Percezioni del corpo 
          e percezioni del pensiero
         
          
      
        

        
                           
       
         
         
       
       
      Percorso di citazioni con intervento (provocatorio) 
      d’artista 
      di 
      Vincenzo Cuomo e Angelo Ricciardi 
         
      
      “Fra le 
      percezioni che sono causate dal corpo, la maggior parte dipende dai nervi; 
      ma ce ne sono pure alcune che non ne dipendono affatto e che vengono 
      chiamate immaginazioni, come quelle di cui ho ora parlato, da cui 
      differiscono nondimeno in questo, che la nostra volontà non si adopra a 
      formarle: per questo non possono essere messe nel numero delle azioni 
      dell’anima. Esse derivano soltanto dal fatto che gli spiriti, essendo 
      diversamente agitati e incontrando le tracce di diverse impressioni 
      precedenti nel cervello, prendono fortuitamente il loro corso per certi 
      pori piuttosto che per altri. Tali sono le illusioni dei nostri sogni, 
      nonché le fantasticherie che spesso abbiamo da svegli, quando il nostro 
      pensiero erra con abbandono, senza applicarsi a niente per se stesso”. (Cartesio, Le passioni dell’anima, 
      tr. it. Di E. Lojacono, Milano, TEA, 1994, p. 64) 
       “D’altra 
      parte si è costretti a confessare che la percezione e ciò che ne dipende 
      non si possono spiegare con ragioni meccaniche, cioè mediante le figure e 
      i movimenti. E immaginando che vi sia una macchina la cui struttura 
      permetta il pensare, il sentire, l’aver percezioni, si potrà concepirla 
      ingrandita con le medesime proporzioni, in maniera che ci si possa entrare 
      come in un mulino. Posto ciò, visitandola all’interno, non vi si 
      troveranno che parti le quali spingono le une le altre, ma non mai 
      qualcosa con cui  spiegare una 
      percezione” (Gottfried Wilhelm 
      Leibniz, Monadologia, tr. it. di G.Preti, Milano, Bruno Mondadori, 1995, 
      17° tesi, p.32). 
       “Io 
      devo avere un corpo, è una 
      necessità morale, un’”esigenza”. E, in primo luogo, io devo avere un corpo 
      perché vi è qualcosa di oscuro in me. Ma, fin da questo primo argomentare, 
      l’originalità di Leibniz appare grande. Egli non dice che solo il corpo 
      spiega quanto c’è di oscuro nello spirito. Al contrario, lo spirito è 
      oscuro, il fondo dello spirito è oscuro, ed è proprio questa natura scura 
      che spiega ed esige il corpo” (Gilles Deleuze, La piega. Leibniz e il 
      barocco, tr.it. di V.Gianolio, Torino, Einaudi, 1990, p.127). 
      
       “Restituire 
      il pensiero alle forze “corporanti” (agli impulsi), equivaleva a 
      espropriare il supporto, l’io; tuttavia, proprio con il suo cervello Nietzsche effettua 
      tale restituzione e tale espropriazione, così esercitando la sua lucidità 
      per penetrare le tenebre: ma come si può restare lucidi se si distrugge il 
      focolaio della lucidità, ossia l’io?” (Pierre Klossowski, Nietzsche e il 
      circolo vizioso, tr.it. diE.Turolla, Milano, Adelphi, 1981, p. 
      62) 
      “Segno di sé  e  esser-sé del segno: questa è la 
      duplice formula del corpo in tutti gli stati e in tutte le possibilità che 
      gli riconosciamo (…). Il corpo si 
       significa in quanto corpo 
      (dell’) interiorità sensata: basta vedere tutto ciò che si fa dire al 
      corpo umano, alla sua stazione eretta, al suo pollice opponibile, ai suoi 
      “occhi in cui la carne si fa anima”(Proust). Così il corpo presenta 
      l’esser-sé del segno, la comunità compiuta del significante e del 
      significato, la fine dell’esteriorità, il senso nel sensibile –hoc est enim. 
      
      Tutte le 
      nostre semiologie, tutte le nostre mimologie, tutte le nostre estetiche 
      tendono verso questo corpo assoluto, verso questo corpo iper-significante, 
      corpo del senso nel senso del corpo. Ogni funzione simbolica vi si compie: riunione 
      sensibile delle parti dell’intelligibile, riunione intelligibile delle 
      parti del sensibile (…). Ed è proprio qui che il corpo dilegua: per poter 
      raggiungere questo culmine della significazione, “il corpo” è stato 
      continuamente teso, esasperato, dilacerato fra innominabile e 
      innominabile: tanto più straniero quanto più intimo. Il corpo è l’organo del senso: ma il senso 
      del senso è quello di essere l’organo (o l’órganon), assolutamente (…). Il corpo non è, quindi, 
      nient’altro che l’auto-simbolizzazione dell’organo 
      assoluto. Innominabile come Dio, esso non espone niente nel fuori di 
      un’estensione, ma è organo dell’organizzazione-di-sé, innominabile come la putrefazione dell’autodigestione (la Morte in 
      Persona), e anche come quella costruzione dell’intimo tessuto del sé, cui 
      si adopera una filosofia del “corpo proprio” (“ciò che chiamiamo carne, 
      questa massa agitata all’interno non ha nome in nessuna filosofia” – 
      Merleau Ponty). Dio, la Morte, la Carne: triplice nome del corpo di tutta 
      l’onto-teologia. Il corpo è la combinatoria esaustiva, l’assunzione comune 
      di questi tre nomi impossibili in cui si esaurisce ogni significazione” 
      (Jean-Luc Nancy, Corpus, tr.it. di 
      A.Moscati, Napoli, Cronopio, 1995, pp. 61-62). 
      “Un 
      giorno decisi di creare una persona. Forse per solitudine, forse per noia, 
      forse per gioco. Non ha molta importanza. Il progetto mi attirava. 
      
      Naturalmente 
      non sarebbe stato un problema creare una riproduzione meccanica degli 
      stati funzionali di una persona nelle loro complesse relazioni; creare una 
      macchina che si comportasse esattamente come una persona. Il difficile era 
      creare qualcosa che avesse una vita interiore emotiva e mentale; creare 
      una persona reale in tutto e per tutto, e non qualcosa che si comportasse 
      semplicemente in modo identico a una persona. 
      Non 
      armeggiai dunque con plastiche, transistor e altri hardware. Presi del 
      materiale adatto – DNA, protoplasma – e mi misi al lavoro. A dire la 
      verità, non fu così difficile crearlo. Dopo tutto ero bravo. Creai 
      direttamente una persona già cresciuta e mentalmente sviluppata. Poiché mi 
      piaceva l’idea di usare le vocali per i nomi, lo chiamai “A” (…). Sembrava felice con me. 
      Ero felice anch’io. 
        Finché 
          la mia creazione non volle altra compagnia oltre alla mia. La cosa mi 
          spiacque, se devo dire la verità. Pertanto (se devo dire proprio tutta 
          la verità) me la sbrigai alla svelta. Invece di creare un’altra persona 
          con una propria vita mentale ed emotiva, creai una macchina che simulasse 
          perfettamente il comportamento di una persona. La chiamai con la vocale 
          successiva “E”. Naturalmente 
          A non sospettò nulla. (…) Tutto 
          andò avanti bene finché non decisi che A non era una buona compagnia. La 
          ragione, naturalmente, era che A era troppo stupido. Non era piacevole 
          avere a che fare con qualcuno che poteva venire ingannato con tanta 
          facilità. Così pensai di creare un’altra persona più adatta a farmi 
          compagnia; una persona che non potesse venire indotta a pensare che 
          un simulatore fosse una persona (…). Pensai quali caratteristiche avrebbe 
          dovuto possedere un essere simile (…). Ebbi a quel punto l’idea più 
          ovvia: dare alla nuova persona il dono della telepatia. Una persona 
          telepatica sarebbe stata in grado di sperimentare direttamente le esperienze 
          altrui nello stesso modo in cui sperimentava la propria (…). Mi misi 
          al lavoro con impazienza. Non era troppo difficile creare un essere 
          telepatico (…) finché mi resi conto che a questo rivelatore di falsi 
          avrei dovuto fornire non solo l’abilità telepatica di sperimentare qualsiasi 
          esperienza posseduta da ciò su cui si concentrava, ma anche qualche 
          mezzo per sapere se ciò su cui si era concentrato possedesse anch’esso quelle esperienze (…). 
          Gli fornii allora più pensiero, ma senza ottenere nulla. (…) Una persona 
          qualunque avrebbe ammesso il proprio fallimento e avrebbe deciso che 
          non era in grado di costruire un rilevatore. Ma io non sono affatto 
          una persona qualunque. (…) Mi guardai attorno in cerca di un approccio 
          meno ortodosso ed ebbi la brillante idea di inserire nel rivelatore 
          come mezzo per distinguere le persone dalle simulazioni, la stessa tecnica 
          da me usata per raggiungere quello scopo; la tecnica cioè che io stesso 
          utilizzavo per dire che A era 
          una persona ed E 
          una simulazione meccanica. 
        A 
      essere sincero, non avevo mai pensato prima al modo in cui io conoscevo (…). Dopo una breve 
      riflessione, mi resi conto che non avevo cercato di scoprire se A o E fossero persone o simulazioni 
      meccaniche. Voglio dire che li avevo creati nel solito modo (…) Avevo 
      semplicemente assunto che A fosse una persona ed E una simulazione meccanica. (…) 
      Mi sentii anche molto sciocco…” (Robert Nozick, Puzzle socratici, 
      tr.it. di D. Zoletto, Milano, Cortina, 1999, pp. 389-392).