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Gilles Deleuze, La passione dell’immaginazione. L’idea di genesi nell’estetica di Kant, a cura di Tiziana Villani e Luisella Feroldi, Milano, Mimesis edizioni, 2000, Lit. 15.000, ISBN 88-8731-75

 

(Vincenzo Cuomo)

 

Il testo edito dalla Mimesis per la cura di Tiziana Villani e Luisella Feroldi è la traduzione italiana di un saggio che Deleuze dedicò a Kant nel 1963, intitolandolo L’idée de genèse dans l’esthétique de Kant. Vi si tentava un’interpretazione complessiva della “terza Critica” che la sollevasse dalle frequenti accuse di scarsa unità sistematica. La Critica della facoltà del giudizio, che tutt’al più veniva considerata come il “passaggio” mancante tra la prima e la seconda Critica, viene invece concepita dal filosofo francese come lo sfondo a partire dal quale le prime due sarebbero state originate e senza il quale non potrebbero essere autenticamente comprese.

L’argomentazione che sta alla base di tale giudizio è svolta all’inizio del saggio: l’accordo tra le facoltà dell’animo (immaginazione, intelletto, ragione), afferma Deleuze, comporta, nelle prime due Critiche, una subordinazione di una facoltà ad un’altra; ora, se la gerarchia non è da considerarsi “naturale”, dal momento che le facoltà entrano in differenti rapporti tra loro, allora un accordo subordinante è dato solo se è possibile un “accordo libero”; detto in breve, la gerarchia presuppone la libertà di relazione, cioè il “libero gioco” tra le facoltà. Tale libero gioco è lo sfondo genetico a partire dal quale è possibile pensare tanto l’accordo quanto il disaccordo, tanto il contrasto quanto la subordinazione delle facoltà dello spirito (del Geist che Deleuze traduce con Anima). La relazione trascendentale tra le facoltà avrebbe così, nella terza critica, la sua spiegazione genetica, quella spiegazione che i postkantiani (Maimon, Fichte) ritenevano mancante alla filosofia kantiana.

A partire da tale assunto di fondo, Deleuze tenta di chiarire l’impianto sistematico che sta alla base della prima sezione della Critica della facoltà del giudizio, quella dedicata al giudizio estetico. Senza nascondersi la complessità d’intreccio del discorso kantiano, è possibile concepire la “coerenza” tra le sue varie parti, tra le due analitiche (del bello e del sublime) e la deduzione, tra la teoria del piacere estetico disinteressato e quella dell’interesse razionale per il bello di natura, tra la riflessione sul bello e quella sul genio.

Deleuze afferma che nel testo kantiano si intrecciano varie estetiche: un’estetica della forma (bello) e un’estetica dell’informe (sublime); un’estetica dello spettatore (bello, sublime) e un’estetica del produttore-creatore (genio). A tali estetiche fanno da supporto e completamento almeno due principi meta-estetici: l’interesse razionale per il bello e lo stesso principio del genio; il primo spiega l’interesse che la ragione trova nelle materie sensibili naturali esperite come simboli delle idee; il secondo spiega in che modo il genio crei una “seconda natura” producendo idee estetiche (vedasi il famoso paragrafo 49).

La struttura del discorso critico di Deleuze è la seguente:

1)     nell’Analitica del bello Kant ci ha dato un’estetica formale del bello in generale, dal punto di vista dello spettatore; da tale punto di vista si mostra come il “giudizio di bellezza” riguardi la rappresentazione della forma della cosa bella e coincida con il sentimento di un libero accordo tra l’immaginazione e l’intelletto (piacere estetico); esprimendo tale accordo il giudizio estetico, tuttavia, “pretende a un’universalità e a una necessità di diritto, rappresentate in un senso comune; ed è qui che ha inizio la vera difficoltà della Critica del giudizio; qual è la natura di questo senso comune estetico?” (p. 31); per rendere conto di ciò Kant ha la necessità di ricorrere ad una “Deduzione dei giudizi estetici puri”;

2)    l’Analitica del sublime, che precede la Deduzione, si presenta non solo come “un’estetica informale del sublime, dal punto di vista dello spettatore”(p. 48) ma, essendo una spiegazione “genetica” del sentimento del sublime, anche come un “modello” da seguire nella deduzione dei giudizi estetici puri: l’accordo tra le facoltà, in questo caso immaginazione e ragione, viene spiegato come il risultato di un disaccordo iniziale tra di esse, mediante il quale da un lato l’immaginazione “è spinta [dalla ragione] fino al limite del suo potere” (p. 34), dall’altro è la stessa immaginazione che “ridesta la ragione come facoltà capace di pensare un sostrato soprasensibile per l’infinitezza del mondo sensibile” (p. 35); ma è ancora l’immaginazione che esibisce l’inaccessibilità dell’Idea razionale come “qualcosa di presente nella natura sensibile” (ibidem);

3)    nella “Deduzione dei giudizi estetici puri” Kant ci dà “una meta-estetica materiale del bello in natura, dal punto di vista dello spettatore” (p. 48); essa spiega, afferma Deleuze, la “genesi” di quel “senso comune estetico”, che l’Analitica del bello pretendeva universale, attraverso la meta-estetica dell’interesse razionale per il bello: “l’interesse legato al bello non fa parte del giudizio estetico (…) quindi può, senza creare contraddizione, servire da principio di genesi per l’accordo a priori delle facoltà in questo giudizio” (p. 39); ma in che modo tale interesse della ragione può assicurare la genesi dell’accordo intelletto-immaginazione nel giudizio di bellezza? Ciò avviene perché “nei suoni, nei colori, nella libera materia, la Ragione scopre altrettante presentazioni delle sue Idee” (p. 40), concependo ad esempio il giglio bianco come simbolo dell’Idea della pura innocenza e “liberando” in tal modo l’immaginazione – senza la quale non vi sarebbe ipotiposi simbolica – dalla schematizzante soggezione all’intelletto;

4)    infine, nella teoria del genio, Kant, a completamento di quanto raggiunto nella Deduzione, ci darebbe una “meta-estetica ideale del bello nell’arte, dal punto di vista dell’artista creatore” (p. 49) che verrebbe a colmare il divario che si era creato tra bello di natura e bello d’arte; il genio è un principio meta-estetico allo stesso modo dell’interesse razionale per il bello di natura e “si definisce come un modo di presentazione delle Idee” (p. 42), di quelle idee estetiche (vedasi ancora il paragrafo 49 della terza Critica) che, oltrepassando ogni concetto creano “una natura in cui i fenomeni sono immediatamente eventi dello spirito, e gli eventi dello spirito a loro volta immediatamente dei fenomeni della natura” (ibidem).

 

Questa è, in sintesi, la struttura argomentativa dell’interpretazione deleuzeana di Kant contenuta in questo breve ma denso scritto, il cui scopo è quello di mostrare, l’abbiamo già sottolineato, come la libertà di relazione tra le facoltà dello spirito sarebbe stata pensata da Kant come lo sfondo genetico di cui la filosofia trascendentale nel suo complesso aveva bisogno. Il titolo editoriale della traduzione del saggio del filosofo francese aggiunge anzi antepone al titolo originale l’espressione “la passione dell’immaginazione”, volendo sottolineare il ruolo centrale che l’Einbildungskraft riveste sia nel testo kantiano che nell’interpretazione deleuzeana.

Il saggio introduttivo di Tiziana Villani si occupa, anche se in maniera non troppo convincente, di motivare tale scelta editoriale. Molto più utile ci è sembrata la post-fazione di Luisella Feroldi che coglie uno dei nessi centrali della questione: quello della differenza tra il Vorstellen e il Darstellen. In Kant, ella afferma, “la presentazione, in quanto ‘riduzione al sensibile’ ha un termine specifico che è Darstellung: se Vorstellung  è il termine usato nella Critica della ragion pura per indicare la rappresentazione cognitiva, la Darstellung designa la rappresentazione esibitiva della Critica del giudizio” (p. 67). Tra i due termini c’è un’opposizione semantica, in quanto la Vorstellung è il prodotto di una sintesi categoriale mentre la Darstellung, “in quanto rappresentazione indiretta dei concetti della ragione, si avvicina piuttosto all’idea dell’esibire, del presentare, e trova un sinonimo nel termine retorico “ipotiposi” (subiectio sub adspectum), che allude al nucleo figurale proprio del giudizio estetico” (pp. 67-68).  Con ciò si coglie appieno, a nostro avviso, il filo rosso della ricostruzione critica deleuzeana, consistente nella messa in evidenza del ruolo centrale dell’immaginazione nel dar da pensare (in accordo con la ragione) oltre i limiti conoscitivi imposti dall’intelletto: un “dar da pensare” che è nella maniera più autentica un immaginare.

 

 

 

 

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