NON-LUOGO DI TRANSITO

 


Ron Barkai, Come in un film egiziano
Firenze, La Giuntina, 2005, pp. 247, ISBN: 8880572296, Euro 15



Come in un film egiziano è un romanzo e qualcosa di più di un romanzo. Il suo autore, Ron Barkai, è docente di storia medievale all’Università di Tel Aviv e pertanto un profondo conoscitore della storia del suo paese. Le vicende di Yosef Alfandari si intrecciano con le complesse vicende che segnano la società israeliana negli anni ’50 in una narrazione in prima persona che dilaga nella storia e nella cultura di quella tormentata area del mondo.

Come sospinto da un’insoddisfazione vorace e tumultuosa, il protagonista Yosef, ebreo dal carattere duro e crudele, non riesce mai a trovare un punto di equilibrio tra il guardare dall’esterno il mondo che lo ha visto nascere e crescere (Il Cairo, Alessandria, Jaffa, Tel Aviv ) e il guardarsi troppo dall’interno.

È questa visione duplicata o meglio moltiplicata che paralizza Yosef, convinto sionista ed appassionato di musica araba, e gli impedisce di raccontare per vie lineari e consecutive la sua storia di formazione/apprendistato alla vita.

Il tracciato esistenziale di Yosef che è nato al Cairo e poi costretto a fuggire ad Alessandria per sottrarsi ad un padre padrone è mobile, fluttuante, proteico come la terra e i luoghi che frequenta dove è impossibile disegnare confini, mappe ma è possibile incontrare rovine e macerie di oggi e di allora tra gli anni ’40 e ’50.

Se i suoi “primi giorni ad Alessandria dormivo sulla spiaggia e la sabbia che mi si infilava dappertutto mi faceva prudere tutto il corpo. … I cani mi facevano paura perché, affamati e rabbiosi com’erano, potevano tranquillamente sbranare un ragazzino come me. Furono tempi duri nella città del porto fino a che non incontrai Amina” (p.24), allora è la dolcezza della prostituta araba Amina che si affeziona a Yosef a proteggerlo perché lo conduce da Suskin, l’ebreo originario di Mosca che gli avrebbe cambiato la vita, “un pezzo grosso della dogana, tutto passava dalle sue mani: carte, autorizzazioni, mance, macchine, merce di contrabbando e hashish” (p.27).

Ecco, l’ebreo della dogana e la prostituta araba dipanano l’esistenza atopica di Yosef, privandola del tutto di un destino, di una sia pure confusa ricerca di senso. E quando Suskin lo aiuta a passare la frontiera e a raggiungere la terra di Israele per il suo odio nei confronti degli arabi e dei comunisti, la vita di Yosef si consuma tra i tavoli da gioco del poker come ad impedire che il pensiero si metta a lavorare. Anzi tra le immagini che Yosef predilige è quella del mare: dal lungomare di Tel Aviv a quello di Alessandria il suo sguardo si posa sui pescatori che spalancano e distendono le reti per poi tradursi in una visione onirica: “Ho un sogno… se facessi un bel colpo a poker, mi costruirei una grande chiatta in mezzo al mare, inviterei i miei amici e là, sulle onde giocheremmo a poker” (p.82). Per il gioco, Yosef sperpera i suoi averi e lascia la famiglia che a sua volta lo abbandona senza rimpianti.

Barkai racconta con una prosa asciutta e lineare la vicenda idealtipica di un uomo che ha introiettato il motivo dell’accerchiamento, dal fraintendimento degli altri al fraintendimento di sé, incapace di abbandonare il rancore per coloro che chiama i suoi nemici, gli arabi, i comunisti, i suoi stessi figli: “Non riesco a cancellare dalla mente l’immagine di Natanel, il mio figlio maggiore, che mi minaccia con la sedia. Quell’immagine mi insegue dappertutto come un fantasma” (p.193).

Mi rimangono sempre e solo fantasie” (p.211) confessa ad un certo punto Yosef che vede sempre più la sua vita somigliare ad un gorgo di stordimenti e smarrimenti. e la sua percezione della realtà ad una pura distorsione ottica.

Barkai nel tratteggiare la parabola di questo eroe negativo e antipatico rappresenta e denunzia una realtà intesa in senso ideologico, dominio concreto e alienato dei pregiudizi che la governano, evidenziandone limiti e pericoli per la convivenza tra arabi e israeliani in quella zona mai pacificata del mondo.

Traumi, claustrofobie e ansie di privazione condannano inevitabilmente Yosef a fare i conti con se stesso quando solo e abbandonato nei giorni della sua malattia risuona in lui la sofferenza e una goccia di umanità. C’è un capitolo struggente, “Agonia”, il penultimo dei ventitré che compongono come tanti quadri il romanzo, in cui il protagonista condotto a sirene spiegate dal lavoro in ospedale avverte tutta la solitudine e il peso di un’esistenza, lamentando che tutti si sono dimenticati di lui, e consegnandosi, in un illusorio autorisarcimento, ai versi di una canzone in cui compare la parola “amore”.


 (Aldo Meccariello)