NON-LUOGO DI TRANSITO

 

Guerre, [numero monografico di] L’espressione, rivista di filosofia, anno 1, n° 0,
Napoli, Edizioni Cronopio, 2003, ISBN 88-85414-75-3, € 12,50

 

Il numero 0 della nuova rivista napoletana L’espressione, interamente dedicato al tema della "guerre", si segnala in particolare per la radicalità della prospettiva con cui affronta una tematica ormai all’ordine del giorno della storia, una radicalità sia filosofica che etico-politica che credo potrà far discutere ma che di sicuro sarà un antidoto efficace al ricorrente rischio della retorica banalizzante che oggi si avverte, purtroppo anche a sinistra, su tale tematica.

Nell’introduzione, a "firma collettiva" (Collettivo 33) è chiarito il compito filosofico (e politico) che la rivista fa suo: combattere il nichilismo, sia nella versione catastrofista che in quella caratterizzata dall’elogio della finitezza, in chiave consolatoria e nichilistico-passiva. E "nulla come la guerra esprime nei nostri tempi questo nichilismo della finitudine" (p. 9). Per contrastare gli effetti disastrosi della guerra, allora, non basta la condanna morale, ma c’è bisogno di attivare la "potenza affermativa del pensiero": si deve innanzitutto poter "fare differenza fra la guerra e questa guerra, fra la guerra in generale, se mai esiste, e questa guerra particolare, posto che sia ancora una guerra e non si sia trasformata in qualcosa d’altro che non sappiamo ancora nominare né pensare" (ivi); in secondo luogo si deve poter pensare alla guerra come espressione invertita e reattiva di forze che, contraddicendo la logica leviatanica degli stati (la guerra, infatti, non è la prosecuzione della politica con altri mezzi), possano generare processi, non necessariamente cruenti, di emancipazione e di liberazione.

Il primo saggio di Maurizio Zanardi (Il collettivo e l’espressione) è una riflessione sui rapporti tra l’evento storico, l’evento-tyche (le guerre nell’epoca della mondializzazione) e la nascita di un collettivo e di una rivista, questa, intesa come forma con cui si tenta di (cor)rispondere a quell’evento. Di fronte alla radicalità di un evento che ti coglie alla sprovvista e ti sceglie, l’unico atteggiamento morale e politico possibile deve essere per forza di cose radicale. Nessuna mediazione, nessun moderatismo è giusto rispetto a ciò che culturalmente ti dis-loca, sconvolgendo ogni tuo programma, rispetto a ciò che sfugge alle categorie interpretative già acquisite. Secondo Zanardi, trarre le estreme conseguenze dall’evento-fortuna, significa, per il pensiero, accogliere l’accadimento dell’impossibile (di ciò che non era annoverato nell’ambito del possibile). L’evento, infatti, si può solo subire: "irrelato, incalcolabile e straniero, l’evento è un incidente, un trauma che non può essere né prodotto né decostruito" (p. 21); ma la forza dell’evento ha bisogno di essere affermata, espressa e "il collettivo è un darsi la voce, una convocazione, affinché la fortuna non venga invano" (p. 28).

Il saggio di Alain Badiou (La filosofia e l’11 settembre) si sofferma, invece, sulla relazione tra terrorismo e guerra. Dopo aver chiarito come il termine "terrorismo" sia un concetto vuoto, formale, che non designa un orientamento politico ma solo la forma dell’azione non statale che si caratterizza per la sua spettacolarità, per la sua violenza e per il suo non far distinzione tra civili e militari, Badiou sottolinea come la guerra contro il terrorismo, lunga e dura, sia "il simmetrico, anch’esso interamente formale, della vaghissima parola terrorismo" (p. 46). Nel passato quando i governi dichiaravano di voler sradicare il terrorismo evitavano accuratamente di parlare di guerra: "come in effetti dichiarare guerra a qualche civile traviato, a qualche fanatico che mette bombe, a una banda di anarchici?" (ivi). Perché ora gli USA parlano di guerra? La tesi del filosofo francese è che "la potenza americana ha di sé una rappresentazione in cui la guerra è la forma privilegiata o addirittura unica di attestazione della propria esistenza" (p. 47). Riprendendo un concetto di Deleuze, Badiou dice che il terrorismo dell’11 settembre e la guerra che vi si oppone "costituiscono la testimonianza de la sintesi disgiuntiva di due nichilismi" (p. 50); c’è sintesi perché "gli attori che si fronteggiano sono della stessa specie, poiché appartengono "allo stesso mondo, quello nichilista del danaro, della potenza cieca, della rivalità cinica, dell’oro nascosto delle materie prime, del disprezzo totale della vita comune della gente, dell’arroganza di una certezza di sé fondata sul vuoto" (p. 50); c’è disgiunzione perché "è inevitabilmente nella forma del crimine che questi attori si cercano e si trovano" (ivi). Infatti, "proprio come il crimine di New York, la guerra americana è svincolata da ogni diritto, indifferente a ogni progetto" (p. 52). La filosofia "ha allora il compito di accogliere nel pensiero tutto ciò che si regge al di fuori di questa sintesi", ma per farlo deve rompere definitivamente con il motivo nichilista della finitudine "che è la forma discreta attraverso la quale il pensiero si piega in anticipo alla modestia che le ingiunge di conservare, in ogni circostanza, il feroce nichilismo contemporaneo" (p. 54).

Jean-Luc-Nancy, nel suo breve ma denso articolo, parte da una considerazione lapidaria: "dopo l’11 settembre una cosa è ormai chiara: il mondo si dilania intorno a una divisione intollerabile della ricchezza e del potere" (p. 55); intollerabile perché il mondo della tecno-scienza fa apparire intollerabile qualunque ierarchia, destituisce di fondamento qualunque tentativo di sacralizzazione del principio del potere. Secondo Nancy, il nostro è, infatti, il mondo dell’uguaglianza fondata sull’equivalente generale (denaro), prodotta dal dominio universale del valore di scambio; in esso possono esserci solo sfruttatori e sfruttati, dominanti e dominati, ma senza alcuna giustificazione gerarchica. Per tale motivo tali divisioni appaiono intollerabili. Contro tale uguaglianza (che implica enormi disuguaglianze, ma, al contempo, le rende ancor più intollerabili) bisognerebbe far valere, a parere di Nancy, un’altra gerarchia, "senza corona né tiara", ma fondata sull’incommensurabilità dell’esistente singolare, sulla parità di grandezze singolari e incommensurabili. Tuttavia, oggi, il mondo, unificato dall’equivalente generale, appare violentemente contrastato da un’altra potenza unificante, che è un parto e una parte dello stesso Occidente, vale a dire il fondamentalismo islamico che, all’immobilizzazione prodotta dal capitale mondializzato, oppone una mobilitazione in nome di un dio Unico. Ciò nondimeno, l’universalità totalizzante del capitalismo, così come il monoteismo fondamentalista, sono "due facce, una di fronte all’altra, dell’identico Unico, nel momento in cui l’Unicità di Dio viene intesa come Presenza assoluta" (p. 56). Si tratta, in sostanza, di uno scontro nichilista interno all’Uno.

Per Daniel Bensaïd (Dio, come sono sante queste guerre!) gli attentati dell11 settembre sono da condannare sia moralmente, per le vittime che hanno fatto, sia politicamente, per aver dato l’occasione all’amministrazione americana di riunire dietro la loro bandiera "una colazione reazionaria senza precedenti su scala planetaria" utilizzata per disegnare a proprio favore il nuovo ordine imperiale dopo la Guerra Fredda. La guerra infinita proclamata da Bush, afferma Bensaïd, è il punto di arrivo e di crisi di un’evoluzione del concetto e della prassi bellica che inizia con la Rivoluzione Francese. Quest’ultima segna il passaggio dalla guerra settecentesca di manovra, lenta e lunga, alla guerra nazionale massiccia e breve. Tuttavia la guerra nazionale non tarda a diventare guerra totale e ad oltranza, guerra in cui sfuma la distinzione tra civili e militari. Il culmine di tale evoluzione si ha con il terrorismo di Stato rivelato e inaugurato dalla bomba di Hiroshima. Tuttavia, la scomparsa dell’URSS e l’accelerazione della mondializzazione ha finito per indebolire gli Stati-nazione che detenevano il monopolio della "violenza organizzata", favorendo la privatizzazione, la disseminazione e la frantumazione della violenza che sembra oggi realizzare una sorta di "guerra civile senza frontiere". La guerra infinita che gli Usa hanno iniziato a combattere è, anche quando sembra essere contro degli Stati, una guerra contro un nemico senza volto, una guerra che sarà essa stessa in buona parte senza volto, segreta, e senza esclusione di colpi.

Il saggio di Bruno Moroncini (Il dono della guerra), il più ampio e teoreticamente radicale che appare nella rivista, riprendendo alcune analisi di Dumézil e di Deleuze e Guattari, si interroga su cosa sia il desiderio e l’urgenza della guerra. La risposta è che tale desiderio (tale imperativo) ordina e si augura la rottura del legame sociale, di ogni comunità "organica" e di ogni struttura gerarchica "fino a produrre una molteplicità di cose singolari a tal punto sparpagliate e disseminate da non poter mai più esser ricondotte ad unità" (p.75). La tesi è che, nonostante le guerre siano innanzitutto e per lo più assimilate all’attività di Stati, l’essenza della guerra consista nel desiderio/imperativo di sciogliere il legame sociale e di tradire il patto politico istitutivo della compagine statuale. Come hanno ben visto Deleuze e Guattari, il guerriero è una "macchina da guerra" che continuamente mette in discussione la gerarchia. Ne consegue, tuttavia, non solo che la guerra, in tal senso intesa, non debba essere necessariamente cruenta, ma anche (e soprattutto) che "le guerre vere e proprie sarebbero solo le guerre popolari e rivoluzionarie, le guerre di liberazione" (p. 78), tese a creare nuovi rapporti sociali non-organici. A tali guerre di liberazione sembra opporsi la contemporanea forma della guerra capitalistica, il cui nichilismo fine a se stesso genera "deserto dentro e fuori, nel soggetto e nel mondo" (p. 81). Tuttavia il capitalismo, suggerisce Moroncini, ha cambiato in modo così radicale lo statuto della guerra che "la guerra di liberazione e rivoluzionaria non necessariamente tenderà a scontrarsi con le leggi del capitalismo, ma molto spesso sarà parallela alla loro messa in atto e in certi casi […] ne risulterà totalmente indiscernibile" (ivi). Le guerre del capitale, infatti, tendono ad essere guerre totali di annientamento e distruzione anche perché sono "immensi investimenti di plusvalore non riutilizzabile dal sistema economico complessivo se non sotto forma di dispendio di uomini e cose" (p. 82). Esse sono pertanto guerre totali, che sfuggono al calcolo razionale e politico, e guerre incondizionate, in quanto ognuna di esse "si pensa anche come l’ultima guerra, come la guerra capace di metter fine ad ogni guerra, come la guerra che la guerra fa alla guerra e che quindi lavora per la pace" (p. 83). È questo il lato idealistico di tali guerre, nel senso che ognuna di esse tende a pensarsi come guerra ideale, che realizza kantianamente, in un’unica guerra, l’idea della guerra (che, sempre kantianamente, come è noto, è un concetto della ragione cui non può corrispondere alcun oggetto d’esperienza). Tuttavia, per raggiungere il suo scopo, la guerra ideale, in quanto ultima guerra, dovrebbe portare la guerra a tutto l’esistente e, quindi, annichilendolo, dovrebbe annichilire anche il suo stesso scopo. La questione allora, secondo Moroncini, riguarderà l’etica e la politica che siano capaci di essere all’altezza dell’orrore che una tale guerra mette in campo. Detto diversamente, come agire per far emergere in tali guerre incondizionate "il fulgore, non necessariamente sanguinoso, della macchina da guerra di liberazione e rivoluzionaria" (pp. 98-99)? Moroncini ritiene che una risposta credibile si possa ritrovare nelle pagine conclusive della Part maudite di Georges Bataille, laddove il filosofo francese rifletteva sull’economia americana intesa come "la più grande massa esplosiva che sia mai esistita al mondo", sottolineando come, se "tale economia [sia] risultata all’altezza di due guerre [mondiali]", "nel proseguimento del suo movimento di crescita, quale improvviso sortilegio l’avrebbe trasformata in un’economia di pace?" (p. 101). Ma concludeva affermando che "se è vero che mal si vede come gli Stati Uniti possano prosperare senza l’aiuto di una ecatombe di ricchezza, sotto forma di aerei, di bombe e di altri equipaggiamenti militari, si può immaginare un’ecatombe equivalente consacrata ad opere non cruente; […] si può preveder anche una vasta competizione economica che costerebbe a chi ne prendesse l’iniziativa sacrifici paragonabili a quelli delle guerre, e che fonderebbe su un bilancio della stessa natura che i bilanci di guerra, un dispendio non compensato da nessuna speranza di profitto capitalista" (pp. 101-102). Quindi, commenta in conclusione Moroncini, l’unica risposta etico-politica che sia all’altezza delle guerre del capitale sarebbe quella che le trasformasse "in una dépense cosciente e volontaria, in un potlac senza riserve e senza resto" (p. 102). Perché, come affermava Bataille, "quell’eccedente energetico che non viene distribuito in doni fatalmente lo sarà sotto forma di bombe" (ivi).

Per Antonella Moscati (L’esercizio della morte. Dopo l’11 settembre) il terrorismo, dopo l’11 settembre, è divenuto uno schema prefabbricato, un grande pregiudizio con il quale si rende a priori omogeneo ciò che non lo è: "ormai si chiama terrorismo ogni forma di violenza che non sia quella di coloro di cui si ritiene che ne abbiano il legittimo monopolio" (p. 104). D’altro canto la sicurezza è divenuta ormai l’unica parola d’ordine dei governi, cosa che sta mettendo seriamente in pericolo la stessa sopravvivenza della democrazia. Moscati riflette sulle contraddizioni del biopotere, studiato da Foucault, che da un lato, secondo la sua essenza, tende a regolare e a salvaguardare la vita della popolazione in tutti i modi possibili, dall’altro, attraverso la forma del "razzismo di stato", impone la guerra e porta la morte. Il razzismo di stato (per cui ogni stato tende a salvaguardare e a regolare la vita della sua popolazione anche a danno delle altre) è la forma grazie a cui il biopotere si mantiene e si trasforma tra Ottocento e Novecento, creando cesure e frammentazioni nel continuum biologico della specie, giungendo a concepire la morte "degli altri" come una condizione non solo della propria vita ma anche del suo miglioramento. C’è, quindi, secondo Moscati, una morte che è del tutto funzionale al biopotere, che è non solo quella che si è manifestata nei massacri delle "razze inferiori e cattive" (è il caso del nazismo) ma è anche la morte "che nasce dall’esclusione e dalla dimenticanza, la morte, ad esempio, così come essa si presenta nei paesi lasciati morire dagli embarghi o dai prezzi troppo alti dei farmaci contro l’Aids" (p. 109). Tuttavia, nell’attentato alle due torri si è manifestata un’altra modalità di morte, assolutamente inaccettabile dal punto di vista del biopotere occidentale: la morte degli attentatori suicidi. L’attentatore suicida è, infatti, "uno che, nella morte e con la morte, crede di poter restituire alla vita tutta la sua potenza, tutta la potenza che le è stata tolta" (ivi). Tale immagine della morte sembra avere un effetto devastante sull’immaginario occidentale, anche se l’attentato suicida non fa alcuna strage, tanto da sostanziare il pregiudizio sul terrorismo e giustificare la riduzione delle garanzie democratiche. Ci troviamo forse di fronte ad una crisi del progetto biopolitico o semplicemente di fronte ad un sua battuta d’arresto?

Nel suo intervento Angela Putino (Una nota sulla biopolitica), rifacendosi come Moscati alla teoria biopolitca di Foucault, articola la tesi secondo cui da un lato "l’homo oeconomicus è l’apice della biopolitica", segnandone una nuova tappa evolutiva, dall’altro la guerra, conseguentemente, è espressione di una tendenza immunitaria attraverso cui l’homo oeconomicus si protegge da ciò che potrebbe metter in pericolo il suo privilegio.

Arriviamo, quindi, a prendere in considerazione il saggio di Carlo Formenti, uno dei più acuti studiosi italiani del fenomeno Internet, che propone un punto di vista di notevole interesse. Il suo intervento (Totalità e infinito. Scenari della guerra fra sistemi aperti e sistemi chiusi), attraverso un’intelligente rilettura dell’opposizione concettuale levinasiana tra totalità e infinito, cerca di delineare il conflitto tra logica totalizzante (inglobante e difensivo/immunizzante) e logica infinitizzante (aperta agli attraversamenti dell’Altro) all’interno della galassia Internet. Il conflitto tra una logica della totalità e una dell’infinito, presente nella cultura europea a partire dal Cinquecento, dall’epoca della Riforma e dell’inizio della globalizzazione dei mercati, ha trovato storicamente il suo luogo proprio sull’altra riva dell’Atlantico, nell’America delle derive settarie e anarchiche ma anche dello sterminio dei nativi, nonché dell’esplosione del capitalismo senza regole. La storia degli Usa è fatta, infatti, sia dal sogno nomadico della continua secessione, del "movimento centrifugo delle monadi che rifiutano la sovranità del Leviatano" (p. 131) (le figure dell’infinito), sia dalle ricorrenti tensioni totalizzanti e implosive che, specie a partire da fine Ottocento, hanno fatto sì che la dinamica espansiva della società americana, raggiunto il "muro del Pacifico", si ricolleghi alla politica dello Stato e tenti di imporre, anche attraverso la guerra, il suo dominio sulla vecchia Europa e sul mondo (le figure della totalità), sia infine dalla dinamica espansiva di un capitalismo senza regole (le figure della "cattiva infinità"). L’America è tutte e tre queste figure, nelle loro ibridazioni e nei loro conflitti. Arriviamo, quindi, al fenomeno della Rete. Se in Internet, secondo Formenti, le figure della totalità hanno sempre avuto scarso peso, interessante è piuttosto l’analisi dell’evoluzione dei rapporti tra le figure dell’infinito (infinito e falso infinito), vale a dire tra l’anarco-capitalismo della net-economy e il "nomadismo desiderante" delle comunità virtuali, delle comunità di hackers e di sviluppatori di software open source. Secondo Formenti, "il sogno di una convivenza pacifica fra nomadismo desiderante e narcocapitalismo, caratterizzato da un riequilibrio dei rapporti di forza a favore del primo, attraversa tutti gli anni ‘90" (p. 138), in cui rivive la saga dell’american dream: "eretici e utopisti non tornano solo a disporre di vie di fuga: ora i loro deliri e le loro visioni trovano spazio nel cuore stesso del mercato" (pp.138-139). Certamente ciò è accaduto anche grazie all’idea speculativa che prima o poi l’abbondanza virtuale si sarebbe trasformata in profitto reale. Ma, fino alla fine dello scorso secolo, l’idea che tutti, sia gli hackers sia gli operatori della net-economy, potessero giocare e vincere il loro gioco, sembrava non solo prevalere ma anche prospettare "l’ombra di una globalizzazione ‘dolce’" che avrebbe consentito "una distribuzione universale dei benefici delle nuove tecnologie" (p. 139). Ad un certo punto, nei primi due anni del terzo millennio, tale sogno viene meno di colpo "sotto le macerie di un duplice crollo: quello dei titoli tecnologici prima e quello delle Twin Towers poi" (p. 140). Questo secondo crollo ha poi "riportato al centro della scena la figura della totalità". L’America della net-economy e delle libertà democratiche "scopre di colpo, e in modo scioccante, di essere parte dello spazio globale che lei stessa ha costruito" (p. 142). Del resto i sistemi economici "aperti" sono anche fragili ed "esposti a sfide, attacchi e sabotaggi dai quali non possono difendersi se non al rischio di rinunciare alle proprie caratteristiche" (p. 143). L’attacco alle Twin Towers, che avrebbe richiesto una risposta di ben altro tenore, ha colto gli Usa "mentre avevano appena eletto colui che è probabilmente il peggior presidente da un secolo a questa parte" (ivi) ed espressione degli interessi della parte più retriva della Vecchia Economia e della Deep America cristiano-integralista. La risposta americana assume, quindi, le caratteristiche "di una brutale estensione della sovranità delo stato-nazione americano sul resto del pianeta" (p. 145). E l’attacco che è stato scatenato alla cultura libertaria della Rete non è stato da meno, come dimostra il Digital Millenium Copyright Act. Secondo Formenti, la posta in gioco è la colonizzazione capitalistica della Rete, attraverso "quel disciplinamento di utenti e consumatori che le leggi del mercato non sembrano in grado di realizzare" (p. 146). Tutto ciò ci fa comprendere come "la guerra con cui è cominciato il terzo millennio non è semplicemente una guerra al terrorismo, bensì l’inizio di una lunga battaglia fra sistemi aperti e sistemi chiusi, fra Totalità e Infinito" (p. 148).

Gabriele Frasca, nell’articolo conclusivo della rivista (Il dolce stil no. Per un’arte degenerata e denaturata), propone un’acuta riflessione sullo statuto dell’arte nella società contemporanea, in cui la rete simbolica che ricopre il mondo "diviene piuttosto pellicola" (p. 149) tanto aderente alla realtà da "colmarla", eliminandone ogni vuoto, ogni iato, ogni pausa, ogni silenzio. Ciò che in tal modo si manifesta è, secondo Frasca, il "niente-tace" che, pervasivo, sostanzia "la via patria e imperialista alle tecnologie dell’informazione" (p. 150). Il niente-tace dice e ridice: "tu stai qui" e, dicendolo, riporta all’uno, all’unità, ciò che, nel parlare è sempre uno e due, l’uno e l’altro. Ma, "se il niente-tace è perché il niente ci legge" (ivi), allora, "per lacerare la pellicola, tornare liberi alla morte che promette la vita, occorre espellersi la lettera […] far saltare il vincolo […] ritrovare il luogo in cui è stata inferta la lettera" (p. 154) fino forse, per chi sente la propria vita come costretta in "un budello di salsiccia", a "esplodere con tutto il proprio corpo, o trascinarlo sofferente per ostenderlo morente lungo le polverose strade imperiali" (p. 154). È, quest’ultima, la soluzione scelta dagli attentatori suicidi: morte barattata con la morte. Ma, secondo Frasca, "uno per uno […] gli emisferi del Sacro Romano Emporio fanno comunque sempre uno". Allora, "se vi è un compito per una politica dell’emancipazione (Collettivo 33), questo da sempre è quello di inoculare nell’uno della macchina stativa l’agente patogeno del due" (p. 155). È quanto ha spesso fatto l’arte, magari malgrado se stessa, inscenando la presunta "resurrezione del figlio dell’uomo […] senza chiederne in cambio la morte (senza porsi a fondamento né dell’Imperatore, che chiede i suoi martiri, né dell’emporio, che invece li fa)" (p. 156). L’arte insegna la denaturazione, è snaturante e disumana, "si sottrae al flusso informativo (uniformativo), impone pause in cui far srotolare a vuoto il nastro" (p. 157). Il suo è un dolce stil no che "reseca l’uno"; e infatti, afferma Frasca, la "formula metastabile dell’arte […] da tempo è: x-1 (moltiplicare il sottrarsi all’uno)" (ivi).

Vincenzo Cuomo

 

 

Indice:

Collettivo 33, La filosofia come affermazione infinita

Maurizio Zanardi, Il collettivo e l’espressione

Alain Badiou, La filosofia e l’11 settembre

Jean-Luc Nancy, Dell’Uno e della gerarchia

Daniel Bensaïd, Dio, come sono sante queste guerre!

Bruno Moroncini, Il dono della guerra

Antonella Moscati, L’esercizio della morte. Dopo l’11 settembre

Angela Putino, Una nota sulla biopolitica

Carlo Formenti, Totalità e infinito (Scenari della guerra fra sistemi aperti e sistemi chiusi)

Gabriela Frasca, Il dolce stil no (Per un’arte degenerata e denaturata)

BUONE NOTIZIE

Gioia Costa, Carmelo Bene, o dell’abbandono