NON-LUOGO DI TRANSITO

 

 

Alla ricerca di una sfera pubblica globale

 

di Paolo Vernaglione

 

Se qualcosa accomuna la modernità all’epoca attuale è la cancellazione dei confini tra sfera pubblica e sfera privata, descritta da Hannah Arendt alla fine degli anni ‘50. Questo fatto è ricavabile sia dalla teoria della sfera pubblica antica, elaborata in Vita activa (1, sia dalla successiva elaborazione del concetto in Jurgen Habermas (2 e nel dibattito sulla sua ridefinizione nella teoria femminista (3 e nel nuovo costituzionalismo, specie nel recente dibattito sulla costituzionalizzazione dell’Europa (4.

Come si sa, la modernità ha elaborato una teoria dei corpi politici funzionale alla democrazia rappresentativa nelle condizioni dello stato di diritto. La visione organicista della società, che la rappresenta come un corpo unico con un unico interesse - la felicità e il benessere degli individui – secondo gli utilitaristi, è responsabile dell’indistinzione tra pubblico e privato, di cui la versione post-moderna delle società complesse offre un orizzonte frastagliato (5 . Hannah Arendt ha affermato che con la nascita della società, tra la fine del XVII e il XVIII secolo, si assiste all’omogeneizzarsi degli ambiti a cui i greci e i romani avevano assegnato le attività pubbliche e quelle private.

L’incessante opera di “socializzazione umana” che secondo Marx avrebbe portato all’estinzione dello stato, ha approfondito, almeno fino al XX secolo, il declino della sfera pubblica nazionale, mentre ha incrementato il ruolo burocratico-amministrativo delllo stato.

Si può dunque dire che la modernità ha visto dispiegarsi una sfera pubblica socializzata come dominio dello stato. Questo carattere, era già evidenziato da Max Weber nella progressiva specializzazione funzionale degli incarichi politici e amministrativi (6.

Se «la libertà è situata nel dominio del sociale» (7, non solo la modernità ha mutato il senso dei concetti di libertà e necessità, che l’antichità aveva tracciato intorno alla condizione lavorativa (liberi versus schiavi) e civile (pubblicità v. privatezza) ma ha istituìto il diritto civile sulla base del diritto proprietario come distorsione dei diritti fondamentali.

Dell’incorporazione della sfera pubblica, al pari di quella privata, nella società Arendt chiarisce il senso, nel mutamento sia della privacy che del concetto di pubblico, in connessione con lo sviluppo dell’interiorità quale difesa dalla socialità (8 e il passaggio del lavoro alla sfera pubblica con la divisione del lavoro (9.

Alla definizione moderna di sfera pubblica concorrono due idee:

1) pubblico è ciò che è sotto gli occhi di tutti

2) pubblico è il mondo comune, l’infra le cose e gli uomini (10.

Dalla prima emergeranno le richieste di diritti di libertà e politici, la rappresentanza democratica, la sovranità popolare.

Dalla seconda l’agire politico e le istituzioni di base.

La sfera pubblica assume la legge, che dall’antico significato di nomos come confine tra proprietà distinte, ha ora il senso di tutela dei diritti e delle prerogative dello stato tramite la coercizione. Nel passaggio fondamentale dalle antiche istituzioni cetuali allo stato di diritto, prima con la costituzione degli stati-nazione, quindi con le rivoluzioni americana e francese, le rivolte nazionalistiche della metà del XIX secolo e, da ultimo, con la realizzazione del welfare post-bellico, la sfera pubblica perde il carattere di spazio di associazione di proprietari e assume sempre più il carattere di gestione della cosa pubblica. La partecipazione diretta di un’opinione pubblica alla costituzione di spazio pubblico, che, come Arendt ricorda, aveva avuto inizio con la rivoluzione americana, si dissolve progressivamente, per l’espansione dello stato nazionale come apparato burocratico e routine amministrativa.

E’ nell’arena pubblica che si gioca la partita tra tutela dei diritti e organizzazione della rappresentanza, nella caratteristica configurazione dello stato democratico di diritto.

La deformazione dei principi di libertà e uguaglianza, la confusione tra libertà e ricchezza sociale (11 e l’interpretazione della sovranità popolare come dominio della maggioranza, finisce per aggravare lo stato di compiti etici, sociali ed economici, dando luogo alla definitiva dissoluzione del concetto di sfera pubblica come in-comune, che ha largamente determinato la crisi dello stato nazionale.

Tuttavia l’esperienza della democrazia, costruita con le rivoluzioni del XVIII secolo, si è fondata sulla giuridificazione dei diritti, la cui tutela ha costituito una rottura con l’ancien régime e ha promosso lo stato di diritto. Ciò, come ha dimostrato Habermas, è stato possibile per la cooriginarietà di dirtti e democrazia che si dislocano in un bilanciamento di aspettavite corrispondente alla divisione dei poteri (12. Così il mutamento della sfera pubblica a partire dalla sua politicizzazione ha effetti ambivalenti: da una parte si cristallizzano istituzioni politiche, dall’altra si formalizzano richieste di diritti nello stato costituzionale. Questo processo è stato descritto da Habermas come costituzione di una sfera pubblica politica, allorchè in Europa alla fine del XVIII secolo, le opinioni pubbliche nazionali decidono di dotarsi di una rappresentanza in grado di tutelare i privati interessi (13.

Un esempio fulgido di questa contesto è dato dalla vicenda degli Stati Uniti. Infatti, a differenza che in Francia, la scelta del governo, che proviene dalle forme di “pouvoir constituant”, rimane in secondo piano, e balza in primo piano la fondazione costituzionale della repubblica con la partecipazione diretta e il municipalismo (14, che proviene dal patto originario dei coloni. Esso infatti prefigura “sia il principio repubblicano secondo il quale il potere risiede nel popolo…sia il principio federale…secondo il quale corpi politici costituiti possono combinarsi…” (15 e grazie al quale 550 città si autogovernavano.

Il ruolo che ebbe la sfera pubblica nel corso dell’indipendenza statunitense consisteva nel fatto che essa era un traguardo della felicità pubblica e cui aspiravano i coloni; felicità che consisteva nell’essere “partecipi del governo degli affari…diritto diverso da quello dei sudditi di esser protetti dal governo nella ricerca di una felicità privata…diverso…da quei diritti che solo un potere tirannico abolirebbe…” (16. Intorno ad una sfera pubblica autonoma, “penetrata” dal diritto, si mobilitano i proprietari americani come il popolo francese, ma questa mobilitazione fu fonte in Francia di un’”immane tragedia” (17 nella misura in cui la priorità consisteva nella liberazione dalla monarchia piuttosto che nella creazione di una Costituzione. Negli Stati Uniti “l’ansioso desiderio di Jefferson di uno spazio di felicità pubblica…(è) venuto in conflitto con il desiderio nudo e crudo di liberarsi di ogni fastidio e dovere pubblico, di stabilire un meccanismo di amministrazione governativa” (18; cioè in definitiva rinunciare alla partecipazione, preferire la prosperità e ricacciare la libertà nella vita privata (19.

Dunque, come detto in Che cos’è la politica? (20 la vera azione rivoluzionaria non consiste nell’abbattimento dello stato ma nella realizzazione di una nuova costituzione, cioè nella nascita di statuti e istituzioni che sanciscono il mutamento del potere. Infatti “…il maggior evento in ogni rivoluzione è l’atto di fondazione” (21, ed esso si riferisce in egual misura alla sfera pubblica e alle istituzioni politiche. Ma mentre lo spirito pubblico che animava gli spazi pubblici come i clubs, le societées populaires e i municipi dava luogo al pluralismo, i corpi politici (Assemblea costituente, Parlamenti) “affermava(no) che la rivoluzione era giunta al termine”, rendendo manifesta la separazione tra spirito pubblico proveniente direttamente dalla libertà e potere costituito.

La conseguenza di questa separazione fu, alla fine della rivoluzione francese “il conflitto tra il governo giacobino e le società rivoluzionarie…la lotta per il potere condotta da un partito e dagli interessi di partito contro la chose publique, il bene comune…” (22. D’altra parte la sovranità del popolo nella rivoluzione francese “fu la conseguenza inevitabile di far derivare tanto la legge che il potere dalla stesa identica fonte” (23, la Volontà generale come Volontà divina. Si osserva di passaggio che quest’infausta identificazione sarà una delle cause indirette della crisi dello stato nazionale e della disponibilità discorsiva del concetto di legge, in grado di integrare una sfera pubblica proprio in quanto non ascrivibile ad una divina volontà (24 (ma neanche, come volevano Jefferson e il repubblicanesimo a verità auto-evidenti).

La progressiva riduzione della sfera pubblica nella rappresentanza avviene con “il successo spettacolare del sistema partitico e il fallimento non meno spettacolare dei soviet”, in URSS, laddove i partiti della sinistra rivoluzionaria si dimostrarono altrettanto ostili al sistema dei consigli quanto la destra conservatrice e reazionaria…” (25.

La storia ci ha insegnato queste esperienze e il modo in cui sono state schiacciate. Dai consigli municipali francesi dopo l’89, alle repubbliche-contee di cui parlava Jefferson, alla Comune di Parigi, ai consigli operai, i soviet “ben decisi a sopravvivere alla rivoluzione” (26, la teoria e la pratica rivoluzionarie, poiché condividevano la teoria del potere e della violenza dei regimi sconfitti ed era “fermamente ancorata alla tradizione dello stato nazionale” (27, non permise che quelle forme di spazio pubblico sussistessero e furono represse a favore “del più deciso accentramento dell’autorità nelle mani del potere statale” (28.

Lenin, quando i soviet “insorsero contro la dittatura del partito…decise…di schiacciare i consigli… (29. Infatti l’idea consiliare consisteva in una “rigenerazione diretta della democrazia”.

In contrasto con il corso storico della seconda metà del XIX secolo e il XX, lo spirito pubblico creatore di nuovi ordinamenti aveva tentato di cancellare le parole “uno e indivisibile”, riferite allo stato, per affermare l’idea federativa, che è per eccellenza l’idea liberale e repubblicana, nelle parole di Odysse Barret sulla Comune (30. Ma la politica come potere, governo, amministrazione, quella che il realismo ha predicato, ha prodotto la crisi della politica e “il guaio sta nella mancanza di spazi pubblici a cui i cittadini possono avere accesso” (31.

Nei modelli governamentali la politica da conseguenza della “pluralità degli uomini” (32 diviene sintomo dell’omologazione crescente e diventa apparato burocratico-repressivo nei regimi dell’est, dissolvendo “la convivenza e comunanza dei diversi” (33.

La crisi della politica ha a che vedere con la distruzione dello spazio tra gli uomini, quell’infra da cui originano leggi e costituzioni. La riduzione della pluralità all’unicità arbitraria del governo scioglie la cooriginarietà di diritti e democrazia, mettendoli in tensione; elimina la razionalità dell’agire e prepara il terreno alla dipendenza della sfera pubblica da denaro e potere. Per questo “ Se si vuole cambiare una istituzione…se ne può solo rinnovare la costituzione, le leggi, gli statuti, e sperare che tutto il resto venga da sé…” (34.


La successiva problematizzazione del concetto di sfera pubblica si trova nella teoria procedurale della democrazia. Secondo Habermas la ricostruzione del diritto è necessaria nel determinare l’autocomprensione degli ordinamenti democratici da parte dei cittadini (35; mentre la ricostruzione della democrazia è utile per rintracciare nell’orizzonte della modernità elementi di costituzione di una sfera pubblica post-nazionale (36. In questo senso si può dire che lo sviluppo di diverse generazioni di diritti determina altrettante configurazioni democratiche. Se si collocano in uno schema storico le successive famiglie di diritti (37, si ottiene una ricostruzione utile ad individuare le diverse forme di democrazia.

Anzitutto si trova qui la cruciale idea kantiana dell’autonomia, secondo cui i cittadini saranno soggetti a quelle leggi che essi stessi reciprocamente si sono dati. Questa essenziale asserzione proviene dall’esperienza della rivoluzione francese in cui i diritti soggettivi vengono posti alla base della sovranità popolare e, ovviamente in ogni teoria contrattualista. Ma il presupposto del riconoscimento dei diritti fondanti lo stato democratico è da rintracciare nella rivoluzione americana e nel costituzionalismo che, secondo Michelman “poggia su due premesse riguardanti la libertà politica…che il popolo…è politicamente libero in quanto si autogoverna collettivamente;…che è politicamente libero nella misura in cui è governato da leggi non da uomini” (38. Ciò significa che i due principi dell’autodeterminazione di tipo liberale e dell’autorealizzazione di tipo repubblicano (39 sono entrambi all’opera nelle rispettive espressioni dei diritti umani e della sovranità popolare. Se infatti Hobbes concepisce il contratto tra uomini liberi, alimentato dalla paura dell’homo homini lupus, come un passaggio irrisolto e impensato tra lo stato di natura e lo stato civile, Kant riarticola la funzione del diritto sulla base della individuale decisione della persona morale, come indispensabile elemento di mediazione tra libertà individuale e sovranità popolare. Ciò che è in gioco, è il carattere “intersoggettivo” dell’intesa e, prima ancora, nello stato di natura, la relazione tra umani che danno vita al patto. Quello sfondo intersoggettivo, comune sia allo stato di natura che al contratto, ridetermina l’intero spazio dell’agire e soprattutto crea il legame tra diritti e democrazia alla caduta dell’ancien régime. Le Costituzioni manifestano l’intimo rapporto tra diritti e democrazia, nel catalogo di diritti fondamentali accompagnato dalle prescrizioni sulla struttura del potere. Ma rafforzano anche questo rapporto attraverso il controllo giurisdizionale e il controllo di costituzionalità degli atti normativi.

Lo sviluppo, dopo i diritti di libertà, dei diritti politici coincide nella seconda metà del XIX secolo, con il parlamentarismo e la formazione di un ceto di politici di professione che raccoglievano l’eredità degli antichi privilegi cetuali (40, mentre la rappresentanza era ristretta a categorie benestanti. L’accesso al voto, negato alle donne e alle classi lavoratrici, tagliava verticalmente la società e determinava la distanza tra rappresentanti e rappresentati. Benchè questo rapporto muti progressivamente a favore dei governati (41, l’estensione dei diritti politici è un faticoso percorso di lotta per l’emancipazione, intrapreso dai gruppi sociali svantaggiati. Sì che la formazione della volontà non è libera ma condizionata dal possesso di beni e proprietà fino agli anni venti del XX secolo. Con il definitivo sganciamento del diritto da prese di posizioni etiche e metafisiche comprensive, inerente al proceso di secolarizzazione, il diritto è considerato diritto soggettivo e la sua fonte non è più esterna (religione, morale) bensì interna al diritto stesso.

L’autonomia del diritto corrisponde all’estensione della rappresentanza e alla diffusione di partiti e sindacati, che, dopo la prima guerra mondiale, diventano organizzazioni di formazione dell’opinione. La Costituzione di Weimar è secondo il grande giurista Hans Kelsen, il punto di svolta dell’autonomizzazione del diritto sia dalla natura che dalla morale; essa imprime al rapporto diritti-democrazia il senso di autosviluppo e autointerpretazione del sistema democratico parlamentare da parte di cittadini consapevoli di attuare il governo delle leggi. Tuttavia la funzionalizzazione del diritto e la formazione di una burocrazia amministrativa con il compito di attuare procedure fu considerata, dopo il nazismo, moralmente abietta, per lo sganciamento del diritto privato dal cosiddetto diritto oggettivo.

Fu con la progressiva estensione dei diritti sociali e la creazione del welfare state che la materializzazione del diritto determina una nuova unità di misura del rapporto tra diritti e democrazia. “Questo significa formare e tutelare istituti giuridici in cui il singolo individuo assuma la posizione di membro associato” (42. I regimi di welfare di derivazione post-bellica, attivi dalla seconda metà del XX secolo, sono possibili all’interno dello stato-nazione nella caratteristica configurazione delle democrazie costituzionali. Le Carte costituzionali sanciscono il catalogo dei diritti individuali e i limiti di estensione della loro agibilità e regolano attribuzioni e competenze ordinative e burocratico-amministrative dello stato, in riferimento alla redistribuzione della ricchezza. Questa configurazione è possibile perché il nesso diritti-democrazia, nella forma della rappresentanza parlamentare, si genera all’interno di una sfera pubblica preesistente.

Lo sviluppo del welfare state produce una rilevante materializzazione del diritto (43, nel momento in cui lo stato democratico si riempie di contenuti sociali; la divisione in classi tende ad istituzionalizzarsi in una rappresentanza che agisce in sedi deputate di negoziazione. Sindacati, organizzazioni operaie e contadine, di commercianti e artigiani formano l’opinione, e i partiti formano la volontà e il consenso, che saranno, fino alla fine dello scorso XX secolo, elementi funzionali della democrazia parlamentare. Con l’ accentuata politicizzazione della sfera pubblica, la società civile viene spinta ai margini del processo decisionale, ricavato solo nelle scadenze elettorali.

La formazione di una burocrazia statale vòlta ad implementare le strutture dello stato di diritto è il frutto della soggettivazione del diritto, che lascia tuttavia aperto il problema della legitimazione.

La teoria dell’agire comunicativo risolve la cruciale questione della legittimità che proviene dalla legalità, evidenziando il carattere discorsivo dei diritti nella sfera pubblica politica, intendendoli come garanzie inerenti a pretese di giustizia. Il conflitto tra diritti e democrazia che la teoria liberale e il repubblicanesimo hanno messo in scena, provoca l’emergenza dei diritti umani e la loro tutela internazionale. Lo stato-nazione, in cui sono attivi diritti di libertà, politici e sociali, fatica a risolvere i diritti umani, nel momento in cui diventano emergenza planetaria.

Il dibattito sui diritti umani negli anni ’60 verteva sulla capacità di risposta delle democrazie liberali a problemi di sopravvivenza di minoranze altamente discriminate o di maggioranze cui sono negati diritti fondamentali. Ma, come già Hannah Arendt aveva evidenziato, il dibattito non coglieva (volutamente) l’essenza dei diritti umani, la loro azionabilità. Ecco perché l’appello degli stati ai diritti umani non è altro che un proposito ipocrita, cui seguono fatti discutibili (44. Benchè oggi le agenzie dell’ONU abbiano proceduralizzato aiuti umanitari e getione dei rischi, l’assenza di un diritto internazionale globale rende questi diritti non attivabili, benchè altamente esigibili (45. Le legislazioni nazionali si limitano a risolvere nella contingenza i problemi di diritti umani e di nuovi diritti che si dislocano in uno spazio pubblico globale. La loro eccedenza dai luoghi tradizionali dello stato democratico è il segno di un inedito intreccio tra delimitazione della vita e costituzione di sfera pubblica. Essi devono esser presi sul serio come diritti fondamentali all’interno di una comunità globale. Detto altrimenti, fino a quando un diritto interstatale, oggi in crisi a causa dell’unilateralismo statunitense e della dottrina della guerra preventiva, non lascerà il posto ad una configurazione universalistica dei diritti storicamente affermati, i diritti umani e i diritti biopolitici non avranno riconoscimento.

D’altra parte, a differenza che nello stato nazionale, una sfera pubblica globale si costituisce non a partire da un’essenza definita in riferimento a valori, bensì in maniera discorsiva, con la mobilitazione di modalità comunicative e di cooperazione.

La ricostruzione del diritto e della democrazia nel panorama post-moderno non consente di ricavare dall’osservazione empirica coordinate concettuali valide. Tuttavia la teoria discorsiva della democrazia, pur in riferimento allo stato nazionale, prefigura una forma universale di cittadinanza, adeguata ad una sfera pubblica globale in cui si dispiegano conflitti e intese. Inoltre la concezione deliberativa della democrazia risponde all’assetto delle società complesse e lo fa non perché riduce tutele e funzioni a procedure fondamentali (46, ma perché la sua struttura discorsiva permette lo sviluppo di una comunicazione sulle regole e i contenuti della formazione dell’opinione e della volontà. Qui l’accento va posto sul carattere razionale del dibattito pubblico e sulla sua qualità. Ciò è essenziale per chiarire il rapporto tra sfera pubblica e istituzioni, soprattutto laddove esse si costituiscono in luoghi della deliberazione. Robert Dahl ha tradotto praticamente la concezione procedurale verificandola sui dati di fatto delle società complesse (47. Questo approccio al problema parte dalla critica al realismo e “rompe con il concetto olistico di una società centrata nello Stato e vuol restare neutrale nei confronti di concorrenti “visioni del mondo” e progetti di vita” (48.

Anzitutto le teorie empiristiche della democrazia, in particolare il funzionalismo e la teoria dell’azione, tendono a interpretare il potere politico come autonomo e dipendente dal potere sociale effettivo, rappresentato da interessi e stabilizzato dal potere amministrativo. In tal caso il nesso sostanziale tra diritto e democrazia è giustificato come rapporto esterno per cui il diritto legittima il potere politico. In questa descrizione viene meno l’autocomprensione normativa dello stato democratico.

Invece, secondo la teoria normativa (49 la legittimazione dello stato si ottiene per via dei rapporti di forza e la volontà di dominio che esso riesce a esprimere. In tal caso il diritto non fa altro che sancire i rapporti di dominio esistenti, che possono andare dalla “mera sopportazione fino alla libera approvazione” di un regime (50. Anche una dittatura è legittima per il tempo in cui il quadro sociale esprime questa legittimità. Sono gli individui a produrre volontariamente validità normativa, a cui corrisponde un positivismo del diritto (prospettiva dell’osservatore).

Ora, da questa prospettiva dell’osservatore, comune anche all’utilitarismo, si dovrebbe passare a quella dei partecipanti, i cittadini, che pongono le “regole del gioco” sul suffragio uguale, la concorrenza dei partiti e il governo della maggioranza. Questi istituti dovrebbero per ragioni diverse (pericolo di rovesciamento violento del potere, differenza tra “verità” dei programmi politici e utilità, alternanza tra maggioranza e minoranza al potere) essere accettate e ciò converte automaticamente la spiegazione soggettiva in spiegazione oggettiva della legittimità, tramite scelta razionale. Ma questo passaggio non riunifica affatto le prospettive dell’osservatore e del partecipante che tutt’al più risultano riavvicinate in base ad un comportamento razionale-allo-scopo. “Se descrivono sé e le proprie pratiche in maniera empiristica, i cittadini razionali non avrebbero ragioni sufficienti per sentirsi vincolati alle regole democratiche” (51.

Bisogna dunque guardare alle teorie sostantive e casomai integrarle con i concetti di democrazia deliberativa per evitare la riproposizione dello stato nazionale.

Nella concezione inaugurata da Locke il processo democratico si compie nella forma di compromessi d’interesse (52 mentre in quella repubblicana la “formazione della volontà si compie nell’autochiarimento etico-politico” (53. Nel primo caso la distanza tra società e stato viene mantenuta, anzi è approfondita e il processo democratico ha il compito di “scavalcarla” (54 con procedure di mediazione. Nel secondo la posizione dello stato è interna alla società civile.

In entrambi i casi, come fa notare Habermas, si presuppone una filosofia della coscienza (55 da cui la teoria del discorso prende congedo. Essa punta sulla “intersoggettività di grado superiore” (56 che caratterizza i comportamenti volti all’intesa e che per così dire forma il contesto in cui sono agìti sia i diritti liberali che la prassi repubblicana. “Le implicazioni normative diventano evidenti” (57. Il processo democratico poggia sulla solidarietà per la quale si sviluppano sia sfere pubbliche autonome che lo stato di diritto.

Ora, se si radicalizza la teoria del discorso, si può fuoriuscire dalla dimensione statal-nazionale. Alla riduzione dell’apparato statale nella teoria repubblicana corrisponde nella teoria discorsiva lo “spostamento di pesi all’interno delle tre risorse, denaro, potere e solidarietà”, poiché l’ultima non può incaricarsi dell’intero “bisogno di integrazione” nelle società complesse. In tal modo, la distribuzione delle funzioni tra sfera pubblica e stato risulta ripartita secondo un criterio razionalizzante. Alla sfera pubblica appartiene il potere comunicativo grazie al quale vengono sollevati temi e problemi di pubblico interesse. Questo spostamento valorizza la sfera publica portandola in primo piano e si collega direttamente alla partecipazione diretta agìta da movimenti e associazioni che in questi anni di contestazione al liberismo e alla guerra hanno sperimentato spazi pubblici non istituzionali e uno spazio costituente fondato sul pluralismo.

Benchè questo stesso agire comporti una discussione intorno al ruolo e la pratica dei movimenti e la prefigurazione di un’altra politica, è abbastanza chiaro come l’estensione di una sfera “discorsiva” abbia coinciso con lo sganciamento reciproco di stato e società (58.

Dunque, il problema da affrontare, una volta che lo stato sia lasciato alle spalle, non riguarda solo la legittimazione degli istituti della società civile, ma anche il rapporto che una democrazia configurata in senso universalista deve avere con gli istituti dello stato di diritto.

Le linee di ricostruzione sin’ora sintetizzate indicano infatti da un lato che la teoria del discorso è necessaria nello sviluppo di una società civile e di movimenti globali, dall’altro che qualora si voglia estendere la validità della teoria oltre i limiti della tradizione filosofico-politica, è necessario indicare modi e contenuti di costituzione di una sfera pubblica in cui sono ridisclocate società civile, potere economico e potere politico.

Il metodo procedurale, lungi dall’assumere il piglio di una routine burocratico-amministrativa, viene qui proposto come il nucleo di formazione dell’opinione e della volontà su base discorsiva.


Sintetizzando si può dire che:

     

  1. Le sfere culturale, politica ed economica nella post-modernità, vivono sganciate da visioni metafisiche e morali comprensive.

  2. Visioni del mondo comprensive, lungi dall’esaurirsi, sono convertite in prese di posizione tramite i media denaro, potere e linguaggio.

  3. L’insieme dei diversi regimi comunicativi e relazionali costituiscono una società civile a carattere globale e le modalità di formazione del consenso non avvengono sul terreno della rappresentanza e delle istituzioni, bensì in una sfera pubblica informale.

  4. L’agire comunicativo e cooperativo definisce una democrazia procedurale (nel senso dell’impiego di risorse discorsive e di una razionalità comprendente) possibile in una “costellazione post-nazionale”.


La razionalizzazione nelle società post-tradizionali produce “automatizzazione” e “reificazione”, cioè processi inerziali che fanno resistenza all’agire discorsivo. La teoria del discorso tiene conto dei problemi di imperfezione, integrandoli nella comunità ideale della comunicazione ideata da Karl Otto Apel e che fonda un modello di socializzazione pura in cui non ci sarebbe bisogno di diritto e politica (59. La concreta osservazione di società reali disdice le obiezioni all’agire discorsivo come agire ideale, prendendo sul serio l’automatizzazione e considerandola non come un processo in cui sono in gioco regole di controllo e gestione del comando, bensì risorse comunicative e relazionali in base a cui sono in campo non solo l’accettazione di procedure ma anche il rifiuto e la contestazione del sistema. In tal modo il modello democratico risulta non solo proceduralizzato ma soprattutto esteso e comprendente.

Le condizioni a partire dalle quali sono possibili prese di posizioni si/no devono tradursi nella neutralità delle procedure democratiche in un sistema di garanzie fondato sull’imparzialità (60. Anche in questo ambito le obiezioni comunitariste e quelle liberali sono superate qualora la neutralità sia intesa come un orizzonte di condizioni di ammissibilità di tutti i discorsi inerenti a tematiche sia pubbliche che private, intesi come riferiti indirettamente a visioni comprensive.

Si può osservare che già esiste una sfera pubblica informale e anarchica, animata da procedure selvagge di determinazione dei contenuti inerenti a decisione, in cui formazione dell’opinione e del consenso sono ritenute più importanti della formazione della volontà.

Bisogna qui considerare l’esame delle cosiddette “poliarchie”, introdotte da Dahl (61 per spiegare il ricorso a forme di democrazia più avanzate di quella stato-centrica. Se infatti si ammette che l’implementazione dei diritti fondamentali corrisponde allo “status” di società del benessere, “moderne, dinamiche, pluralistiche”, la dislocazione della sovranità si compie nella distribuzione, per lo più territorializzata, di centri di potere che disdicono la rappresentanza istituzionale unica.

Questa definizione policentrica della democrazia va però incontro a due problemi non eludibili: vale infatti per le società sviluppate in cui già esistono una società civile, una sfera pubblica e forme di mobilitazione di risorse comunicative e cooperative e manca di un meccanismo di coordinamento funzionale (62, necessario all’integrazione sociale.

Riguardo alla mancanza di coordinamento è il caso di richiamare la neutralità del coordinamento funzionale “rispetto alle differenze… tra integrazione sociale e sistemica” (63. Il coordinamento non è né uno strumento di comando, né di controllo esterno alla società, ma vi è implicato e si rende disponibile al momento della decisione. Mentre infatti le due forme di integrazione devono per forza riferirsi a contenuti che determinano il profilo del sistema sociale, il coordinamento è un “filtro discorsivo” (64 che permette alle ragioni comunicative di attori diversi di armonizzarsi in vista di una decisione all’interno della sfera pubblica.

Il coordinamento, che mobilita risorse del diritto e della politica, permette insomma la decisione anche in una democrazia non rappresentativa. D’altra parte, in una democrazia post-nazionale si moltiplicano l’azione del diritto e della partecipazione. Democrazia e universalismo non sono considerati come fini, ma come posizioni di partenza e forme di partecipazione. In tal caso i conflitti non sono espulsi o ridimensionati ma integrati nella comunicazione, di cui divengono indicatori.

Radicalizzando l’azione di risorse comunicative e cooperative ed estendendole alla dimensione post-nazionale si può così ricavare un modello di democrazia globale che non coincide né con il “governo del mondo”, né con l’anarchia sistemica.

Una democrazia globale non è l’insieme delle procedure discorsive e amministrative del governo della società, ma il modo in cui la società si autogoverna.

Il problema più difficile riguarda invece la definizione di forme non centralizzate di potere, definizione che non può restringersi all’occidente ma deve comprendere paesi e situazioni con gradi diversi di sviluppo e in cui la democrazia si attua in forme di costituzione mista (65. Considerate le differenze di natura e di grado di situazioni economiche e sociali e l’impossibilità di esportare un modello poliarchico qualsiasi, l’istaurarsi di forme dirette di democrazia non può che provenire dallo sviluppo di una società civile che costituisce sfere pubbliche politiche. In effetti questo processo, che vale anche nei sistemi culturale e politico, è già in corso, ad esempio in quei paesi dell’America latina, come l’Argentina, in cui l’applicazione del neoliberismo ha provocato disastri inauditi e in cui un’economia solidale e reti civiche d’impegno stanno sostituendo la rappresentanza politica degli interessi. O in Brasile, in cui, pur perdurando una situazione di miseria e una questione contadina storicamente esplosiva, risorse cooperative e comunicative liberano un potenziale di partecipazione in grado di fronteggiare i diktat dell’economia globale. Ciò avviene nel momento della speranza di giustizia sociale, impersonata dal presidente Lula da Silva, che si trova a mediare tra opposte esigenze redistributive.

Infatti, lungi dall’essere una forma diretta di democrazia, la partecipazione si dispiega ancora all’interno della rappresentanza, anche se la distanza dai rappresentati risulta ridotta rispetto a quella di una democrazia parlamentare. Ma la formazione della volontà è solo una delle procedure del processo democratico che proprio nel modello partecipativo si nutre di passaggi complessi e articolati (66.

Infatti in una pratica di partecipazione sono i cittadini, attraverso comitati locali e associazioni autoorganizzate e autofinanziate a decidere programmi e candidature inerenti a problemi e bisogni. Nella peggiore delle ipotesi comitati spontanei e autoorganizzazione fanno riferimento a partiti, con fenomeni di non trasparenza, corruzione e falsa comunicazione; nella migliore esprimono i progetti di una comunità che non ha bisogno di mediazione politica. A questo livello sono importanti gli strumenti di partecipazione: comitati di quartiere, centri sociali, associazioni in cui si esprime un municipalismo che taglia orizzontalmente la rappresentanza. La politica agìta dal basso, punta a creare non una delega permanente in un sitema a piramide in cui istanze e problemi sono inmpersonati da una figura più o meno carismatica; bensì nell’estensione territoriale di tematiche e questioni altrimenti irrisolvibili. L’esempio di Porto Alegre ci porta ad osservare come l’indicazione delle priorità di bilancio, scelte da comitati di cittadini, sia un’indicazione di contenuto che implica volontà di risoluzione dei problemi, al contrario delle procedure burocratiche di assegnazione dall’alto di priorità, per lo più inerenti alle istituzioni locali (67.

Decisioni prese per consenso si qualificano, rispetto a decisioni a maggioranza, per l’allargamento dell’accordo su temi di carattere universale: esse rappresentano una modalità globale di ricerca dell’adesione a pretese di validità, al contrario del metodo a maggioranza, in cui vince un punto di vista non sottoposto a verifica di validità. Inoltre l’estensione della partecipazione implica l’assunzione in prima persona di temi oggetto di dibattito pubblico.

Tuttavia il rifuto della delega e la crisi irreversibile delle dinamiche della rappresentanza politica, che si riferiscono in primo luogo alla sfiducia dei cittadini nei loro rappresentanti, non sono risolti, tranne in casi di conquista di autonomia in territorialità definite, come in Chiapas, con alternative all’espressione centralizzata della volontà politica. Il metodo della partecipazione infatti astrae dall’appartenenza politica e una giunta di destra potrebbe trovarsi ad attuare politiche di sinistra. In tal caso infatti ad esser revocata in dubbio è l’autonomia dei rappresentanti: essa può esser disdetta dalla realtà del rapporto tra rappresentanti e rappresentati che il modello partecipativo istaura (68. A rigore, in una forma diretta di democrazia questa differenza non ha senso, ma nel caso delle esperienze di partecipazione, in atto anche in molte realtà metropolitane europee, i rappresentati scelgono dei rappresentanti con il voto. Proprio nella patria della democrazia partecipata, Porto Alegre, il processo espansivo che ha portato la giunta comunale e il Partido dos trabalhadores ad introdurre il bilancio partecipato nel 1989, sembra concludersi con la vittoria delle destre nell’autunno 2004. I cittadini della “capitale dei movimenti” hanno accettato il verdetto delle urne ma è lecito chiedesi se, nonostante il cambio, le forme di democrazia istaurate si conservino. Come dunque interpretare la democrazia partecipata quando la formazione della volontà non coincide con il modello di partecipazione? L’esperienza di democrazia partecipata chiude il cerchio aperto dalla “crisi della politica”, ma non chiude il circolo virtuoso della presa di parola dei cittadini, e conferma il carattere sperimentale di ogni forma diretta di partecipazione.


Oggi ogni questione inerente a diritti si presenta come emergenza sociale e le democrazie sono vigenti in stato d’emergenza. Il diritto ad una vita dignitosa con l’accesso a beni comuni primari, l’acqua, il cibo, l’energia, l’abitare, il lavoro e a prestazioni di tutela della vita sono urgenze non rinviabili a modi e tempi della politica rappresentativa, in cui procedure burocratiche individuano contesti settoriali e assegnano garanzie a categorie specifiche di cittadini. Così, la questione migrante rinvia alla costituzione di una cittadinanza universale che rompe i confini dello stato nazionale. L’accesso a risorse comuni si risolve contrastando la privatizzazione dei beni pubblici. La vita dignitosa richiede erogazione diretta e indiretta di reddito, sganciato dalla prestazione lavorativa; il diritto all’abitazione consiste nel liberare patrimoni edilizi e introdurre agevolazioni alla locazione. Ridurre l’impatto ambientale ha il senso della restituzione della terra alla terra, disincagliando lo sviluppo dalla crescita e incentivando economie solidali e cooperative. Il diritto al sapere e alla conoscenza coincide con reti estese di condivisione di prodotti immateriali, sempre più cospicui e che costituiranno la principale forma di merce. Questi esempi indicano diritti indisponibili ad una rappresentazione, perché non possono trovare una soluzione solo parziale. Come catalogo di richieste ineludibili, a differenza che nelle distinte età dei diritti della modernità (69, essi non prevedono specifiche forme di democrazia, come è accaduto in Europa tra il XVIII e il XX secolo. Questa situazione ha a che vedere sia con l’opacità di pretese-di-riconoscimento, per lo più localizzate, sia con la configurazione inedita di spazio pubblico. Come valutare infatti l’impatto che politiche ambientali “sostenibili” hanno sulla vita se la verifica è demandata ad accordi globali che, come nel caso di Kyoto, si limitano a ratificare la situazione esistente? Come valutare politiche abitative di singole realtà locali se un’emergenza abitativa non è posta sul piano globale? Come valutare il grado di libertà dei media e la concentrazione proprietaria se non esistono authorities con poteri effettivi? E come valutare la libertà di comunicazione e di accesso al sapere, se non esiste un controllo civile che operi un’inversione nel rapporto tra possibilità di comunicazione e capacità di gestione e di indirizzo dei flussi mediatici? Si potrebbero fare altri esempi, in campo bioetico e biopolitico per dimostrare l’asimmetria tra istanze che emergono dalla realtà globale e governance politica.

Oggi lo sviluppo della società civile permette la conversione di un’etica della responsabilità in un’etica discorsiva, su cui poggia la possibilità di un altro mondo. Questa pratica è stata scelta dai movimenti antiliberisti e contro la guerra che affermano il valore costituente della politica. Legalità e disobbedienza, legittimità degli ordinamenti e diritto di resistenza sono colti in un nesso inscindibile, lo stesso che intreccia diritti e democrazia. Infatti, forme di partecipazione democratica ai processi decisionali si creano come esito di conflitti e atti di dissenso, per lo più causati dal “sistema della delega” e dalla gestione amministrativa della cosa pubblica. L’appello alla partecipazione ha a che vedere con atti di disobbedienza e richieste di giustizia sociale che per loro natura i sistemi rappresentativi nelle democrazie parlamentari non riescono a risolvere. Tuttavia ripensando la cooriginarietà di diritti e democrazia è forse possibile superare il carattere formale della legittimazione democratica e dar vita ad una sfera pubblica globale indipendente da denaro e potere e che li governi entrambi.


 

Riferimenti bibliografici


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Hannah Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano,1994.

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Jurgen Habermas, Fatti e norme, Guerini e associati, Milano, 1996.

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Jurgen Habermas, Morale, diritto, politica. Edizioni di Comunità, Torino, 2001.

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Max Weber, Parlamento e governo, Editori Laterza, Roma-Bari, 2002.

 


Note

1 Cfr., Hannah Arendt, Vita activa, trad.it., Bompiani, M ilano,1994

2 Cfr soprattutto Storia e critica dell’opinione pubblica, trad.it., Laterza, Bari-Roma,2001; Fatti e norme. Contributi ad una teoria discorsiva del diritto e della democrazia,trad.it.,Guerini, Milano, 1996; La costellazione post-nazionale. Mercato globale, nazioni, democrazia, trad.it., Feltrinelli, Milano,1999.

3 Cfr, Nancy Fraser, Rethinking public sphere, in C.Calhoun, a cura di, Habermas and the public sphere, Cambridge (Mass), 1992).

4 Cfr.,J.H. Weiler, The Constitution of Europe, Cambridge, 1999; I. Pernice, Multilevel Constitutionalism in the European Union, in «European Law review», ott. 2002.

5 Per la critica alla visione organicista cfr.,Norberto Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990.

6 Cfr, Max Weber, La politica come professione, in La scienza come professione, trad.it., Edizioni di Comunità, Torino,2001.

7 Arendt, Vita activa, cit., pag. 28.

8 Ibid., pag.34.

9 Ibid., pag.35.

10 Ibid., pag. 37 e sgg.

11 Cfr, Arendt, cit., pag. 49

12 Cfr, Fatti e norme., pag.106 e sgg.

13 Cfr, Habermas, Storia e critica, cit. pag. 75 e sgg.

14 H.Arendt, Sulla rivoluzione, trad.it., Edizioni di Comunità, Torino, 1999, pag.187.

15 Ibid., pag.194.

16 Ibid., pag.138.

17 Ibid., pag.148.

18 Ibid., pag.149.

19 Cfr.,Arendt, pag.150.

20 H.Arendt, Che cos’è la politica?, trad.it., Edizioni di Comunità, Milano, 1997, pag. 256.

21 Ibid., pag. 256.

22 Ibid., pag. 283.

23 Ibid., pag. 209.

24 Ma sul carattere teologico politico delle istituzioni secolarizzate il dibattito è aperto.

25 Ibid., pag. 286.

26 Ibid., pag. 296.

27 Ibid., pag. 296.

28 Ibid.,pag. 297.

29 Ibid., pag. 298.

30 Cfr., pag. 308-9.

31 Ibid., pag. 322.

32 H.Arendt, Che cos’è la politica, cit., pag. 5.

33 Ibid., pag. 5.

34 Ibid., pag.18.

35 Cfr., J.Habermas, Fatti e norme, cit., pag.103.

36 Cfr, J.Habermas, La costellazione post-nazionale, pag.78 e sgg.

37 Cfr., N. Bobbio,L’età dei diritti, Einaudi, Torino,1997, pag. 45 e sgg.

38 Law’s Republic, «The Yale journal», XCVII, pag.1499.

39 Cfr., Fatti e norme, pag.,122-123.

40 Cfr.,Max Weber, pag. 73 e sgg.

41 Cfr., Bobbio, pag. 56 e sgg.

42 Ibid., pag.110.

43 Cfr, J. Habermas, Morale, diritto, politica, trad.it., Edizioni di Comunità, Torino,2001, pag. 6 e sgg.

44 Sull’ attualità dei diritti umani cfr, Danilo Zolo, Cosmopolis, Feltrinelli, Milano, 2002 in cui si critica la domestic analogy nel trattare la questione ; non sembra tuttavia che l’imputazione agli stati dell’azione internazionale e la critica al cosmopolitismo possono risolvere la questione.

45 Cfr., Luigi Bonanate, Etica e politica internazionale, Einaudi, Torino, 1992.

46 Vedi la critica di Habermas a Bobbio sul “minimalismo” procedurale, in Fatti e norme, pag. 302.

47 Fatti e norme, cit., pag. 336.

48 Ibid., pag. 342.

49 In particolare di Werner Becker, cit. in Fatti e norme, pag. 344.

50 Ibid., pag. 344.

51 Ibid., pag. 350.

52 Ibid., pag. 350.

53 Ibid., pag. 351.

54 Ibid., pag. 352.

55 Ibid., pag. 353.

56 Ibid., pag. 353.

57 Ibid., pag. 354.

58 Il riflesso di questi processi dopo le manifestazioni contro la guerra del 15 febbraio 2003, è stato il confronto tra partiti e movimenti, specie tra quei partiti della sinistra che hanno intercettato le spinte dei movimenti e che, non avendole capitalizzate in voti elettorali, hanno cambiato corso. Infatti i partiti non possono mimare i movimenti – soprattutto senza prima essersi spogliati del loro apparato burocratico- organizzativo. Se davvero esiste una politica di movimento essa non può che culiminare nello scioglimento dei partiti. Partiti e sfera pubblica non sono sovrapponibili. Sulla diversa considerazione dei partiti nella cotituzione di una sfera pubblica post-nazionale è rilevante la nota posizione di Habermas in La costellazione post-nazionale, pag. 88 e sgg.

59 Cfr.Habermas, pag. 382.

60 Ibid. pag. 357 e sgg.

61 Ibid. pag. 376.

62 Ibid. pag. 379.

63 Ibid. pag. 379.

64 Ibid. pag. 379.

65 Sulla costituzione mista di recente cfr, «Filosofia politica» n°1/2005.

66 Un’analisi delle forme di partecipazione in Francia è nell’articolo di Jacques Testart «L’intelligenza scientifica e la democrazia partecipativa», in Le Monde diplomatique, n°2, anno XII, Febbraio 2005, che tuttavia descrive una democrazia fin troppo trasparente, in pratica attuata da rappresentanze della società civile mobilitate su temi e problemi di carattere globale. La realtà sembra essere invece allo stesso tempo più “sporca” e meno razionale: forme di partecipazione si creano dai conflitti e i processi decisionali da parte di istituzioni territoriali sono il risultato di emergenze sociali.

67 Cfr., R. Pont, , La democrazia partecipativa, trad.it., Edizioni Alegre, Roma 2005, pag. 59 e sgg.

68 Ibid., in particolare il saggio «Non basta il “buongoverno” ci vuole un processo di trasformazione», in cui l’autore, fondatore del partito dei lavoratori (Pt), ex sindaco di Porto Alegre prima di Tarso Genro, analizza le ragioni della sconfitta elettorale alle elezioni amministrative nel Rio grande do Sul dell’autunno 2004.

69 Cfr., N. Bobbio, pag. 45 e sgg.