NON-LUOGO DI TRANSITO

 

Mario Costa, Dimenticare l’arte. Nuovi orientamenti nella teoria e nella sperimentazione estetica, Milano, Franco Angeli, 2005, ISBN 88-464-6364-1, Euro 18,00.



Dimenticare l’arte, l’ultimo libro di Mario Costa, non si lascerà facilmente dimenticare. E ciò per almeno due validi motivi. Il primo di questi è che il volume segna un vero e proprio punto di approdo della quasi trentennale riflessione dell’autore sulle questioni fondamentali dell’estetica dei media. La seconda è che la notevole chiarificazione delle sue tesi critiche – sviluppate in più di venti volumi, tra cui il famoso Il sublime tecnologico del 1990 – che in questo testo il lettore può trovare, non potrà più dare adito ad alibi di sorta e dovrà necessariamente condurre l’estetica universitaria italiana ad un confronto con esse.

Per comprendere il portato della proposta teorica che Costa espone in questo libro, converrà ripercorre le tesi e le argomentazioni fondamentali dei primi tre capitoli (dei cinque di cui consta il testo).

Il primo capitolo del libro, dal titolo Delle categorie dell’estetica e della loro liquidazione, tratta delle nozioni teoriche adoperate dalla critica d’arte e poi dall’estetica per giustificare la discriminazione tra “arti belle” e “arti meccaniche”. Costa passa qui in veloce rassegna le nozioni di stile, di genio, di espressione, di superiorità dell’idea sull’esecuzione.

Se per stile, egli argomenta, intendiamo, con Meyer Schapiro, “un sistema di forme dotato di una qualità e di un’espressione portatrice di significato, che permette di riconoscere la personalità dell’artista” (M.Schapiro, Lo stile, tr. it. cit., p. 4) è lo stesso studioso che ne destituisce la credibilità teorica quando sottolinea che “un individuo può produrre durante lo stesso periodo opere che appartengono a quelli che si considerano due stili diversi” (Op.cit., pp. 18-19). Lo stesso Berenson, caso paradigmatico in tal senso, ritenne sempre incerta l’attribuzione di un dipinto.

Anche la nozione di genio non regge alla critica immanente. Riprendendo le analisi di George Kubler, Costa sottolinea come il genio non sia concepibile affatto come un dono di natura ma semplicemente come una fortuita congiunzione tra attitudine e favorevole posizione all’interno di una certa sequenza di possibili soluzioni ad un problema formale (vedi G.Kubler, La forma del tempo, tr. it, Torino, Einaudi, 1976). Infine, la concezione della pre-esistenza spirituale della visione artistica rispetto all’esecuzione, è criticata anche attraverso il ricorso ad estetologi quali Antonio Tari e Alain che sostengono, al contrario, come solo il lavoro con le materie espressive produca l’idea, che, quindi, non preesiste ma segue l’opera.

Il distacco tra arti belle e arti meccaniche è avvenuto, ricorda Costa, per motivi pratici: “Le belle arti si sono distaccate dalle arti meccaniche due volte nella storia occidentale, ed entrambe per motivi pratici: una volta per liberarsi ed uscire dalle ‘corporazioni’ e un’altra volta per liberarsi e uscire dalle ‘accademie’. […] In tutto il medioevo, come i Wittkower hanno mostrato, i pittori e gli scultori sono considerati figli di Mercurio, assieme agli ‘orologiai e ai costruttori d’organo’, solo nel Rinascimento la tradizione astrologica cambia e gli artisti vengono considerati di ‘temperamento saturnino’ (malinconici e fantasiosi); ai ‘nati sotto Saturno’ si sostituiranno il ‘bohèmien’, il maledetto, e così via. A queste trasformazioni, storicamente, pragmaticamente e sociologicamente indotte, si accompagna una concezione dell’arte che ha perduto il suo antico connotato tecnico e che è, e sarà sempre di più, nella sostanza una invenzione dei filosofi” (pp. 27-28).

Col secondo capitolo del libro – dal titolo Delle arti in quanto estetizzazione delle tecniche – Costa conduce il lettore nel cuore della sua originale proposta teorica. Il capitolo tratta di come le arti siano sempre state “estetizzazioni” delle tecniche. Tuttavia, se non c’è una categoria generale dell’arte sotto cui sussumere la complessa fenomenologia delle arti, allora qual è il senso generale di tale tesi? L’articolata risposta di Costa è che, potremmo dire ‘aristotelicamente’, l’estetizzazione delle tecniche è avvenuta in molteplici modi e tutti in relazione alle epoche dello sviluppo delle tecniche. Dal momento che la storia della tecnica non è solo storia evolutiva lineare ma ha incluso delle radicali discontinuità, ne è risultato che le epoche dell’arte hanno riflettuto tali discontinuità fino a risultare eterogenee nei loro caratteri generali. Tuttavia, per comprendere tale assunto estetologico, bisogna entrare negli schemi interpretativi messi in campo da Costa. Bisogna comprendere innanzitutto le discontinuità interne alla storia della tecnica.

Riprendendo e sistematizzando i suoi lavori precedenti – nonché facendo i conti critici con ‘tecnologi’ quali Simondon, Dyson e Basalla – la tesi di Costa al riguardo è che, fino ad oggi, tre sono state le macro-epoche della tecnica: a) l’epoca della tecnica strumentale; b) l’epoca della tecnologia; c) l’epoca della neo-tecnologia.

L’epoca della tecnica strumentale “è l’epoca della mano; gli oggetti tecnici sono legati al bisogno e rispondono ad esso; fanno parte della cultura nel senso che sono una parte della cultura stessa (gli antropologi hanno potuto parlare di essi come di una ‘cultura materiale’)” (p. 43). Inoltre, gli strumenti, pur potendosi connettere l’uno all’altro “non si interpenetrano e non si ibridano” (p. 44), secondo le note analisi di McLuhan.

L’epoca della tecnologia non è più l’epoca della mano ma della macchina, vale a dire di strumenti che, pur interpretabili ancora come protesi del corpo e degli organi di senso (McLuhan), si sono resi relativamente autonomi dalla soggettività umana. Gli strumenti tecnologici, afferma Costa, “sono sempre meno legati al bisogno e […] crescono stabilendo rapporti tra di loro […]; essi procedono per sequenze tecnologiche (la fotografia, la diapositiva, la fotocopia….il cinema muto, il cinema sonoro, il cinema a colori, il cinema stereoscopico, stereofonico, tridimensionale…) e per ibridazioni; più che far parte della cultura e costituirla, la traducono” (ivi).

L’epoca neo-tecnologica, infine, è quella pervasa da nuove tecnologie che non possono più essere interpretate come estensioni o protesi di capacità umane ma come “estroflessioni separate dei funzionamenti di base dell’umano che tendono progressivamente a farsi autonome e sé-operanti” (pp. 44-45). Tali neo-tecnologie, inoltre, “hanno la tendenza a costituirsi in blocchi e a formare degli ipermedia; crescono su sé stesse, al di fuori della cultura e tendono a dissolvere la cultura stessa; l’uomo è del tutto marginale ed il suo ruolo è sostanzialmente quello di far funzionare i diversi blocchi neo-teconologici” (p. 44).

A tali epoche, secondo Costa, ha corrisposto una analoga partizione dell’arte. Le arti dell’epoca tecnica “sono immediatamente legate al corpo e da esso sono messe in opera” (p. 47) ed “è solo da questa circostanza che sono nate le categorie dell’estetica tradizionale: l’interiorità, l’espressione, il significato, l’idea, lo stile, la personalità artistica, il simbolico, il genio e così via” (ivi).

Le arti tecnologiche, invece, “si costituiscono sulla base di una mediazione rappresentata dalla presenza ineliminabile della macchina; questa (la ‘macchina’ e non lo ‘strumento’), e solo questa, traduce l’esperienza nel senso in cui McLuhan intende questo concetto […]; con le arti tecnologiche, insomma, si ha sempre e comunque a che fare con una traduzione del soggetto; è da qui che è nata la concezione dell’arte come ‘linguaggio’ e nell’estetica è questo il momento nel quale si afferma la ‘semiotica’: il luogo prima dominante del ‘soggetto’ viene sostituito dai ‘linguaggi’ e dal ‘testo’” (ivi).

Con le arti neo-tecnologiche, infine, si ha la fine di ogni estetica del soggetto così come di ogni estetica dei linguaggi e le categorie della nuova estetica neo-tecnologica sono l’esteriorità, il non-soggetto e la fisiologia della macchina. Nelle operazioni estetiche neo-tecnologiche – tiene a sottolineare Costa – si riscontra un abbandono dell’intenzionalità simbolica a favore di una intenzionalità teorico-conoscitiva molto vicina alle modalità operative degli scienziati. E, ovviamente, alla nozione di personalità artistica, tipica dell’epoca della tecnica strumentale, ma ancora implicata in quella tecnologica (si pensi, ad esempio, al cinema), deve ora subentrare quella di ricercatore estetico-epistemologico (vedi p. 49).

Il capitolo terzo, anch’esso centrale, tratta degli errori dell’estetica tradizionale (Degli errori dell’estetica). Volendo schematizzare l’argomentazione di Costa, potremmo dire che tali errori sono riconducibili alle seguenti sette tipologie:

a) il primo, quello fondamentale – a cui tra l’altro è possibile ricondurre il titolo stesso del volume che recita, appunto, “dimenticare l’Arte” - consisterebbe “nel fare dell’arte una Categoria assoluta e di ricercarne poi l’essenza” (p. 56); ma ciò significherebbe disconoscere la irriducibile eterogeneità delle estetizzazioni delle tecniche precedentemente descritta.

b) il secondo errore, conseguente al primo, “è quello di applicare considerazioni e criteri nati con l’arte della tecnica all’arte tecnologica” (ivi); questo è l’errore più frequentemente commesso dall’estetica tradizionale legata ancora a nozioni valevoli per le arti dell’epoca strumentale (soggettività artistica, stile personale, espressione, dimensione simbolica, opera ecc.).

c) il terzo degli errori dell’estetica è il simmetrico del secondo e consisterebbe “nell’applicare all’arte tecnica considerazioni e criteri ricavati dall’arte dell’età tecnologica” (p. 61). L’esempio più clamoroso al riguardo riposa nell’idea secondo la quale tutte le arti sarebbero dei “linguaggi”. A tal proposito Costa avanza nel libro una ipotesi molto suggestiva (che egli stesso ritiene ancora bisognosa di approfondimento critico) e cioè che sia stato il forte interesse per il cinema – che come ogni “tecnologia” traduce la cultura in un proprio linguaggio mediale – da parte dei formalisti russi, durante gli anni che vanno dal 1915 al 1930, a far nascere l’interesse per un approccio semiotico alle arti.

d) il quarto errore consiste nel “trasferire ed estendere le considerazioni fatte su un tipo specifico di prodotto artistico e ad esso in qualche modo adeguate, a tutti gli altri” (p. 58); è, ad esempio, l’errore prospettico di Lukács che estende criteri interpretativi desunti dalla letteratura a tutte le altre arti.

e) il quinto errore consisterebbe nel fatto che “l’’estetica non parla dell’arte ma dei suoi effetti e ciò la rende niente affatto specifica e pertinente” (p.64); e qui Costa pensa alla teoria lippsiana dell’Einfühlung.

f) il sesto errore è “quello di chi dice che tutto è arte e l’arte è dappertutto, dissolvendo in vario modo l’arte nel concetto generale di esperienza” (p. 68); ed è questo il caso dell’estetica di Dewey.

g) infine, il settimo degli errori dell’estetica è “quello di chi confonde l’artistico con l’estetico, dissolvendo così in vario modo l’arte nel concetto generale della vita” (ivi).

La conclusione a cui Costa giunge equivale ad un vero e proprio cambiamento di paradigma nella ricerca estetologica che non mancherà di far discutere. Infatti, data la tesi generale per cui le arti sono sempre estetizzazione delle tecniche la conseguenza è che una Teoria Estetica Unitaria non può darsi. L’unità dell’estetica sarebbe, quindi, perduta: “ciò significa che devono esserci tante estetiche, una per ciascuna tecnica e per ciascuna pratica artistica, e, a rigore, una per ciascun prodotto” (p. 73).

Vincenzo Cuomo



Indice:

Delle categorie dell’estetica e della loro liquidazione
Delle arti in quanto estetizzazione delle tecniche
Degli errori dell’estetica
Contributo all’estetica tecnologica
Contributo all’estetica neo-tecnologica