori che hanno precedentemente contribuito alla scoperta dell'oggetto o che potranno posteriormente beneficiare delle scoperte attuali e proseguire l'indagine.

Confondendosi con il ricercatore stesso, il destinatario immediato della ricerca non appare in quanto tale e può anche sembrare inesistente. E' invece presente ad ogni istante. Certo, esiste necessariamente anche un destinatario lontano, costituito da un più largo pubblico di spettatori ai quali sarà presentato il film dell'inchiesta. Ma nella ricerca fondamentale, questo destinatario lontano, anche se scontato, resta facoltativo. In tal senso si può affermare che l'attività di ricerca trova in se stessa la sua finalità. Su questo piano, l'antropologia filmica continua a seguire la regola. Una conseguenza di questo primo principio è che nella ricerca fondamentale ogni realizzazione di film etnografico è, per definizione, destinata all'osservazione differita di ciò che ha prodotto. Le immagini raccolte e montate (il filmato) hanno immancabilmente per vocazione - se non per unica vocazione - d'essere esaminate per approfondire la conoscenza del reale (il filmabile). Non è però lecito concluderne che convenga tendere, nel modo di filmare, verso una restituzione esaustiva del reale. Al contrario. L'apprendere filmico del reale è sempre condizionato, lo ricordo, da leggi di messa in scena che impediscono a priori una presentazione esaustiva delle cose e dalle quali è possibile, ad ogni istante, trarre profitto per mettere in evidenza un aspetto del reale a detrimento degli altri.

Privilegiare la ricerca fondamentale ha per corollario un secondo principio sul quale non si insisterà mai abbastanza: si tratta del tempo o, più esattamente, della disponibilità temporale dell'antropologo-cineasta nel corso delle diverse tappe dell'inchiesta filmica. Non essendo un cacciatore d'immagini che fa razzia di qua e di là, il ricercatore-cineasta accompagna invece, per un certo tempo, le persone filmate. A volte deve sedentarizzarsi e, come un coltivatore, preparare il terreno, seminare, e quindi attendere il raccolto. Non ha molta importanza che il periodo d'inserimento, preparatorio alle riprese, sia corto o lungo. L'essenziale è che il ricercatore sia pronto ad affrontare la durata d'inserimento imposta dagli esseri filmati, e non imponga lui stesso i propri tempi. In materia d'inserzione l'essere filmato detta legge. In compenso, il ricercatore gli impone qualche sacrificio, turbando la sua routine e spingendolo a svelare l'inespresso. Per di più, l'antropologo-cineasta deve anche essere disposto ad affrontare i tempi morti, di pura attesa, della propria attività (lunghi anni d'attesa sono stati necessari, come si sa, a Jean Rouch e Germane Dieterlen per la realizzazione di Fêtes soixantenaires du Sigui tra i Dogon). Le persone filmate sono sempre i detentori dell'inizio, spesso imprevedibile, dei loro rituali. A questo riguardo sono i padroni del tempo. La disponibilità temporale del ricercatore è altrettanto necessaria durante la fase di registrazione propriamente detta, quando la cooperazione con la gente filmata "è al culmine". Direi di più: questa disponibilità è tanto più necessaria quanto più il ricercatore si dedica alla descrizione di attività materiali apparentemente semplici, a carattere tecnologico, come, ad esempio, una semplice fabbricazione artigianale. Paradossalmente, più il soggetto è semplice e ridotto alle sue concrete apparenze, più il suo apprendimento [studio filmico] è lungo, perché sottoposto alla dura legge della micro-descrizione. Per di più, le attività materiali sono spesso ripetitive, cosicché l'antropologo-cineasta può fare direttamente esperienza dei tempi deboli della propria attività. Questa consiste nel ripetere parecchie volte la registrazione di uno stesso processo per poterne progressivamente evidenziare diversi aspetti ed approfondirne la conoscenza. Ho precedentemente evocato una conquista, da parte dell'antropologo-cineasta, nei confronti del tempo dovuta alle trasformazioni delle strumentazioni audiovisive. Tale conquista si concretizza essenzialmente nel momento in cui il film etnografico non si accontenta più di offrire solo le immagini dei tempi forti dell'attività umana (stato critico, drammi conflittuali, climax delle cerimonie parossistiche), ma si dedica anche alla restituzione dei tempi deboli (atti ripetitivi anodini) e morti (silenzi, apparente mancanza d'attività) degli esseri filmati. In poche parole, la conquista nei confronti del tempo consiste anche nel valorizzare i lunghi momenti che separano i tempi forti della vita di un gruppo o di un individuo. Al di là dell'inserimento e della registrazione comincia il lungo gioco di pazienza che implica il va e vieni tra l'inchiesta prettamente audiovisiva e quella orale che consiste nell'interrogare le persone filmate a partire dalle immagini registrate. Qui il tempo non conta più, si dilata all'infinito. Il ricercatore può essere indotto ad un'esplorazione senza fine, perché ogni nuovo interrogativo, ogni dialogo, comporta l'eventualità di altre registrazioni, aprendo nuovi percorsi d'indagine, o rinviando la verifica di alcune ipotesi.

Nell'attuare un'inchiesta filmica, è bene dunque instaurare, di comune accordo, tra filmante e filmati una relazione di cooperazione di cui l'elemento chiave è il tempo. Solo il tempo conferisce, infatti, a questa relazione il respiro necessario al suo sviluppo, al rispetto dei suoi riti, delle sue norme,delle sue regole. Talvolta però, questa disponibilità temporale appare come un condizionamento difficilmente compatibile con le condizioni materiali o finanziarie della realizzazione di film documentari a carattere etnografico. La disponibilità temporale può essere considerata come un atteggiamento metodologico del ricercatore. Per la sua piena attuazione, deve essere messo al suo servizio un insieme di procedure. Tra queste figura la descrizione, terzo principio fondamentale in antropologia filmica. Padrona del proprio tempo, la descrizione delle manifestazioni sensibili, concrete dell'attività umana,principalmente di natura non verbale, è essenziale per capitalizzare materiali che non siano unicamente utilizzabili dai linguisti o dagli specialisti in scienze dell'informazione e della comunicazione, ma innanzi tutto dagli antropologi. Perché, contrariamente a quanto auspicato da Margaret Mead, l'antropologia detta "visiva", succube delle trasformazioni del suo strumento, è diventata una disciplina "of words". E' vero che a parlare non sono più proprio gli stessi, perché la parola degli antropologi è stata in parte ceduta alle persone filmate. Ciò nonostante, l'antropologia filmica rimane, per molti aspetti, una disciplina troppo loquace. Un buon numero delle sue opere risultano affini ai film prodotti per un destinatario immediato che coincide con lo spettatore televisivo, al quale conviene presentare i fatti con l'aiuto della guida più sicura e più diretta: la parola. Gli argomenti a favore di questa tendenza non mancano. Ci si appoggerà, ad esempio, sul fatto che il materiale di base dell'antropologia filmica è la tradizione orale per concludere che bisogna prestare altrettanta attenzione alla descrizione delle parole che a quella dei gesti, ai contenuti delle espressioni verbali che alle attività non verbali, in quanto gli uni e gli altri testimoniano della cultura specifica di un gruppo umano, delle modi di essere di un individuo. Lungi da me l'idea di bandire la parola dal film etnografico, sia essa emanazione degli esseri filmati o del ricercatore. Una tale mutilazione sarebbe tanto più assurda in quanto la disciplina possiede ormai lo strumento che le permette di restituire e d'analizzare, se non altro tutto ciò che riguarda da un lato le apparenze della parola, la messa in scena che le è propria (vocalità, mimica, ecc.), dall'altro ciò che si situa tra le parole (respirazione, silenzi, ecc.). Sembra tuttavia che l'indagine abbia tutto da guadagnare da un dosaggio equilibrato tra parola e gesto così come dal rispetto del seguente principio elementare: la restituzione o l'utilizzazione filmica della parola non è indispensabile ogni qualvolta questa sia impiegata come mezzo evocatore, sostitutivo di fatti e gesti che possono invece essere mostrati dall'immagine. La flessibile applicazione di questo principio permette al film etnografico di non lasciarsi tentare da facili soluzioni troppo loquaci che non sono che scorciatoie nella ricerca imboccate a detrimento di una paziente descrizione dei fatti. Più l'inchiesta filmica cede alla loquacità, più essa tende, ancora una volta, ad avvicinare il film etnografico al reportage televisivo, dove le immagini servono da sfondo alla testimonianza orale.

Al di là del problema del dosaggio tra descrizione verbale e non verbale, resta in sospeso la questione più generale della legittimità stessa della descrizione in antropologia filmica. Perché concederle tanto spazio? Tra le molte risposte possibili ne anticiperò due. Innanzitutto, accordando alla descrizione un posto privilegiato, se non esclusivo, l'antropologia filmica non si accontenta di essere l'imitazione o il prolungamento dell'etnografia classica. Essa ne diventa la piena realizzazione, finora ritardata, perché le fornisce alfine lo strumento a cui aveva diritto. Considerata con il necessario distacco che l'esperienza dell'immagine animata consente di prendere, l'etnografia classica, basata sull'osservazione diretta, sull'inchiesta orale e sullo scritto associati, appare come un semplice precursore dell'antropologia filmica. Pur non volendo incorrere in un atteggiamento finalistico, i modi di descrizione scritta ai quali essa ha dato origine possono essere considerati dei balbettii infantili a confronto con le possibilità descrittive offerte dal film etnografico. Per di più, le lacune della descrizione filmica possono essere colmate dallo scritto, sempre disponibile. Si è solo capovolta la gerarchia tra i diversi mezzi d'espressione utilizzati. Vuol dire che l'antropologia filmica fornisce per la prima volta i mezzi per la piena realizzazione di una descrizione di cui, grazie all'immagine, cominciano appena ad essere sfruttate le possibilità.

In secondo luogo, privarsi a priori della descrizione significa escludere, fin dai primi momenti dell'indagine, l'utilizzo di alcune potenzialità dell'immagine animata. Innanzitutto il ricercatore si priva di una esplorazione minuziosa del reale e la materia del suo esame si riduce a suggestioni filmiche di fatti. Per di più, il rifiuto della descrizione tende a limitare l'immagine ad una funzione d’illustrazione di un tema generalmente veicolato dal linguaggio. Più le immagini si vedono imporre, già in fase di registrazione, una funzione di semplice illustrazione e meno si prestano ad altre funzioni. L'esclusiva funzione d'illustrazione, esaurisce immediatamente il loro potenziale di altre possibili funzioni. In compenso, delle immagini descrittive possono, salvo eccezioni, essere utilizzate anche a fini illustrativi, secondo il detto: "Chi più può, meno può". In questo senso, la descrizione è più che legittima, è inevitabile. Ne fanno le spese parecchi cineasti che credono di poterla eludere, sia perché descrivono senza saperlo, sia perché, rinunciando a descrivere, realizzano, senza saperlo, una cosa diversa da un film etnografico.

I moderati rigori della descrizione

Cosa s'intende esattamente con descrizione? Leggendo ciò che precede, si sarebbe tentati di credere ch'essa consista nel non lasciare niente nell'ombra, e nell'essere esclusivamente attenti ai dettagli delle azioni e delle cose. Non è affatto vero. La descrizione ha i suoi rigori, a volte dissuadenti, ma non è sprovvista di duttilità. Inoltre, essa è sempre associata, con minor o maggior intensità, alla narrazione. In senso generale, descrivere consiste nel darsi tempo per osservare e per mostrare. Il tempo deve poter essere sufficientemente sperperato in modo che ciò che l'immagine mostra vada al di là di un semplice abbozzo di gesti, azioni, avvenimenti senza seguito, per offrire una presentazione accurata delle manifestazioni sensibili riguardo a un tema che queste avviluppano debordandolo sempre un po'. Ciò significa che una descrizione filmica possiede un'ampiezza, nel tempo e nello spazio, che tende possibilmente a restituire tutto lo spessore del reale, rendendolo corposo, con, ancora una volta, i suoi tempi forti, i suoi tempi deboli, ma anche i suoi tempi morti, fino alla pura e semplice attesa silenziosa degli esseri filmati.

Ciò nonostante, non può che trattarsi di una trasposizione realistica delle cose, essendo anche la più dettagliata descrizione filmica, lo ripeto, una messa in scena, sottoposta in primo luogo alle leggi scenografiche d'esclusione e d'ingombro, nei modi in cui queste si configurano in cinematografia documentaria. Se, per la legge d'esclusione, mostrare una cosa significa simultaneamente nasconderne un'altra e se, per la legge d'ingombro, mostrare una cosa comporta simultaneamente mostrarne un'altra, allora nessuna descrizione, per quanto fedele, può essere esaustiva né, quanto a precisione, totalmente controllata.

L'antropologo-cineasta deve attuare ad ogni istante un sottile compromesso tra le due opposte tendenze della descrizione. L'una lo spinge necessariamente a ingombrare l'immagine con elementi apparentemente estranei al suo proposito (preoccupazione di ricchezza), l'altra ad eliminare dalla stessa immagine gli elementi apparentemente superflui (preoccupazione di precisione). Questo compromesso si traduce in scelte di messa in scena (inquadrature, punti di vista, durata dei piani, ecc.) di cui poco importa che siano più o meno soggettive, o più o meno coscienti. L'essenziale è che il ricercatore sappia che la precisione della descrizione s'accompagna inevitabilmente ad un margine di flou, da cui può trarre vantaggio sul piano cognitivo. Il mostrare con precisione richiede il paziente sguardo del tecnologo che prende in esame le apparenze (manifestazioni, forme) dell'attività umana, preoccupandosi di esplorare la maniera in cui gli eventi, le azioni, i gesti ed i più piccoli oggetti si dispongono, in relazione reciproca, nello spazio e nel tempo.

L'esplorazione minuziosa del reale comporta a volte l'addentrarsi in profondità nella descrizione continuata ed accurata, per quanto ingrata essa possa essere. Per questo è necessario, in questo caso, che il ricercatore sia anche alla macchina da presa, responsabile ad ogni istante delle scelte, così come lo scrittore lo è del testo. Ciò vale non solo per lo studio delle azioni materiali considerate in quanto tali (tecniche di fabbricazione, tecniche del corpo, ecc.), ma anche per scoprire, come precedentemente sottolineato, le manifestazioni più effimere e più discrete della socialità di un gruppo umano, a partire dai più banali gesti rituali della vita quotidiana.

Eppure mostrando bisogna accettare il fatto che una parte delle cose (azioni, oggetti, eventi), si sottrae immancabilmente a questa descrizione precisa, in quanto coperta, smorzata o esclusa dalla scena filmica. Questa parte, nella quale si identifica il margine di flou di ogni descrizione, può essere solo suggerita dall'immagine, della quale essa ingombra e al tempo stesso prolunga lo spazio ben oltre i bordi. Proprio dalla presenza di questo margine di flou trae origine l'espressione dell'atmosfera delle azioni degli esseri filmati, essenziale dimensione del reale. In altri termini, l'espressione di quella dimensione indefinibile del reale che è l'atmosfera, si esplica in ogni descrizione filmica nell'accuratezza con cui il ricercatore cineasta stabilisce una relazione tra ciò che mostra accuratamente e ciò che solo suggerisce, giocando sul registro visivo (atmosfera visiva) o su quello sonoro (atmosfera sonora).

Tuttavia, se nel cinema antropologico il ricorso a procedure di suggestione è un complemento indispensabile all'accuratezza descrittiva, non è sempre facile, per l'antropologo-cineasta, dosare precisione e suggestione a profitto della descrizione accurata. Per questo spesso la suggestione del "l'artista" prevale sulla precisione del "tecnologo". Ne risultano film detti d'atmosfera in cui predominano degli accenni descrittivi senza continuità, legati tra loro più da ciò che si indovina che da ciò che si vede veramente. La descrizione filmica accurata non solo implica un certo margine di flou ma non è neppure necessariamente micro-descrittiva, ossia legata al dettaglio di ogni azione. Essa può anche essere macro-descrittiva, ossia volta ad insiemi di azioni o di fatti. Lo spirito della descrizione permane malgrado il cambiamento nell'ordine di grandezza. Ciò è risaputo. Non viene invece sempre precisato ciò che permette di distinguere le loro rispettive messe in scena. Ogni descrizione, che s'interessi all'insieme o al dettaglio, si sceglie un filo conduttore longitudinale o trasversale (fabbricazione di un oggetto, cronaca di una giornata, ritratto di una vita, cerimonia, forme comparate di esercizio del potere, ecc.). Questo filo conduttore possiede un valore narrativo, per quanto debole possa essere. A seconda del filo conduttore prescelto, si costruisce una descrizione le cui unità tematiche di base, nello spazio e nel tempo, saranno di dimensione variabile, e daranno origine a messe in scena ben differenti.

Le forme micro-descrittive di presentazione che si possono incontrare nei film tecnologici consacrati, ad esempio, ad attività artigianali o domestiche, non costituiscono che un caso di descrizione tra i tanti. Ne ho fatto esperienza io stessa a più riprese (La Charpaigne, Laveuses). In questo tipo di ricerca filmica, l'unità tematica di base della descrizione ha come referente spaziale il gesto individuale, per esempio il lavoro della mano nei confronti dell'insieme del corpo. Questo referente spaziale è simultaneamente associato a quello temporale la cui unità di base è costituita da una compiuta operazione materiale, ossia da ogni tappa della trasformazione dell'oggetto lavorato alla quale concorre un insieme di gesti (per esempio, il montaggio e poi l'intreccio di una cesta). In cosa consistono, in questo caso, l'accuratezza e la continuità descrittiva? Consistono nella restituzione ravvicinata della concatenazione di gesti ed operazioni, senza pregiudicare i momenti-chiave (tempi forti), e nella percezione quasi permanente di ciò che ho altrove chiamato il "polo operatorio" dell'azione materiale (spazio privilegiato).

All'opposto, le forme di presentazione macro-descrittive, che s'incontrano in film come Dead Birds, Netsilik, To live with the Herds, Sigui, ecc., si fondano su vaste unità tematiche di base il cui referente spaziale è, ad esempio, l'attività di un gruppo (guerriero, religioso, economico) preso nel suo insieme. A questo referente spaziale ne è associato uno temporale, come un ciclo stagionale di lavori quotidiani o, ancora, una tappa, più o meno lunga, della catena rituale dei cerimoniali del gruppo.

L'accuratezza e la continuità descrittiva di questi vasti insiemi non consistono più, evidentemente, in una restituzione ravvicinata del preciso concatenamento dei gesti, di qualunque operazione, né in una delimitazione quasi permanente del polo operatorio dell'azione materiale. Esse consistono piuttosto nella percezione e comprensione spaziale delle principali zone d'interazione tra i membri del gruppo e nella selezione delle operazioni-chiave, o di alcuni momenti o gesti-chiave di tali operazioni. La restituzione ravvicinata delle concatenazioni dei fatti riguarda, di preferenza, delle grandi fasi temporali della vita del gruppo: alternanza di tempi forti e di tempi morti dell'attività (lavoro/riposo), ritmi circadiali o stagionali, variazioni nel percorso o nell'occupazione degli spazi, ecc. In linea generale la macro-descrizione raggiunge tanto più il suo obiettivo quanto più il suo autore accetta di spendere un po' del tempo guadagnato nella restituzione delle azioni, per darsi la pena di esplorare, al di là dell'atto efficace, alcuni degli aspetti che contribuiscono a creare il respiro culturale di un gruppo: le grandi variazioni ritmiche e la presenza del tessuto ecologico nella vita degli esseri filmati.

Micro- e macro-descrizione presentano entrambe difficoltà proprie. Abbandonata a se stessa, la micro-descrizione lascia insoddisfatti gran parte degli antropologi-cineasti desiderosi di offrire, in un unico film, ciò che Karl Heider ha chiamato "a wholistic approach" a un gruppo, a un'etnia, a un problema qualsiasi. Per quanto mi riguarda, una lunga esperienza mi ha convinta che questo modo di presentazione possiede le qualità e i difetti opposti, ma complementari, della macro-descrizione. La micro-descrizione gode, sul piano dell'espressione, di una grande autonomia interna, o intra-filmica. Ciò va inteso nel senso che l'intelligibilità delle apparenze di ciò che tratta si attua quasi immediatamente al puro e semplice esame delle immagini, senza dover ricorrere ad un commento interno al film. Cogliendo gli esseri e i fatti principalmente attraverso le loro manifestazioni sensibili, la micro-descrizione costituisce ciò che c'è di più specificamente cinematografico in ogni inchiesta filmica. Essa è, invece, soggetta ad una dipendenza esterna, o extra-filmica, nei confronti degli altri modi di espressione per quanto riguarda la connessione di ciò che mostra con l'insieme delle altre attività mostrabili degli agenti dell'azione filmata, o con il sistema di valori, norme, funzioni, significazioni di carattere non mostrabile, del gruppo al quale appartengono gli esseri filmati. Per questo ha spesso bisogno di essere completata, sia con altre micro-descrizioni, sia con un commento sotto forma d'informazioni verbali esterne al film, sostanzialmente di carattere scritto (cartelli, articoli, libri, ecc.). Queste ultime, analizzando con finezza ed in modo approfondito le ambiguità, mettono particolarmente in evidenza i lati nascosti delle più piccole manifestazioni filmate che un commento orale o scritto, interno al film, non potrebbe esaurire senza appesantire considerevolmente la presentazione delle immagini.

Dal canto suo, la macro-descrizione è a tutta prima più seducente perché gode, sul piano dell'espressione, di una maggiore autonomia esterna, o extra-filmica. Un ampio affresco etno-cinematografico può essere per lo spettatore intelligibile senza l'aiuto di un commento, sotto forma di testo, esterno al film. Ma questa relativa indipendenza esterna è controbilanciata da una dipendenza interna, o intra-filmica, delle immagini nei confronti di un commento proprio del film,generalmente orale, che ne sia autore il realizzatore stesso o una delle persone filmate. Anche se molto accurata, la macro-descrizione lascia nell'ombra troppi aspetti delle attività per essere autosufficiente e poter fare a meno dell'ausilio di elementi di collegamento e di spiegazione immediatamente apportati dal linguaggio. Ciò sta a significare che la macro-descrizione è meno specificamente cinematografica della micro-descrizione. Essa è, per natura, multimediale.

Certo le eccezioni esistono; ma più la macro-descrizione cerca di fare a meno di un commento intra-filmico, più tende ad assoggettarsi alle norme della micro-descrizione o a ridurre il suo campo d'intelligibilità. Al limite, essa in inventa una pura espressione ritmico-pittorica, che procede per successioni di quadri viventi che restituiscono i grandi ritmi della vita, come, ad esempio, nel film di finzione di Ermanno Olmi L'albero degli zoccoli (1978). Tollerando importanti margini di flou, resa più accessibile dal suo necessario ricorso al linguaggio, la descrizione filmica, lo si vede, non è una forma d'investigazione così austera come sembra. A moderare ulteriormente la sua austerità si aggiunge il fatto che, pur se saldamente condotta, essa è sempre accompagnata da una forma audiovisiva non verbale di narrazione. Co-presenti in ogni film documentario, descrizione e narrazione filmica si contendono continuamente la presentazione del reale senza mai potersi eliminare l'un l'altra. Ne consegue che ciò che talvolta appare come pura descrizione non è che la manifestazione di una dominante descrittiva. Lo stesso per la narrazione. Proprio di questa dominante descrittiva si è trattato nella presente esposizione. Grossomodo, l'elemento narrativo si appoggia sostanzialmente su ciò che, nella presentazione, si situa sull'asse del tempo. In tal modo esprime tutto ciò che si collega più direttamente allo svolgimento dell'azione degli esseri filmati, alla dinamica temporale del filo conduttore. La descrizione, invece, tende a spazializzare la presentazione, soffermandosi sul dispiegarsi della base materiale, sensibile, dell'azione nel suo ambiente. Ecco perché un film a dominante descrittiva può dare allo spettatore l'impressione di tirare per le lunghe la presentazione dell'azione appesantendola con aspetti collaterali apparentemente inutili. La narrazione si interessa innanzitutto all'uomo, è perciò incline a rapportare tutto a misura della sua azione. In termini di conoscenza, la narrazione è antropocentrica, persino antropomorfica, ma lusinga la sensibilità dello spettatore. La descrizione, invece, si interessa all'insieme naturale, perciò tende a mettere sullo stesso piano tutte le parti che la compongono, tra le quali figura l'uomo. Vi si può vedere l'espressione di un fisiocentrismo che allarga la prospettiva, ma al prezzo di una certa disumanizzazione. Quando l'antropologo-cineasta privilegia la narrazione (dominante narrativa) e cerca di dare al suo film l'andamento di un racconto, sul quale si appoggiano qua e là le descrizioni, lo rende in tal modo più attraente agli occhi dello spettatore, di cui stimola ad ogni istante la curiosità. Così facendo, conferisce un orientamento ed una giustificazione immediata alle descrizioni ma si limita, di fatto, a perpetuare la tradizione, propria del linguaggio, che sollecita in modo direttivo. In questo senso, sceglie la soluzione più comoda, perché meno fuorviante, per lo spettatore. Quando invece, privilegiando la descrizione, si sofferma sulle pesantezze del sensibile, sceglie una strada senz'altro più azzardata ma più nuova, dove la scoperta implica una certa fiducia nella curiosità spontanea dello spettatore e nella sua capacità di trasformare il proprio sguardo.

Tra descrizione e narrazione esiste un'infinità di dosaggi possibili che, senza dover a tutti i costi fuggire i rigori della disciplina, hanno fin ad ora permesso agli antropologi-cineasti di rispettare nei loro film i principi di una descrizione accurata pur attirando stabilmente l'attenzione di un vasto pubblico. La riuscita dei più grandi film etnografici si deve anche ad un felice equilibrio tra queste due tendenze della presentazione.

 

E adesso ...

Crocevia di saperi specializzati, a volte mal integrati tra loro l'antropologia filmica appare, in fin dei conti, come una disciplina ambigua, generosa ma un po' disordinata, la cui genesi è difficile perché l'imbarcazione è sovraccarica. A rallentare il suo movimento contribuiscono: l'ampiezza dell'ambito studiato e l'imperfetta padronanza di uno strumento nuovo, esso stesso oggetto di studio; il rigetto dello scritto e la necessità di regolare nella pratica, pur se non sempre in teoria, la questione dei rispettivi statuti del linguaggio e dell'immagine in seno ad un tipo d'inchiesta che si dibatte tra la preoccupazione di far del nuovo col vecchio (come integrare e ripensare il linguaggio nel quadro dell'apprendere audiovisivo?) e quella di fare del vecchio col nuovo (come integrare l'apprendere audiovisivo nel quadro di una classica inchiesta strutturata dal linguaggio?). A questo si aggiunge la preoccupazione di piacere, spesso incompatibile con le esigenze di una ricerca in gran parte fondata sulla paziente descrizione dei singoli fatti sensibili.

Eppure, dietro questo apparente disordine e in gran parte grazie ad esso, si sviluppano tutte le condizioni di una disciplina del sensibile, direi addirittura della disciplina del sensibile per eccellenza, perché profondamente aderente al terreno e la meglio attrezzata per una descrizione, a misura dello sguardo umano, dei modi di essere dell'uomo. E proprio nel fatto che questa strada, per alcuni troppo ingrata, venga abbandonata bisogna trovare una ragione supplementare per seguirla. Perché bisogna andare senza timore a coltivare un terreno libero, senza preoccuparsi di un immediato profitto. Anche la fuorviante novità dello strumento può parimenti risultare feconda. Proprio perché implica un apprendimento e una trasformazione delle attitudini metodologiche essa suscita interrogativi e sperimentazioni ardite che hanno talvolta situato l'inchiesta filmica degli etnologi agli apici della ricerca nelle scienze umane. Molte vie restano da esplorare con la descrizione, la sperimentazione e la riflessione, che si tratti di temi o di metodi. Ma le acquisizioni lungamente accumulate su basi descrittive già cominciano ad essere esaminate in maniera sempre più approfondita. I materiali che i film etnografici offrono non sono solo per se stessi oggetto di analisi sistematiche da parte degli stessi ricercatori antropologi che li hanno elaborati. Essi sono anche d'ausilio a specialisti di storia contemporanea, a sociologi e a psicologi per verificare ipotesi o costruirne di nuove. Ciò significa che l'antropologia filmica produce lavori che offrono, alla sua indagine e a quella dei ricercatori appartenenti ad altre discipline, una base comune. La paziente descrizione dei fatti non è estranea a questo ruolo di piattaforma girevole che assume il film etnografico nelle scienze umane. Adesso, pur continuando a filmare gli uomini ed a sperimentare il proprio strumento, gli antropologi-cineasti devono affrontare nuovi compiti, che richiedono ancora una volta l'apporto della loro pazienza e della loro immaginazione. Essi devono, infatti, innalzare al livello della loro maniera di osservare gli esseri filmabili, il loro modo, ancora balbuziente, di confrontare ed analizzare le immagini degli esseri filmati. Ma anche per questo, è meglio affrettarsi lentamente.

 

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