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        Jean-Jacques Wunenburger, L’homme à l’âge de la télévision, Paris, PUF 2000 (Intervention philosophique), 177 p., 127 FF, ISBN 213051121x.

 

(Gabriella Baptist)

 

Chi è l’homo videns dell’epoca televisiva? Qual è il prezzo che deve pagare, da un punto di vista antropologico, sociale e politico, per il fatto di utilizzare una nuova tecnica di conoscenza ed appropriazione del mondo? Quali sono i rischi ai quali va incontro? Il quadro che offre Wunenburger è esplicitamente orientato in senso fortemente critico: sappiamo tutti dei servizi che la televisione ha reso alla democratizzazione, permettendo a masse poco o niente affatto alfabetizzate di aprirsi al mondo, garantendo, per esempio, l’unificazione dei linguaggi; sappiamo anche di quanto solleciti la curiosità e quindi l’intelligenza, strappandoci all’indifferenza del non sapere. Ma per Wunenburger occorre piuttosto chiedersi con vigile attenzione che cosa sta sull’altro lato della medaglia e qui la sua diagnosi è assai preoccupante: una lenta destrutturazione dell’identità e dell’equilibrio psichico, l’atomizzazione della vita sociale e di relazione, la modificazione non solo dei costumi, ma anche l’incancrenimento dei processi della percezione, dell’immaginazione e del pensiero, l’usura della vita emotiva, sollecitata da affetti estremi, lo snaturamento e l’impoverimento della vita interiore, con il risultato di fomentare la pigrizia intellettuale, la passività del giudizio, la regressione dello spirito, ingenerando così intossicazione, se non addirittura schiavitù. La messa in guardia di Wunenburger è radicale: “la televisione costituisce una delle più subdole illusioni della civiltà contemporanea, sebbene ne curi anche il disagio” (15).

La prima parte (“Gli incatenati dello schermo”) affronta il tema del che cosa diventiamo nella veste degli spettatori e in proposito la metafora platonica della caverna allude senza possibilità di dubbio al fatto che si tratta di trovare il percorso ascendente e periglioso del Socrate che smaschera l’inganno. Il nuovo culto delle immagini garantito dall’altare familiare si concretizza per Wunenburger in una cerimonia laica che è in realtà una sospensione della vita a favore di un rito oculare che costringe all’interruzione di ogni altro impegno, gettando lo spettatore nello stato catalettico e catatonico della ‘postura scopica’, atrofica e degenerante, visto che l’intero corpo è immobilizzato nel trionfo della sedia, della poltrona, del divano, sedentarizzando così gli individui ed inducendo una letargia generalizzata e devitalizzante anche rispetto alle attività psichiche (cap. I: “La ritualità dello spettacolo”, 21-33). Uno sguardo astenico ed in riposo è indotto per Wunenburger dalla potenza ipnotica di un flusso costante di immagini che non prevede la pagina bianca, il silenzio, la distanza, lo scarto o il vuoto della riflessione, inibendo così le funzioni superiori della coscienza, con il rischio di potenziarne l’alienazione. La vicinanza esaltata, la prossimità apparente del corpo, il trionfo del dettaglio, del primo piano, del volto, del particolare, obbediscono in fin dei conti, a suo parere, ad un “paradigma pornografico che, con la scusa di rendere il mondo familiare, lo rende in realtà osceno”, facendo per di più dello spettatore un voyeur che guarda senza essere visto (47, cap. II: “L’occhio accecato”, 35-48). La vita simulata e messa in scena spesso in spettacoli volgari e infantilizzanti in cui impera il kitsch, risulta allora in realtà una caricatura della vita, scaduta in una specie di circo ininterrotto e di festa interminabile, una vita bulimica in cui si continua a stare alla finestra consumando immagini (cap. III: “La vita simulata”, 49-67).

La seconda parte (“I signori dell’immagine”) presenta invece quell’altro mondo vagheggiato che sta dietro allo schermo e che è popolato di personaggi celebri, pagati esageratamente e pertanto invidiati da tutti. La ‘caccia’ all’immagine è il paradigma che, secondo Wunenburger, ci permette di comprendere la vera e propria regressione dell’operatore ai comportamenti più arcaici di un’umanità predatrice e guerriera. “È accettabile, per il solo beneficio di avere un’immagine impressionante, che un cameraman riprenda delle persone che stanno morendo, dei crimini che stanno per essere perpetrati, senza dire una parola? Filmare diventa allora il sostituto dell’azione ed anzi una dispensa di agire. Non sarebbe più giusto intervenire, soccorrere, piuttosto che registrare queste violenze estreme? Il desiderio o il dovere di fissare delle immagini finisce allora per generare dei comportamenti scandalosi, come se portare assistenza a qualcuno che è in pericolo diventasse un dovere secondario rispetto allo pseudo-dovere di riprendere delle immagini scioccanti. La ricerca dell’immagine a qualsiasi prezzo, vale a dire a prezzo del male, segnala il ritorno in forza di una sorprendente idolatria dell’immagine” (81). Una perturbazione ottica analoga alle deviazioni causate dall’osservazione e studiate dalla meccanica quantistica si produce comunque per Wunenburger anche in chi non è il protagonista, ma una comparsa qualsiasi, che immediatamente si mette in posa, teatralizzando il suo comportamento in funzione dello spettacolo e del suo artificio, mascherandosi e truccandosi, quasi a sottolineare lo statuto menzognero della situazione. “Sempre di più la televisione, dotata di mezzi tecnici di missaggio, di immagini di sintesi, tra breve di schermi piatti o giganti, catodici o a cristalli liquidi per migliorare ulteriormente la resa dell’immagine, rischia di promuovere un’iconosfera artificiale, in cui le immagini del reale o della finzione non hanno alcun altro destino se non quello di essere mescolate, smembrate, snaturate, staccate da ogni referente per funzionare come delle combinazioni allucinogene che rinchiudono lo spettatore in una campana di vetro narcisistica e regressiva. La televisione, da finestra aperta sul mondo, sarà diventata allora uno specchio privato in cui circolano fantasmi e che soggioga un corpo ed uno spirito completamente desocializzati” (98, cap. IV: “Fabbricanti di idoli”, 75-98). La vertigine egocentrica e megalomane che ne risulta è quella che troviamo espressa nella maniera migliore non solo nei capricci delle star, ma anche nel desiderio delle persone comuni di partecipare ad un qualsiasi spettacolo televisivo, come se questo da solo garantisse una pur passeggera celebrità, in veste, se non proprio di principi o cortigiani della situazione, perlomeno di paggi o di giullari (cap. V: “Una casta di chierici”, 99-115).

“La televisione ci permette di accedere alla vita, o soltanto di fuggirla? Ci permette di attraversare il deserto, di uscirne, oppure ci conduce verso destinazioni erronee o fatali?” (120-121). Questi sono i problemi che affronta infine la terza ed ultima parte (“I miraggi della lucerna”) nell’indagare gli effetti tentacolari e patogeni di un’invasione di campo suscitata dall’obesità del mezzo, che finisce per debordare nelle sfere del religioso e dell’educativo, stabilendo ciò che si deve credere, sapere, ammirare, possedere, trasmettere. A prima vista sembrerebbe che la televisione, con i suoi film, la ‘fiction’, i programmi divulgativi, di informazione e di attualità, soddisfi il bisogno di ascoltare storie, leggende o miti, in realtà secondo Wunenburger la taylorizzazione dell’immaginario visivo operata da programmi in serie ormai stereotipati, sul modello dei celebri Dallas o Dynasty, atrofizzano piuttosto il senso del raccontare. “Per farla breve, la televisione suscita una bulimia di film che intensifica il ciclo di ingestione-digestione di immagini, ma che priva anche lo spettatore dei metabolismi simbolici che gli permetterebbero di trasformarli in materiali dell’immaginario grazie all’attività del sognare ad occhi aperti, grazie al lavoro dell’anamnesi ed all’appropriazione simbolica” (127). Così la televisione risulta un pharmakon nel duplice senso del termine: rimedio e veleno, indice del nostro male di vivere e insieme possibilità di attenuarne i sintomi più angosciosi. Anche rispetto alle possibilità di usare il piccolo schermo come sussidio didattico, Wunenburger mette in guardia il maestro, che a suo parere dovrà usarlo solo con grande parsimonia: “La scuola, come ogni altro luogo di formazione, non può sperare di formare per bene degli esseri razionali e coltivati se non tagliando momentaneamente i legami con il mondo, con l’ambiente circostante e quotidiano, quindi oscurando o filtrando la fonte dell’emissione di immagini. Come nell’età classica i filosofi invitavano a chiudere le finestre dell’anima (vale a dire a sospendere l’attività delle sensazioni) perché lo spirito fosse aiutato a meditare sulle verità metafisiche, allo stesso modo il vero pedagogista dovrà invitare a spegnere il video per poter veramente incominciare a cogliere le cose nella loro verità, attraverso i loro segni ed i loro concetti. Esiste un tempo per percepire ed un tempo per conoscere veramente, c’è un tempo per produrre la scienza delle cose ed un altro per sognarle. La loro giustapposizione o il loro incrocio nelle istituzioni deputate all’istruzione ed all’educazione rischia di snaturarli entrambi e di consacrare la vittoria dell’apparenza” (140-141, cap. VI: “I paradisi artificiali”, 123-141). La potenza onirica della televisione in realtà soffoca la potenza immaginativa del singolo, atrofizzandone la fantasia. Nell’abuso di visione Wunenburger vede “un fattore di regressione, di impoverimento delle nostre capacità di immaginazione” (148), visto che il miscuglio di immagini iperrealistiche trasmesse e sguardo passivo di chi guarda non permette affatto di attivare degli altri mondi, confinando lo spettatore in una condizione semi-autistica di negligenza e di indifferenza. Strappare lo spettatore o perlomeno preservarlo dall’influenza negativa di questa Medusa che pietrifica o del Ciclope che riduce tutto al suo unico occhio significa per Wunenburger restituire l’uomo contemporaneo alla sua immaginazione creatrice, facendogli riscoprire le sue possibilità di sognare, perciò egli prospetta una dissidenza progressiva, una secessione periodica, un boicottaggio non violento, ma effettivo ed efficace. “Perciò non è tanto importante cambiare le tecniche, ma piuttosto invitare lo spettatore a scoprire le vere ricchezze dell’immagine, che la sua attuale bulimia meccanica gli impedisce perfino di immaginare lontanamente. Occorre restituire agli uomini un senso della poetica, della simbolica, delle dimensioni mitiche delle immagini in modo che possano desiderare delle altre immagini al posto di quelle mediocri successioni di fotografie animate che popolano lo schermo più di quanto non possano nutrire una vita psichica” (163, cap. VII: “Guarire dalla televisione?”, 143-163).

Ma è poi davvero soltanto una malattia, la televisione? Certamente dobbiamo essere avvertiti rispetto agli effetti di trance prodotti da spettacoli narcotizzanti che funzionano come una sorta di droga mentale e di anestesia morale, generando intossicazioni ed inquinamenti. Certamente riconosciamo i pericoli che derivano dall’atomizzazione sociale, dalla miniaturizzazione di un mondo sempre più panoramico, ma anche sempre più superficiale. Certamente cogliamo i rischi della teatralizzazione della vita pubblica, della comunicazione unilaterale, della  bagatellizzazione di una cultura che diventa al più bagaglio enciclopedico-mnemotecnico utile per vincere i quiz a premi. La televisione sarà pure il sintomo e la pretesa cura del male di vivere della nostra società, un’istituzione anomica spesso spietatamente regolata dall’impero dell’auditel e dalla logica dello spettacolo, eppure al catastrofismo lucido di Wunenburger riteniamo si possa e si debba affiancare anche un elogio, altrettanto accorto e lucido, dei suoi servigi al legame sociale e al sentimento di solidarietà, alla memoria collettiva e al senso di coappartenenza al destino del mondo (si pensi soltanto a come alcune immagini epocali, per esempio quelle dell’atterraggio sulla luna, siano ormai diventate patrimonio comune di un gran numero di persone, anche illetterate, e a come, per esempio, le immagini di catastrofi naturali o sociali invitino senza tregua alla riflessione ed all’azione comune). Wunenburger stesso non evita di ricordarlo, ma nelle poche pagine della conclusione (165-170) questo resta soltanto l’auspicio che, nonostante tutte le sue aberrazioni, la televisione possa concorrere ad un più elevato livello di coscienza, diventando così un male benefico, una felix culpa della modernità.

 

 

 
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