NON-LUOGO DI TRANSITO

 



Aa. Vv., L’origine è la meta
a cura di Vincenzo Cuomo,
Firenze, Morgana Edizioni, 2006,
ISBN: 88-89033-17-7, Euro 15



(recensione di Tommaso Ariemma)

La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, che chiude filosoficamente l’Ottocento, ma che apre, nello stesso tempo e in modo decisivo, il secolo appena trascorso, dice l’esposizione assoluta.

Non dunque, come Heidegger ha avanzato nella sua monumentale esegesi del testo nietzscheano, un passaggio di sovranità: al posto di Dio si insedierebbe l’uomo, figlio e diretto successore, con la sua tecnica diabolica e la sua volontà di dominio.

La sentenza, implicitamente, contiene invece un senso profondo: se Dio è morto, ogni cosa è esposta. Se anche lui può morire, nessuna cosa è assolutamente al riparo. L’originalità della sentenza sta, inoltre, nel fatto che tale esposizione non venga inserita in alcun telos, in alcun progetto. Non si parla, qui, del Dio morto per l’uomo, bensì morto. Assolutamente.

Una caratteristica portante del pensiero filosofico da Platone fino a Hegel è quella di pensare attraverso l’esposizione. È il movimento fondamentale della sua esperienza: uscire fuori per tornare in sé, e in tal modo crescendo, poiché qualcosa del fuori lo si deve pure portar dentro. È il bottino dello Spirito. La sua essenza è questa razzia.

Si pensa, e in generale si vive, attraverso l’esposizione, senza che, tuttavia, degna attenzione venga rivolta a questo fatto fondamentale. Siamo esposti, ma non ne sappiamo nulla. Fino a Nietzsche.

Perché se resta in piedi un che di intatto, di perfetto, ogni esposizione verrà sempre vista nell’ottica di un’ultima garanzia. Di qualcosa che ci assolva dal nostro continuo essere esposti.

Il Novecento si apre così nel segno di un pensiero abissale, di un pensiero dell’esposizione. Se il senso fondamentale della filosofia occidentale - la sua direzione, la sua tendenza - è stato quello di confinare l’esposizione della negatività, un’altra possibilità di senso avvia invece questo secolo, che rende giustizia proprio alla parola ‘senso’, poiché restituisce l’apertura, la sua intrinseca sensualità.

Prezioso per un’analisi di tale possibilità, ovvero del nesso Novecento-esposizione, è il volume curato da Vicenzo Cuomo, dal titolo significativo L’origine è la meta, che inaugura la nuova collana Le parole del Novecento per le edizioni Morgana di Firenze, frutto della collaborazione tra membri della rivista di critica filosofica Kainos e gli artisti di CODICE EAN. Laboratorio indipendente intorno al contemporaneo.

Il titolo è significativo perché nomina implicitamente la strategia fondamentale della filosofia classica: la ricerca di un principio primo e intatto. Tale ricerca, secondo la logica che abbiamo descritto, rimuove però l’esposizione attraverso la quale essa intraprende il cammino per raggiungere l’originario. Attraverso l’esame critico delle prospettive di pensatori come Benjamin, Adorno, Lévinas, Arendt, o di artisti come Klee e Mario Luzi, il volume, grazie anche ai suggestivi interventi visivi a cura del laboratorio CODICE EAN, mostra con parole e immagini una differente visione del percorso “l’origine è la meta”. Senza intraprendere l’ascesi metafisica, si sta fermi all’inizio, dove accadono intrecci, intrusioni, scarti. Un’altra origine, dunque, genesi dell’origine metafisica, e cioè l’esposizione stessa. Le immagini che corredano il volume degli artisti di CODICE EAN (Antonio Picardi, Angelo Ricciardi, Umberto Manzo, Vincenzo Rusciano, Domenico Antonio Mancini) fanno allusione al toccare, all’intersezione, alla confusione, come pure a tutto ciò che oggi ci espone. Alternandosi in modo significativo con le immagini, i saggi, invece, toccano momenti significativi di un pensiero dell’esposizione.

Il saggio di Stefania Astarita, W. Benjamin e P. Klee: intersezioni, intrecciando in modo originale la riflessione di Benjamin e il pensiero figurativo di Klee, esplora la capacità dell’immagine di esprimere l’origine. L’immagine, luogo limite in cui si incontrano visibile e invisibile, diviene lo strumento per risalire alla preistoria del visibile stesso, all’irruzione del nuovo, come il non-visto, e non-visibile. Collegandosi alla tematica dell’immagine, il saggio di Vincenzo Cuomo, Dell’immagine che non deve saturare il vuoto. Sul Mahler di Adorno, ricostruendo in maniera dettagliata la lettura di Adorno del compositore boemo Gustav Mahler, indaga l’eccedenza originaria, la frattura all’origine, attraverso l’analisi del rifiuto musicale come cifra dell’opera del compositore.

Coerentemente con questo percorso, il saggio di Eleonora de Conciliis, L’etica del “come se”. Lévinas e la questione dell’eros, si concentra sulla questione dell’altro. In modo chiaro e incisivo, l’etica di Lévinas viene analizzata a partire dalla tematizzazione dell’evento dell’altro, del suo sguardo e dei paradossi del rapporto erotico. In questa presentazione di figure dell’alterità si inserisce anche il saggio di Lina Fiordoro su Luzi, Il testimone muto. La riflessione sul senso dello scrivere nell’opera poetica di Mario Luzi, che esplora la possibilità della poesia di porre domande, di essere enigmatica e perciò di costringere il pensiero a pensare. La poesia, come altissima interrogazione sul senso delle cose, testimonia innanzitutto la loro estraneità.

Ma non è proprio la loro estraneità a coinvolgerci? Proprio su questo punto si sofferma il saggio di Aldo Meccariello, Le lacrime di Penelope e il vento del pensiero. Saggio sulla Vita della mente di Hannah Arendt, che, attraverso l’analisi delle posizioni della pensatrice, fa emergere la natura fondamentale del pensiero come coinvolgimento, essere al mondo e alla vita.

Alla fine, proprio un singolare coinvolgimento è la cosa in questione di questo interessante volume: una feconda tessitura di pensiero e immagini che stimola a domandare.







Aa. Vv., L’origine è la meta
a cura di Vincenzo Cuomo,
Firenze, Morgana Edizioni, 2006



(recensione di Massimo Barbaro)



Non abbiamo fatto in tempo a controbattere alla tesi della fine della storia, ed ecco che svoltato ormai decisamente il millennio dobbiamo già dar ragione alla tesi della storia che torna indietro, del regresso. L’idea illusoria di progresso è già da tempo ormai accantonata, ma di qui al suo esatto contrario…

E sempre, la storia stessa a incaricarsi di fornirne la dimostrazione…

«Cambiare il mondo (Marx). Cambiare il sé (Freud).» (André Breton). Abbiamo visto rivoluzioni fallire e rivoluzioni mai nascere, avanguardie sfumare in post-avanguardie e transavanguardie, la fine della modernità, e quello che pensavamo il terminale di tutti gli approdi – il riconoscimento del nessun approdo possibile (il postmoderno) – essere messo alla berlina dal neo-premodernismo…

Neanche l’hic et nunc ci è venuto in soccorso. Per apprezzare il qui, intanto abbiamo dovuto andarlo a cercare nella distanza dell’esotismo; per cogliere l’ora, non potevamo fare a meno di confrontarci con le origini e con la tradizione. Nutriamo sempre la speranza – ma di speranza ormai si tratta, questa è la disperante realtà – che il tenere uniti il qui e l’ora sia la questione. Ma non siamo mai qui, ora, siamo sempre più avanti o più indietro, e vorremmo sempre essere altrove.

Eterotopia nell’altrove del tempo? Si, pensiamo diversamente, che la vita andrebbe ricostruita, ma sappiamo che è tardi perché la cosa possa ormai riguardare noi e la nostra esistenza (non è, sempre, stato cosi?), e siamo combattuti tra il pur legittimo senso di abbandono e la resistenza disinteressata, proprio in quanto nell’interesse di qualcun altro. Questo altro non è il nostro chiodo fisso, perché sappiamo anzi che a questo altro la cosa può benissimo non interessare, come d’altronde non interessa alla maggior parte di chi ci circonda. Ci affascina ancora l’inutilità dell’opera e l’inutilità nell’opera, l’inutilità che ha conosciuto la semplicità e se la tiene stretta, l’azione essenziale, strettamente necessaria, che non pertiene all’utile per sé e all’utile per il sé. Abbiamo imparato, faticosamente, a distinguere le illusioni della soggettività e le insidie dell’io, ad annullare il sé. Ma, con questo sé ancora tra le mani, giunti al punto di affidarlo a qualcuno, abbiamo scorto la mancanza di affidamento. Non di affidare si tratterà, allora, ma di dare, semplicemente, a qualcun altro che sia esso stesso ultimamente semplice, non pronto ad intascare un sovrappiù, ma a ricevere tra le mani perché ha bisogno.

Non è stato tanto Nietzsche ad aver gridato la fine della filosofia, quanto Lévinas ad averne sussurrato il verdetto irricorribile: nel riconoscere l’Altro risiede l’esiguo margine su cui ancora poggiare. Abbiamo ancora bisogno, ma non per molto, di parole per esprimere il bisogno di silenzio. Per questo, ancora, ricerchiamo.



Occupati in questi pensieri, l’incontro con L’origine è la meta, un volume molto denso a cura di Vincenzo Cuomo nella Collana “Le parole del Novecento”, da lui diretta per Morgana Edizioni, appare come una sosta rigeneratrice. Si tratta di un lavoro a più mani, che parte dall’assunto, forse troppo ottimista, che la distanza tra noi e gli eventi catastrofici degli ultimi decenni sia ormai tale da renderci capaci di uno sguardo “da lontano” sul secolo ormai trascorso.

Il libro è frutto dell’esperienza ormai matura di Kainòs, rivista online (ma anche cartacea, edita da Filema, Napoli), da tempo impegnata con risultati più che eccellenti (ma, ovviamente, poco noti) nel suo lavoro di «scavo stratigrafico» nel Novecento filosofico e culturale.

Il nucleo duro di partenza, qualcosa di più di un tema, è preso da un aforisma di Karl Kraus, e parte dalla considerazione che la crisi delle meta-narrazioni fondative della modernità si manifesta proprio in questa idea novecentesca – «Ursprung ist das Ziel» – che l’origine sia la meta. Scrive Cuomo nella prefazione al volume: «Se nei grandi racconti di emancipazione e di progresso della modernità – al pari di quelli che Lyotard chiama speculativi – la meta è stata concepita come il compimento di un processo, nell'idea che l'origine sia la meta, si impone una differente concezione: la meta è la realizzazione di un altro inizio, di un inizio che non è mai iniziato, pur restando, per così dire, realissimo nella sua virtualità».

Nel saggio “Dell’immagine che non deve suturare il vuoto. Sul Mahler di Adorno”, Cuomo analizza il testo dedicato da Adorno nel 1960 a Gustav Mahler, dandoci un profondo contributo alla sistemazione teorica dell’idea di ou-topia nell’umano e del suo nesso con la promesse du bonheur dell’arte. Il saggio riporta in primo piano l’aspetto teoretico del pensiero di Adorno, sottraendolo all’ombra nella quale è stato ingiustamente relegato dal dibattito interno alla revisione critica del marxismo negli anni ’60 e ’70, che ha considerato le tesi teoretiche di Adorno soltanto come sfondo delle analisi critiche della società tardo-capitalistica. Come Cuomo fa opportunamente notare, tale circostanza ha impedito un serio confronto tra la Scuola di Francoforte e la filosofia francese degli anni ’60-’70 (Deleuze, Lyotard, Derrida, Foucault), i cui punti di contatto, tuttora inesplorati, possono essere rintracciati nel rischiaramento-Aufklärung (Foucault), nel nesso tra dialettica negativa e utopia (Lyotard, Deleuze, Guattari), e, soprattutto, nella “teoria critica” adorniana e il decostruzionismo di Derrida.

La lettura mahleriana di Adorno, specialmente delle fratture irruenti e del suono «sferzante e prepotente» della Prima sinfonia, individua un’attesa del ritorno e una promessa di Aufklärung, uno svelamento che non può de-cidersi ad un accadimento iniziale, perché virtualmente presente in esso, «come inizio mai “iniziato” ma sempre possibile, o, forse meglio, come inizio che ha accompagnato (e accompagna) l’inizio iniziato (quello della civilizzazione occidentale) come sua ombra virtuale, come l’in-attualizzato tutt’altro dal suo procedere, ad un tempo trionfale e catastrofico (per citare Walter Benjamin)».

La riflessione di Adorno sugli elementi musico-scritturali di Mahler evidenzia, nella sua modalità dell’«irruzione», non solo una categoria della composizione musicale, ma anche una dimensione sociale. Ciò che irrompe è sempre l’Altro, «sia nel senso del non-ancora-assimilato, del non-dominato, sia nel senso dell’imprevisto, dell’inatteso». Si tratta di una dimensione che contiene anche quelli che Cuomo chiama i «rifiuti musicali», gli scarti prodotti dal progresso musicale (resti melodici della musica d’arte, canti popolari, canzonacce, suoni arcaici, antiquati, infantili, sonorità degli ambienti di lavoro), che nella lettura adorniana costituiscono elementi di linguaggio espulsi dal processo della razionalizzazione e del dominio sul materiale. Con questi scarti Mahler tentò non tanto di trovare la pace turbata dal corso del mondo, quanto di trovare un linguaggio in grado di fungere da strumento di resistenza alla violenza: «di quel progresso che non si è ancora iniziato, della regressione che non si dissimula più in originarietà, Mahler ne fa l’immagine di un enigma». Queste immagini sonore, questi scarti inutilizzabili, si rendono liberi per «l’altro, per ciò-che-non-c’è».

La questione dell’alterità si ricollega non solo alla dialettica negativa di Adorno e al suo concetto di redenzione, che è attualizzazione dell’ou-topia (l’indecidibilità costitutiva della filosofia, il suo essere una considerazione su “ciò che è” a partire da “ciò che non è”). È anche uno dei punti centrali del saggio di Eleonora de Conciliis su Lévinas (“L’etica del ‘come sé’. Lévinas e la questione dell’eros”), un interessantissimo affondo in una delle questioni più pregnanti originate dal pensiero del filosofo lituano, la sua eterologia etica, analizzata però alla luce della dimensione erotica ed etico-politica dell’incontro con l’Altro.

De Conciliis parte dall’epifania del Volto e dalla sua esperienza unica di valore possibile nell’universo etico lévinassiano, evidenziando l’asimmetria tra la riduzione etica del sociale e la riduzione etica dell’eros. Lévinas attribuisce all’elezione erotica un ruolo non secondario nella trascendenza infinita dell’alterità, la quale rende possibile la relazione etica interindividuale. Tale ruolo viene tuttavia attribuito con alcune riserve: l’incontro costituito dall’amore tra un uomo e una donna fa in modo che i soggetti si guardino, ma questo incontro sospende la comparazione dei valori che i soggetti impongono e subiscono nel mondo sociale; questo mondo sociale viene epochizzato, messo in scacco dalla bontà che scaturisce dalla relazione amorosa. Questa bontà è per Lévinas un lusso di cui si può avere esperienza solo all’interno di una relazione a due, nella quale la coppia è capace di estraniarsi dal mercato sociale, e di collocarsi al di là dalla violenza “necessaria” del lògos e dell’Essere.

Secondo de Conciliis, Lévinas «occulta il fatto che non tutti gli uomini incontrano l’esperienza erotica dell’elezione o entrano in una relazione spirituale e soggettivante», e che «anche la maggior parte delle relazioni tra uomo e donna non è affatto erotica e dunque potenzialmente etica, ma soltanto sessuale». Solo nell’eros, tuttavia, l’etica trova l’energia necessaria per immaginare un superamento del suo stesso fondamento erotico. Per Lévinas, proprio l’amore è quell’emozione in grado di fondare una società. A quest’affermazione il pensatore lituano apporta però una correzione religiosa: il vero “tu” non è l’Amato, staccato dagli altri, ma è il Terzo divino, incarnato dalla terzietà umana dell’escluso. Grazie al Terzo, si costituisce la totalità, e Dio. Il lavoro di de Conciliis è seminale, proprio perché evidenzia un nucleo aporetico del pensiero di Lévinas: da un lato il Terzo impone la responsabilità assoluta, la sostituzione per l’Altro fino alla morte (che comunque rappresenta una sorta di paradossale aristocrazia della bontà, che non abita affatto “ciascun uomo”); dall’altro la necessità politica urgente di una società giusta, del superamento comparativo dell’esclusivismo erotico nella responsabilità oggettiva di fronte agli altri. De Conciliis ritiene che Lévinas tenda ad occultare gli aspetti problematici del concetto di terzietà, divinizzandolo in un percorso di santificazione. Lévinas non insisterebbe abbastanza sul fatto che solo alcuni individui sopportano il faccia-a-faccia e l’etica della sostituzione dell’io nell’altro e per l’altro.

Secondo de Conciliis soltanto l’idea lévinasiana di «soccorso», e non quella di «sostituzione», è in grado di sostenere l’inutilità della sofferenza: il soccorso trascende eticamente l’ingiustizia dei rapporti interindividuali, apre uno spazio in cui la pluralità comparativa diviene azione, progetto, costruzione di un senso interindividuale. Solo quando il soggetto agisce in questa modalità riesce a trasformare la nozione metafisica di terzietà in una pratica in grado di sottrarre ogni individuo alla perdita di dignità connessa alla violenza. L’etica deve pertanto evitare le occasioni della santità. L’etica del soccorso non supera però il paradosso costituito dal fatto che solo alcuni soggetti (i cosiddetti soggetti razionali), privilegiati dal punto di vista socio-culturale, possono concepire il valore assoluto di tutti gli esseri umani. Tutto ciò, oltre a richiamare, paradossalmente, proprio il soggettivismo coscienziale e fenomenologico criticato da Lévinas agli esordi del suo pensiero, rivela anche un’«alea imponderabile di storicità»: solo dopo aver edificato l’individuo cosciente, il soggetto, giunto a tale stadio di maturazione, potrà sfondare «le gabbie dell’egologia», superando la fattualità elettiva dell’eros e divenendo capace di rispettare il volto dei propri simili, proprio “come se li amasse”.

Stefania Astarita, (“W. Benjamin e P. Klee: intersezioni”) sviluppa gli spunti di ricerca che accostano i due autori sul terreno dell’estetica, evidenziando la portata conoscitiva collegata alla dimensione dell’immagine, in particolare dal punto di vista della teoria della forma segnica e del colore. Astarita connette Benjamin e Klee cortocircuitando concetto e esperienza, dimostrando che è possibile stabilire una significativa corrispondenza tra teoria artistica e teoria filosofica: con Benjamin e Klee si attua un allontanamento dal modello mimetico dell’arte, per cui l’artista non intende più imitare la natura nel suo apparire, ma rivelarne l’essenza, l’Urbild, «l’immagine originaria/originante, la legge che ne spiega la genesi». La posizione antisoggettivista di Klee sfocia nel pensiero che la verità è esterna all’uomo, ed all’uomo non rimane che tentare di coglierne barlumi per mezzo delle immagini. È proprio l’immagine, in Klee e in Benjamin, a costituire il luogo in cui si attua un nucleo essenziale, altrimenti irraggiungibile: «La strada dall’invisibile al visibile non passa per il concetto, ma elegge piuttosto la sfera immaginale a spazio proprio del suo darsi. Qui trovano una loro articolazione visibile le forze, sia quelle naturali e psichiche che quelle storiche».

Lina Fiordoro (“Il testimone muto. La riflessione sul senso dello scrivere nell’opera poetica di Mario Luzi”) sottolinea la centralità della riflessione sul senso dello scrivere. In Luzi, ciò si traduce nel credere che nella poesia vi sia sempre un fondo misterioso (sia nelle origini della poesia che nella sua destinazione), e una tensione tra finito e infinito da cui, per Luzi, trae origine la scrittura. Scomponendo l’esperienza biografica e poetica di Luzi in tre fasi (Il gusto della vita – Nell’opera del mondo – Frasi nella luce nascente), Fiordoro giunge alla conclusione che dalla poesia arrivano domande, non risposte, e che solo interrogandosi l’uomo si riappropria di sé e giunge ad una vera dimensione umana.

Aldo Meccariello (“Le lacrime di Penelope e il vento del pensiero. Saggio sulla Vita della mente di Hannah Arendt”), si concentra sul compito di smantellare la metafisica che la Arendt scelse per sé, chiaramente sulla linea della demolizione antimetafisica heideggeriana, ma anche come una sfida nei confronti dello stesso Heidegger. Nella Vita della mente la Harendt si incentra sulla volontà, una facoltà sconosciuta al mondo antico ma che è l’«organo del futuro», perché chiama in causa la libertà umana e la sua finitezza. Meccariello dimostra che specialmente nella prima parte di quest’opera arendtiana il pensiero assume una dimensione orizzontale, opposta alla dimensione verticale del pensiero astratto platonico. Per Meccariello è proprio questa la sfida della Arendt a Heidegger sul terreno della critica alla tradizine metafisica: «il pensare orizzontale è un pensiero narrativo che, a dispetto della ricerca della verità, predilige la ricerca del significato, di ciò che pulsa nell’esperienza vivente. Un pensare che non abbia legami con la vita non è un pensare».



I saggi di cui è composto il volume si alternano al bianco e nero forse un po’ sofferto delle immagini degli artisti di Codice EAN (Antonio Picardi, Angelo Ricciardi, Umberto Manzo, Vincenzo Rusciano, Domenico Antonio Mancini), aggiungendo un’altra dimensione a questa di per sé pregevolissima iniziativa editoriale. È quello che avviene nel caso (per citarne solo uno) dell’opera di Ricciardi, “(le) parole del Novecento”: proprio nella dimensione a-figurativa – un casellario a mo’ di rubrica – vi è la rappresentazione visiva delle parole-chiave nelle quali è possibile cristallizzare l’esperienza culturale del secolo ormai trascorso; queste parole non intendono sottrarsi all’evidenza dell’arbitrarietà della loro scelta, ma pure, in un certo senso, e ad ogni modo, si impongono da sole.



Non credo che il senso e la portata generale della raccolta di saggi curata da Vincenzo Cuomo e costruita intorno all’aforisma di Kraus – la cui lezione competa recita «Rimani presso l’origine. L’origine è la meta» – debba risentire della critica mossa al motto di Kraus da Ivan Illich.

Storico delle rotture epistemologiche e dei salti di paradigmi che rendono discontinua la storia della civiltà e la sottopongono a improvvisi cambiamenti di direzione, Illich aveva un punto di vista del tutto opposto a quello della “filosofia della storia”, quella storia considerata dal punto di vista del vincitore, spacciata per progresso e incremento di conoscenza. Proprio a questa concezione della storia Illich attribuiva la parola d’ordine “l’origine è la meta”, con il suo conseguente corollario che il presente, con tutti i suoi orrori di ingiustizia e devastazione della terra, è l’unica verità, l’unico, necessario sbocco evolutivo di tutto il passato, che contiene in sé tutti gli esiti del presente. Secondo Illich, l’uomo che conosciamo è l’uomo “economico”, che pensa esclusivamente in base al principio razionale di utilità calcolante, fondata su un rapporto costo-profitti. Per Illich sono esistite ed esistono tuttora altre umanità, altri modi di pensare la convivenza umana basati sul dono, sulla comunità, sull'autosufficienza, sulla solidarietà, che lui definiva modi «vernacolari» di esistenza. Queste possibilità dell’essere umano sono state indubbiamente sconfitte. Ma la loro sconfitta non è prova della loro non verità.

Il volume curato da Cuomo ha un importante punto di contatto con la critica di Illich alla filosofia della storia, nel concetto di possibilità di un altro inizio, di un’altra verità. Il Novecento, sostiene Cuomo, non sarebbe stato un secolo “dialettico”. Ciò che non ha avuto inizio non viene aufgehoben, non viene superato-e-mantenuto nel processo-che-si-compie. Ciò che non ha avuto inizio rimane all’origine, all'inizio, ma rimane altro dal processo che si è – di fatto – compiuto. E, dall’origine, parla dal futuro, da un futuro possibile, anche se ci parla di una possibilità che è sottratta alla “realtà attuale” ed assume tutti i caratteri dell' impossibilità.

Come è noto, Walter Benjamin, di fronte alla vittoria nazionalsocialista e al fallimento della socialdemocrazia tedesca e francese, spese le sue ultime energie nella formulazione di un nuovo concetto di storia che rifiutava la fede nel progresso, l’idea del necessario avanzamento del genere umano in un «tempo omogeneo e vuoto». Benjamin vedeva il successo del fascismo nel fatto che «i suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono ‘ancora’ possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi». La concezione benjaminiana della storia è fondata sulla dialettica di passato e futuro, di messianismo e memoria. “L’origine è la meta”, appunto. Per Benjamin, «Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere».

Ecco perché bisogna, se proprio è difficile restare presso l’origine, almeno coltivarla, rimanere aperti alla possibilità di (continuamente) nuove narrazioni, perché ciò che non si è avverato continui a parlare, proprio dall’origine, della sua sempre viva – e vera – possibilità. Come dice opportunamente Cuomo, è un inizio che ci parla, da un impossibile ad-venire.

Ma non è detto che rimanga impossibile. E non è detto (è ancora possibile evocare la speranza?) che non ci stia ad attendere, in uno dei tanti futuri tornanti della storia.