NON-LUOGO DI TRANSITO

 

 

Stefano Ulliana, Una modernità mancata. Giordano Bruno e la tradizione aristotelica.
Roma, Armando Editore, 2004, ISBN 88-8358-598-4, Euro 16,00.



“Mancare la modernità” - “mancare alla modernità”: questa è la diade che sta alla base del bel libro di Stefano Ulliana che mette a confronto il pensiero di Giordano Bruno e la tradizione aristotelica. Se la modernità si determina, sul piano socio-politico dal consolidarsi di categorie quali quelle di “possesso” e di “dominio”, dall’assolutismo, categorie forgiate e sorte dalla fucina teoretica e metafisica di un pensiero calcolante, quantificante che radica le sue origini in Aristotele e nell’aristotelismo, allora il mancare la modernità del pensatore nolano, un “mancare” che, secondo Ulliana, non è casuale, ma piuttosto è il conseguente risultato di una decisa volontà politica di dominio e offuscamento, diviene un “mancare alla modernità” che manifesta il rimpianto di un’importante occasione teoretica e politica andata perduta. «Il tema della rivoluzione continua»-queste le parole dell’autore- «il bruniano stabilissimo “moto metafisico” viene infatti arrestato prima ed annichilito poi (sino alle estreme conseguenze) da quella impostazione politico culturale che fa della volontà di potenza occidentale la “nuova” necessità, assoluta ed intransigente, di un ordine attuale con nuove classi e nuovi (antichi) interessi e scopi (controllo, dominio e determinazione nei confronti del naturale e dell’umano).» (p.150).

E pur tuttavia risulta conseguire dalla speculazione filosofica bruniana, in maniera del tutto naturale, un’occasione che la contemporaneità potrebbe non perdere, un’occasione che mette in evidenza la mai consumata attualità del pensiero bruniano, poiché nelle linee filosofiche del pensatore nolano si annida «[...] la possibile rifondazione di un pensiero ed una prassi comunistica e libertaria, naturale e razionale, capace di costruire e sviluppare un presupposto teologico, naturale e politico, utile e fecondissimo, nel concetto creativo e dialettico dello “Spirito” e dell’infinito.» (p.150).

Queste le conclusioni affidate da Ulliana all’epilogo del libro, conclusioni politiche che trovano, nella produzione bruniana in lingua volgare che più direttamente si colloca sul terreno della speculazione filosofica (Dialoghi metafisici-cosmologici, La cena delle ceneri, De la causa principio e uno, De l’infinito universo e mondi) e nei Dialoghi morali (Spaccio de la Bestia trionfante, Cabala del Cavallo pegaseo, De gli eroici furori) le loro premesse metafisiche, teoretiche ed etiche.

La filosofia bruniana si specifica e si determina anche mediante il serrato confronto e la profonda critica con le posizioni aristoteliche: Bruno si misura con Aristotele e questo suo dialogare con il filosofo greco, in quel modo del tutto spregiudicato che già la destrutturante critica al principium auctoritatis aveva incarnato e che individua in maniera determinante il sorgere dell’umanesimo, rende il pensatore nolano del tutto moderno. Non c’è pensatore della modernità (si pensi a Galilei, Cartesio, Leibniz, Spinoza, Malebranche solo per fare alcuni nomi) che non si confronti con Aristotele e con l’aristotelismo della prima e della seconda scolastica in un dibattito filosofico che se, da una parte ne critica alcuni punti cardine (si pensi al problema delle forme sostanziali in Leibniz, o alla discussione del problema della causa in Spinoza, o alla fisica galileiana, solo per fare alcuni esempi), dall’altra ne assume le problematiche e la terminologia.

Ulliana fa dell’opposizione teoretico-metafisica che mette di fronte il sistema aristotelico, finalisticamente strutturato e necessariamente determinantesi in una gerarchia di ordini ontologici, e l’idea bruniana dell’infinito che in-finisce in un’apertura infinita lasciando spalancata un’eguale possibilità di determinazione che non sacrifica al sistema la singolarità, il motivo fondamentale che percorre il suo intero lavoro e che ne giustifica l’epilogo finale.

Se in Bruno sono i concetti di infinito, desiderio e movimento a tenere aperta, nell’infinito stesso, quell’inesauribile opposizione dialettica che dà origine continuata a nuove possibilità e che corrisponde ad un’apertura originaria manifestantesi in tutte le direzioni come intenzione desiderativa universalmente realizzante e che, proprio per questo, si traduce sul piano etico come apertura dell’amore verso una reciprocità della libertà eguale e fraterna, nella filosofia aristotelica, mediante le diadi forma e materia, con il prevalere della seconda sulla prima, e potenza ed atto, con il prius dell’ultimo sulla prima, e con il concetto di fine (entelechia), si assiste alla strutturazione di un sistema che depotenzia e sacrifica la determinazione finita alla sovraordinazione sostanziale.

La fondamentale e determinante differenza dei due pensatori risiede nel modo di intendere il concetto di infinito che, se in Aristotele si propone come non pensabile nella sua positività, diviene in Bruno il cuore della filosofia: per il pensatore nolano piano cosmologico e piano etico si presentano come strettamente connessi. Proprio la possibilità d’in-finire costituisce nel filosofo di Nola l’origine etica di una libertà fraterna ed eguale, libertà che sorge dalla ripresa di Bruno di una concezione dell’essere infinita ed egualitaria. Da ciò emerge con chiarezza che in Giordano Bruno la concezione etica e quella socio-politica si edificano e si fondano sull’ontologia.

Da una parte, Aristotele problematicizza il concetto di infinito (cfr. Libro Θ, VI e Libro Κ, X della Metafisica) negandone la natura positiva di ente, riducendolo ad accidente della qualità e accettandone solo l’idea in senso potenziale, dall’altra Bruno elabora un infinto dialettico, inteso come Uno che nella sua infinitezza ricomprende anche l’essenziale aspirazione dell’uomo alla libertà, calata in un universo caratterizzato dai rapporti di uguaglianza e differenza. Il pensatore nolano, quindi, sembrerebbe recuperare una nozione d’infinito legata ad una concezione pitagorea ed eraclitea. L’infinità dell’Uno bruniano non è solo genetica e strutturale, ma si manifesta come potenza di infinita variabilità (si pensi alla tesi della “innumerabilità dei mondi” di Bruno) e come inesauribile possibilità creativa, perchè inesauribile è il desiderio di porre.

Tuttavia l’infinito in Bruno si può tradurre anche nella fondamentale incomprensibilità che caratterizza l’Uno: ciò che non è mai compreso una volta per tutte apre la strada ad un movimento eterno ed infinito della riflessività che rende il filosofare un’attività mai conclusa.

Certo le aporie dell’infinito bruniano non sono trascurabili ed Aristotele aveva compreso bene i rischi logici annidati nell’idea di un infinito in atto e lo stagirita non avrebbe mai ammesso nell’infinito una possibilità d’in-finire che si attua in una ineliminabile opposizione dialettica.

Il problema dell’infinito ha un gran significato per la modernità, eppure ancora in epoca moderna si ritrovano riproposte le vecchie aporie: un pensatore come Spinoza per ammettere un infinito in atto deve formulare un concetto di eternità inteso come simultanea co-presenza della totalità, come un tota simul di matrice agostiniana.

Ulliana pone ben in luce il significato dell’infinito in Bruno come matrice teoretica su cui si fonda l’idea di un’etica aperta ed egualitaria, e tuttavia si pongono, sul piano logico-concettuale, i problemi che la formulazione dell’infinito bruniano comporta.

Un infinito capace di in-finire non può essere un infinito in atto e, d’altra parte, un infinito in potenza o potenziale non è un infinito, ma un indefinito. Le stesse categorie bruniane di movimento e desiderio, che sono categorie dinamiche, fanno riferimento ad una processualità di certo indefinita, ma che male si concilia con un’infinità positiva. Il problema poi si accentua se si fanno i conti con l’opposizione dialettica presente nell’infinito: la concezione di un infinito positivo non ammette opposizioni perchè non ammette dualità, né fratture al suo interno. Un infinito diviso cessa di essere infinito.

Il libro di Ulliana stimola ad una più profonda e specifica meditazione sul concetto di infinito in Giordano Bruno, riflessione che l’autore non poteva di certo compiere nel presente lavoro, ma che richiede uno spazio specifico nel quale essere sviluppata.

Se la cosmologia del pensatore nolano fonda l’idea dell’infinita ed inesauribile eticità dell’eguaglianza, il discorso di Bruno, dall’altra parte, si presenta carico anche di conseguenze teologiche.

In Aristotele la sostanza tripartita in atto, perfezione e vita può sintetizzarsi all’interno di una certa formulazione dell’articolazione del dogma trinitario: l’atto è incarnato dalla figura del Padre, la perfezione si presenta come l’unità del Figlio nello Spirito Santo e la vita rappresenta la realizzazione di quest’unità; Bruno, rigettando l’idea di un atto puro posto nella sua separatezza ed inteso come agente distaccato, non intende rifiutare la formulazione del dogma trinitario, ma pensando l’infinità «dell’apertura liberamente ed egualmente creativa che ha l’amore illimitato come propria fonte unitaria» (p.105) la via bruniana conduce ad un’interpretazione differente della Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo si identificano con le figure della libertà, dell’uguaglianza e dell’amore; in questa corrispondenza concettuale l’azione dello Spirito è volta a mantenere il rapporto tra la libertà razionale e l’eguaglianza naturale e contemporaneamente rappresenta la condizione del principio della creatività, della possibilità della diversità e della causa dell’unità dell’essere. (cfr. De gli Eroici furori).

Nella sua derivazione aristotelica l’articolazione trinitaria pare subordinare le figure del Figlio e dello Spirito a quella del Padre. In questo modo viene assegnata «[...] al primo la funzione dell’uniformità intellettuale, senza variazione e desiderio, ed al secondo quella dell’obbedienza emotiva e della subordinazione, senza diritto e facoltà.» (p.105). Se il Dio aristotelico è attività intellettuale di massimo grado che pensa se stessa, necessità pura incondizionata che non ricomprende in sè la materia, bloccando nella sua eternità senza tempo il movimento universale, il Dio di Bruno produce in sé il movimento infinitamente, attivandosi perpetuamente in un superamento delle condizioni stabilite.

Rifiutando la separatezza dell’atto puro, Bruno intende rendere conto dello slancio infinito del sensibile e del materiale. Importante in questa direzione la distinzione tra materia “incorporea” o di cose superiori e materia “corporea” o di cose inferiori, individuata dal filosofo nolano nel De la Causa, Principio e Uno: solo introducendo la materialità ad ogni livello è possibile giustificare il fattore desiderativo ed immaginativo che, nell’interminabile in-finire immanente, svolge la sua attività creatrice.

Il testo di Ulliana dimostra la profonda e costante frequentazione dell’autore con gli scritti bruniani. Questo lavoro ha il merito di tracciare una linea interpretativa forte e ben argomentata, mostrando come in Bruno la struttura del pensiero ontologico e cosmologico racchiuda, nella sua costitutiva naturalità, le premesse di un’etica del rispetto e dell’eguaglianza degli esseri e mostra come da essa possano scaturire prospettive socio-politiche e capaci, almeno sul piano teoretico, di contrastare la cultura del possesso e del dominio che attraversa la storia dell’occidente.

 

Giuseppe D’Anna