homepagesezionisommarioeditorialeredazione e  comitato scientificoin calendariomailing listemergenze

 

Francis Bacon, Blood on the Floor, 1976

 

 

 

 

 

 

La responsività del proprio corpo.
Tracce dell'altro nella filosofia di Merleau-Ponty


di Bernhard Waldenfels

 

1. Il dilemma di un'etica fenomenologica

Se si può parlare di un'etica in Merleau-Ponty, questo è allora possibile soltanto nel senso di una forma implicita o indiretta di etica. Merleau-Ponty attribuisce evidentemente anche a se stesso una certa ritrosia nel formulare esplicitamente un'etica, quindi nel giustificare fini e norme oppure addirittura nel creare un universo di valori, quella stessa ritrosia che egli riconosce esplicitamente in Bergson. (1) Eppure dietro a questa rinuncia si trova ben più che non una fuga personale o il riconoscimento di una divisione del lavoro in filosofia. Vi si trova nascosto piuttosto un dilemma che rischia di essere dimenticato nel panorama di quel vero e proprio boom dell'etica che caratterizza il mondo occidentale. Vorrei innanzitutto tratteggiare brevemente questo dilemma, che forse nessuno ha considerato più acutamente di Nietzsche, prima di affrontare esplicitamente il problema in questione.

La fenomenologia si è proposta come una filosofia del senso, analogamente all'ermeneutica, disciplina ad essa strettamente imparentata, e non diversamente dalla filosofia del linguaggio di impostazione analitica, ispirata a Frege e Wittgenstein. Tutto ciò che è o può essere deve esser colto e descritto così come ci si mostra a partire da se stesso e al tempo stesso deve essere colto e descritto all'interno dei limiti e delle condizioni in cui si mostra. La differenza significativa del 'qualcosa in quanto qualcosa' costituisce in un certo senso l'apriti sesamo della fenomenologia husserliana. Considerando il fatto che quanto è per me e per noi, così come le prospettive dell'apparire appartengono alla cosa stessa, abbiamo a che fare con una relatività senza relativismo. Ma come stanno le cose per quel che riguarda i fenomeni morali? La loro obbligatorietà è forse a sua volta qualcosa che può apparire in un modo o nell'altro? Che ne è delle vecchie figure di pensiero quali: il bene in quanto tale come fine cui tutto tende e la legge morale incondizionata cui sottostà ogni ente razionale, che lo voglia o no? Il dilemma di una qualsivoglia fenomenologia morale può essere formulato in questi termini: o si accontenta di essere una fenomenologia della morale, e quindi tematizza semplicemente ed indaga gli ordinamenti di valore, le norme, i costumi o le pretese di validità, così come le loro regolamentazioni generali, che però esistono sempre solo di fatto - oppure si potenzia fino a far diventare morale la fenomenologia stessa, al punto che il fenomenologo finisce per collocare se stesso tra quei valori e norme che deve invece indagare. Enunciare semplicemente valori e norme si troverebbe ancora al di qua della giustificazione, farvi ricorso invece già al di là. Il passaggio dal 'non-ancora' di una descrizione neutrale al 'già da sempre' di una morale in vigore si attuerebbe nella forma di una svolta morale, che ha qualche tratto in comune con quella svolta teologica che Dominique Janicaud rimprovera ad alcuni fenomenologi francesi. (2) "L'etica, già di per se stessa è un''ottica'", sostiene Emmanuel Levinas. (3) Altre strade sono percorribili se ci si riferisce al fatto che le esigenze dell'etica non si esauriscono semplicemente nei diversi modi di vedere le cose e nelle condizioni generali della visione, perché in un modo che è loro del tutto peculiare rendono piuttosto visibile ciò che resta invisibile allo sguardo teoretico. Le cose stanno diversamente quando per esempio Michel Henry si autoproclama il portavoce di una "parola (parole) della vita", oppure Jean-Luc Marion, nella sua Fenomenologia della donazione, trasforma la datità per una coscienza in una donazione (donation) pura ed incondizionata. (4) Il dilemma di una fenomenologia della morale si ripete anche nella fenomenologia della religione, in quanto quest'ultima, da fenomenologia della religione minaccia di capovolgersi in una religione della fenomenologia o in una fenomenologia diventata religiosa. Per dirla in breve, il dilemma sfocia in un'alternativa: in un che di ordinario ed ordinato senza niente di straordinario, oppure in un che di straordinario senza alcun ordine. Giacché risulta assai difficile sostenere l'alternativa, si oscilla allora da un estremo all'altro, così il dilemma risulta variamente schivato grazie ad una doppia morale, che somiglia alla doppia verità del Medioevo. Ci si attiene a tradizioni, usanze, decisioni, preferenze finché gli ordinamenti consueti tengono e ci si meraviglia o indigna di fronte ad un 'male radicale' inestirpabile che affiora nei casi eccezionali in cui l'ordine si spezza, come nel caso di Auschwitz oppure di minorenni assassini che uccidono compagni di scuola o insegnanti.

Con il suo inimitabile fiuto per il gioco a nascondino della morale e per le manovre ingannatrici della filosofia morale, Nietzsche richiama l'attenzione appunto sul nostro dilemma allorché constata che la cosiddetta fondazione della morale è "soltanto una forma erudita della loro tranquilla credenza nella morale dominante, un nuovo mezzo della sua espressione", oppure quando osserva che, d'altro canto, i suoi fondatori si atteggiano "a esecutori di ordini più antichi o superiori". (5) Che poi sia il conformismo o il rigorismo a prendere il sopravvento, questo dipende in vario modo dalle condizioni 'atmosferiche' della società. Nietzsche sottolinea inoltre che il richiamo alla morale e alla sua affermazione non deve affatto necessariamente corrispondere ai valori morali di cui ci si riempie la bocca. Dalla morale si può addirittura ricavare un significativo capitale di ordine politico, economico o culturale, come peraltro sperimentiamo quotidianamente. Varrebbe la pena a questo proposito riprendere le considerazioni che fa Merleau-Ponty in Umanismo e terrore, per esempio a proposito del conflitto tra Yoghi e il commissario, oppure rispetto al contrasto tra impegno e disimpegno.

Eppure occorre chiedersi lo stesso se esistano o meno vie d'uscita che permettano di superare il dilemma di un'etica fenomenologica. In Husserl si trova un ateismo metodico che vieta ogni sostegno di tipo teologico. Dio non può garantire la verità, infatti, per poterlo fare, dovrebbe rivelarsi come tale e perciò dovrebbe già sottoporsi alle condizioni di una verità possibile. Husserl dichiara di voler seguire personalmente la regola di "giungere a Dio senza Dio". (6) Si può parlare allora, mutatis mutandis, di un amoralismo metodico e di un corrispondente tentativo di giungere alla morale senza la morale? Si incomincerebbe allora non solo al di qua del vero e del falso, (7) ma anche al di qua del bene e del male, senza accontentarsi della confusione di un'etica dei valori. (8) Quali vie d'uscita dallo stallo offre il pensiero di Merleau-Ponty? Offre davvero delle alternative? Se per Husserl esiste una genealogia della logica e se questa si estende fino a diventare una "genealogia dell'essere", (9) allora ci si può aspettare anche una genealogia della morale. (10) Questa significa perlomeno che 'c'è' ovvero 'si dà' un ordine morale, così come si dà in generale il senso, la razionalità o l'ordine, senza che questo poi si possa fondare su ragioni sufficienti. Così come il vedere ed addirittura la coscienza hanno il loro punto cieco, (11) allo stesso modo esiste anche un punto cieco della morale. Si può certamente osservare questo punto cieco da un'altra prospettiva, come assume per esempio la teoria dei sistemi, ma così si sposta semplicemente il problema. La questione di un ethos in statu nascendi adatto alla radicalità fenomenologica si pone soltanto se la morale e l'ethos scoprono i loro propri limiti e le loro origini più proprie. Il percorso può essere solo indiretto, come è indiretto il discorso che parla di qualcosa parlando d'altro e che - come sottolinea Michail Bachtin - lascia parlare anche gli altri, non togliendo loro la parola di bocca, ma senza neanche abbassarsi fino al punto di diventare semplicemente il portaparola di un discorso estraneo. Se esiste in Merleau-Ponty uno stile dominante di pensiero e di scrittura, questo è l'obliquità, (12) la lateralità, la deviazione, l'eccedenza, vale a dire forme che liberano qualcosa in altro senza entrarne in possesso direttamente, (13) senza mediarlo dialetticamente con questo altro e senza neanche capovolgere l'uno nell'altro. In questo senso non sembra affatto inopportuno ricercare nell'ontologia indiretta di Merleau-Ponty tracce di un'etica indiretta. (14)

2. Response e responsività

Il motivo fondamentale della responsività attraversa l'intera opera di Merleau-Ponty come un filo rosso, sebbene sotterraneo. Nella prefazione alla sua opera prima su La struttura del comportamento, Merleau-Ponty si riferisce in una lunga nota a Kurt Goldstein, pur senza nominarlo esplicitamente, e al suo motivo secondo cui ci sarebbe un "confronto" dell'organismo con il mondo; in fondo l'intera ricerca di Merleau-Ponty mira a formulare una teoria del comportamento non behavioristica, all'interno della quale lo stimolo e la risposta siano liberati dalle strettoie causalistiche e condizionalistiche. A questo proposito Merleau-Ponty si riallaccia alla teoria della forma e ai suoi rappresentanti quali Kurt Lewin, Wolfgang Köhler e Max Wertheimer, che attribuiscono alle cose un carattere di sfida. Alla medesima tradizione appartiene anche il medico Kurt Goldstein, che nella sua opera fondamentale su La costruzione dell'organismo (1934) definisce le malattie come "responsività insufficiente", cui si può rimediare solo attraverso la messa alla prova di nuove possibilità di risposta ed attraverso la creazione di un nuovo ambiente di riferimento. Da parte americana si dovrebbe ricordare la rilettura in chiave behavioristica della teoria del comportamento di G. H. Mead proposta da Ch. Morris, interpretazione alla quale Merleau-Ponty si avvicina sotto vari rispetti. Da un punto di vista linguistico si potrebbe rimandare al fatto che nella psicologia tedesca di più antica data 'response' è in genere reso con 'risposta (Antwort)' e non con 'reazione'. (15) Le strutture del comportamento, che Merleau-Ponty distingue tra di loro, possono pertanto essere considerate senz'altro come forme del rispondere.

Si potrebbe finire per attribuire a Merleau-Ponty una teoria del comportamento quasi dialogica e al proposito ci si potrebbe per esempio riferire al fatto che un altro rappresentante di quel gruppo di studiosi, Viktor von Weizsächer, abbia intrattenuto stretti rapporti con Martin Buber. Così però si scivolerebbe in un'etica dialogica, che assumerebbe determinate premesse tradizionali senza indagarle a fondo. Perciò preferisco parlare di responsività, perché quelle riformulazioni e ristrutturazioni che Merleau-Ponty non perde mai di vista non possono fondarsi su alcun logos già dato, che garantisca una reciprocità di posizioni e prospettive. Il mondo-ambiente non è il partner di un dialogo nel senso proprio del termine, piuttosto rappresenta per l'organismo una sfida permanente, e lo stesso vale per il rapporto tra l'uomo e il suo mondo. La creazione di un mondo contraddice ogni armonia prestabilita. L'accezione psicologica e medica della 'response' nel rimando all'impianto di ricerca darwiniano conferisce al rispondere una creatività che non fa certo rimpiangere la comprensione filosofica corrente di questo concetto. Il significato triviale del rispondere come riempimento di lacune del sapere è purtroppo tuttora dominante. Per la concezione della responsività è inoltre importante il rimando alla corporeità e alla sensibilità. Alla vistosità (Auffälligkeit) con cui qualcosa si mostra corrisponde la fragilità (Anfälligkeit) di un essere corporeo che si rapporta ad un che di estraneo, senza che questo abbia già un qualche senso preliminare. La marcia trionfale della semantica, che riempie persino la percezione di contenuti proposizionali, costringe facilmente a dimenticare che qualcosa ci deve innanzitutto colpire, interessare e riguardare per poter essere colto, compreso ed interpretato come un qualcosa.

Quanto si profila nella prima opera di Merleau-Ponty, si svilupperà successivamente in ambiti diversi, peraltro in maniera occasionale e poco appariscente, il che significa anche senza troppe spiegazioni concettuali. Così nella Fenomenologia della percezione il provare una sensazione, per esempio cogliere la qualità di un colore, è interpretato come un gioco aperto di domanda e risposta, nel quale lo sguardo "si accoppia (s'accouple)" con il colore e senziente e sensibile entrano in uno "scambio (échange)". In questo contesto si osserva: "Così, un sensibile che sta per essere sentito pone al mio corpo una specie di problema confuso. È necessario che io trovi l'atteggiamento che gli darà modo di determinarsi e di divenire un azzurro, che trovi la risposta per una domanda mal formulata. E tuttavia, io lo faccio solo dietro la sua sollecitazione, il mio atteggiamento non basta mai per farmi vedere veramente un azzurro o toccare veramente una superficie dura. Il sensibile mi restituisce ciò che gli ho prestato, ma è dal sensibile stesso che io lo derivavo". (16)

Qui non si tratta di un gioco a carte coperte e nemmeno di un dialogo concordato consensualmente, ma di un evento aperto che produce al tempo stesso le proprie unità di misura. La risposta non colma semplicemente una lacuna, piuttosto essa contribuisce alla formulazione di quella domanda alla quale poi risponde. E il colore non agisce semplicemente come uno stimolo causale che produce un determinato comportamento, ma come una sollecitazione (sollicitation) (17) che fa vedere qualcosa, che dà inizio ad un nuovo vedere ed ascoltare, che a sua volta è messo in scena. All'impulso che proviene da ciò che deve essere percepito corrispondono, da parte del percipiente, determinati "stimoli". (18) Analogamente a come, in un altro contesto, Merleau-Ponty parla di una certa "inquietudine nel mondo delle cose-dette", (19) così si potrebbe partire da una inquietudine nel campo di ciò che è visto. Il vedere originario assomiglia ad una pietra che è gettata nell'acqua, non ad una lampadina che si accende. Il vedere eccede il visto in maniera analoga a come il dire va oltre al detto. Questo semplice schizzo evidenzia come nella "coesistenza del senziente e del sensibile" (20) sia in gioco già da sempre un "qualcosa di estraneo all'io". (21) Perciò non soltanto possiamo parlare di una risposta che le cose danno alle domande dei nostri sensi, (22) ma anche di una risposta dei sensi. Quanto poi questa concezione si possa estendere già a questo livello anche alla natura nel suo complesso risulta evidente allorché Merleau-Ponty scrive, nel medesimo contesto: "Poiché le relazioni fra le cose o fra gli aspetti delle cose sono sempre mediate dal nostro corpo, l'intera natura è la messa in scena della nostra propria vita o il nostro interlocutore (interlocuteur) in una sorta di dialogo". (23)

Qualcosa di simile accade nel campo dell'azione, come questa è sviluppata da Merleau-Ponty nel capitolo finale della Fenomenologia della percezione. Le azioni non sono né automatismi meccanici, né atti totalmente liberi, si articolano piuttosto nel corso dell'azione stessa, a partire da situazioni aperte che "propongono un certo senso", "stimolano" la nostra iniziativa, "ingenerano" determinate soluzioni. "In quanto noi viviamo, la nostra situazione è aperta; ciò implica che essa sollecita modi di soluzione privilegiati e in pari tempo che, di per se stessa, non può procurarne nessuno". (24) La situazione è pertanto rimessa all'iniziativa di colui che agisce e quest'ultima, al contrario, non è che nella situazione.

Merleau-Ponty utilizza un vocabolario simile anche riferendosi alla pittura. Il richiamo delle cose, che lottano per ottenere l'attenzione del mio sguardo, continua ad essere presente nell'attività del dipingere, in cui la mano e il pennello rispondono al richiamo, alla sollecitazione, alla sfida che proviene dal mondo del visibile. Il pittore risponde ad una sollecitazione che precede ogni suo fare. "Nel fondo immemorabile del visibile qualcosa si è mosso, si è acceso, che invade il suo corpo, e tutto ciò che egli dipinge è una risposta a questa sollecitazione, la sua mano 'non è che lo strumento di una lontana volontà'". (25) Ciò che è da vedere si potenzia in qualcosa che è da dipingere, dacché la visibilità stessa diventa visibile. Come colui che prova una sensazione e colui che agisce, anche colui che dipinge non è un soggetto demiurgico che produce autarchicamente i suoi oggetti, piuttosto il rendere visibile si inserisce in un diventare visibile che è incominciato fin dai tempi immemorabili della nascita. "Nascere, è nascere dal mondo e al tempo stesso nascere al mondo. Il mondo è già costituito, ma non è mai completamente costituito. Sotto il primo rapporto noi siamo sollecitati, sotto il secondo siamo aperti a una infinità di possibili". (26)

L'ontologia, che Merleau-Ponty sviluppa infine nella sua opera più tarda su Il visibile e l'invisibile, si presenta come un pensiero interrogante. Eppure questo domandare, che altrove ho indagato più a fondo, non rappresenta affatto il contrario del rispondere, ma piuttosto assume esso stesso tratti del rispondere; infatti "nessuna domanda va verso l'Essere: sia pure per il suo essere di domanda, essa l'ha già frequentato, ne ritorna". (27) Possiamo caratterizzare un pensare che giunge a sé soltanto ritornando a se stesso a partire da altrove (28) come un pensare che risponde. La risposta non è allora già inclusa nella domanda, come è il caso di un domandare che semplicemente riconosce qualcosa, la riposta è piuttosto data e sempre anche inventata, diversamente dal caso di un'umanità che, come sosteneva Marx, si porrebbe sempre soltanto i problemi che può anche risolvere. (29) Tracce di un tale pensiero rispondente si trovano sempre di nuovo in questa ontologia, così per esempio in un discorso "che risponde all'altro prima che questi sia stato compreso come 'psichismo'", (30) e così anche nella pregnanza carica di futuro del visibile, che esige una corretta presa di posizione alla quale 'risponda' il mio corpo: "carne rispondente alla carne (chair répondant à la chair)", (31) oppure nel passato che avanza una certa quale esigenza che non si esaurisce nella coscienza del passato. (32) La responsività penetra attraverso le giunture e le crepe di un essere che ha l'impronta della distanza, dell'assenza, con le sue pieghe e deviazioni. Così si legge in Paul Valéry, un autore che accompagna Merleau-Ponty come un mentore letterario: "Anche quando chiede, la mente è risposta". (33) Non potranno sfuggire ad una lettura attenta di Valéry, al quale il vocabolario scientifico del suo tempo non era solo senz'altro familiare, ma appariva anche degno di riflessione, i rimandi impliciti al problema della risposta sollevato dalla psicologia, problema dal quale abbiamo appunto preso le mosse.

3. Il logos della risposta

Ci si potrebbe comunque chiedere che cosa ci sia mai di particolarmente etico in questo tipo di responsività. Non ci siamo forse talmente allontanati dal bene in sé, dalla legge morale o anche dalla categoricità del volto umano, al punto che, oltre al dilemma di un'etica fenomenologica, l'etica stessa minaccia di essere persa di vista? E la ripresa di un'ontologia non fa forse venire il sospetto che la scintilla etica, risplendente nell'altro, minaccia invece di soffocare, schiacciata dal potere arbitrario di un darsi dell'essere e della sua 'cattiva totalità'? Cercherò di rispondere a queste e ad analoghe questioni indagando passo passo l'autonomia del rispondere alla ricerca delle sue implicazioni etiche.

Riferendomi all'atto del rispondere non intendo semplicemente, in senso stretto, qualcosa come il riempire una lacuna del sapere, ma intendo piuttosto, in senso lato, un rivolgersi e prestare attenzione ad offerte e richieste estranee, laddove il termine 'richiesta' deve essere inteso nel doppio senso di appello e pretesa. Posso indagare un qualsiasi discorso o azione non solo chiedendomi che senso o che scopo abbia, quali regole segua o in quali condizioni abbia luogo, ma anche, al di là di tutto questo, ponendo il problema di quale sia l'esigenza, la sfida o la richiesta alla quale risponde. Perciò la responsività rappresenta un tratto fondamentale del comportamento, di rango non inferiore ai più noti aspetti dell'intenzionalità, della regolarità e della praticabilità. Ciò a cui rispondo è, in quanto tale, senza senso e senza alcuna regola e non sta nemmeno a nostra disposizione, a meno che non partiamo da una parole parlée o da una action agie, che ha già un senso più o meno riproducibile. Il rispondere mostra una sua propria legalità che permette di poter parlare di un logos della risposta, cui deve essere attribuita una certa rilevanza etica. Ciò risulta evidente se consideriamo determinati problemi tradizionalmente posti.

La richiesta e l'appello si sottraggono innanzitutto all'opposizione di essere e dover essere. La sollicitation o l'exigence, di cui tratta ripetutamente Merleau-Ponty, non si possono ridurre né ad un puro e semplice dato di fatto constatabile, né ad una legge universale alla quale sono rimesso. In questo senso Merleau-Ponty, nella sua riflessione politica, conduce una battaglia su due fronti contro il pragmatismo e contro il moralismo. Ciò che è da fare non sta né nelle cose, né nelle stelle. Deve essere inventato, ma a partire da una inevitabilità che non dipende dalla nostra scelta. Quando una richiesta ci investe, non possiamo non rispondere, per variare la celebre espressione di Watzlawick. Qui siamo costretti a confrontarci con tracce di quella non-indifferenza che Levinas considera come una caratteristica della dimensione etica. Questa non-indifferenza ha il doppio significato di qualcosa che non è senza interne distinzioni e di un qualcosa che non è indifferente. C'è qualcosa che ci inquieta, che spezza la monotonia di un tutto-insieme come ne Il sogno di un uomo ridicolo di Dostoevskij, in cui la richiesta disperata di una povera ragazza sveglia dal suo sonno chi è ormai stanco della vita. Qualcosa risplende all'improvviso come una stella nella notte, qualcosa ci fa sobbalzare come lo squillo del telefono. Nel passaggio conclusivo della Fenomenologia della percezione è citato Antoine de Saint-Exupéry, infatti alla domanda su che cosa si debba fare concretamente, la risposta è lasciata all'eroe. Così scrive Merleau-Ponty: "Ma ci sono queste cose che si presentano, irrecusabili, c'è questa persona amata di fronte a te, ci sono questi uomini che esistono schiavi attorno a te, e la tua libertà non può volersi senza uscire dalla sua singolarità e senza volere la libertà. Sia che si tratti delle cose o delle situazioni storiche, la filosofia non ha altra funzione che quella di reinsegnarci a vederle bene". (34) Questa dichiarazione può oggi suonarci un po' troppo sentimentale, ma è evidente che cosa Merleau-Ponty intendesse dire. Esistono cose alle quali non possiamo sottrarci, richieste che non possiamo evitare. Il fatto poi che qui Merleau-Ponty si accontenti dell'appello di Camus a 'rapprendre à voir' non nasce certo da un atto di modestia filosofica, ma ha a che vedere con il problema stesso che si affronta. Si deve innanzitutto attirare l'attenzione sulle richieste che si presentano prima ancora di poter essere esaminate o giustificate, così come, secondo Kant, dobbiamo 'dare ascolto' alla legge morale, senza poterla però dedurre da qualche altra parte.

La seconda revisione riguarda l'opposizione di particolare e universale. Una richiesta che spezza la simmetria di un determinato ordine si contraddistingue per una certa singolarità che non deve essere confusa con l'unicità di un caso individuale, giacché apre una nuova dimensione di senso e nuove prospettive d'azione. Questo vale per eventi pubblici come la Rivoluzione francese, così come per stravolgimenti che avvengono nella vita personale. Un pensiero che attribuisce l'ordine a determinati eventi fondatori, sottostà all'opposizione di casistica e morale della legge, in quanto dà spazio ad una genealogia della morale. In questo caso l'evento della fondazione non è da pensare soltanto come istituzione o fondazione, ma anche come donazione. (35) Ci sono eventi che danno da pensare e con questo loro dono spezzano il circolo del do ut des. Fondazioni che non si possono basare a loro volta su ragioni sufficienti sono in un certo senso gratis. Eppure non cadono dal cielo come una 'donation pure', infatti ogni nuova fondazione significa anche una deformazione, un'alterazione ed estraniazione di ordini esistenti.

Il rispondere si contrappone infine all'antitesi tra ciò che è proprio e ciò che è estraneo. Nel periodo moderno la fissazione sul proprio, data per scontata, conduce all'opposizione, del tutto opinabile, tra egoismo ed altruismo, come se si potesse scambiare il proprio con l'estraneo. Questa economia morale dello scambio, le cui false esigenze sono smascherate già da Nietzsche, perde la sua forza se prendiamo le mosse da un sentire, parlare ed agire che rispondono, che partono da altrove, appunto da una richiesta estranea. Le figure di pensiero che si propongono all'attenzione sono da un lato l'intreccio o il chiasmo, che escludono la possibilità di muoversi nel proprio o nell'estraneo, dall'altro lato troviamo und certa asimmetria che esclude la possibilità ulteriore che ci si muova fin dal principio in maniera comparatistica tra il proprio e l'estraneo. È certamente vero che il pensiero dell'asimmetria sviluppa tutta la sua forza d'urto solo con Levinas, ma certamente non manca neanche in Merleau-Ponty. Già nella Fenomenologia della percezione l'autore considera la distanza come l'ideale di una comunicazione simmetrica e in seguito, contro una pura relazione reciproca, sottolinea l'"inevitabile asimmetria", (36) la cui intrinseca reversibilità non ha bisogno di alcuno spettatore che stia al tempo stesso da entrambe le parti. (37) In questo senso anche per Merleau-Ponty le tracce di un qualcosa di altro non sono affatto messaggeri di una comunità che comprende tutto, che supererebbe in sé o perlomeno neutralizzerebbe ogni estraneità. (38)

Da questo breve schizzo si può desumere quanto segue: esistono richieste estranee che non rientrano nelle consuete etiche teleologiche, deontiche ed utilitaristiche, senza tuttavia essere perciò insignificanti dal punto di vista etico.

4. Dalla circolarità allo sdoppiamento del corpo proprio

Se poi ci chiediamo in che modo le richieste estranee sono strettamente correlate all'essere se stessi, allora ci imbattiamo nel ruolo inaggirabile del corpo. Il proprio corpo non è semplicemente implicato in una qualche maniera nel comportamento del rispondere, piuttosto costituisce il nucleo più autentico di questo tipo di comportamento. Non basta ipotizzare che il corpo proprio assuma tratti etici, piuttosto l'ethos stesso risulta al contrario un ethos corporeo. In ogni caso una tale prospettiva acquista pienamente forza in Merleau-Ponty solo poco per volta, lasciandosi alle spalle un'iniziale 'cattiva ambiguità'. Intendo ora indagare questo progressivo spostamento di accento.

La teoria del 'corps propre' nella Fenomenologia della percezione non è soltanto determinata essenzialmente dal motivo della temporalità, piuttosto questa temporalità è pensata già qui, molto prima che Derrida la tematizzasse, come rinvio ed indugio. "Le mie prese sul passato e sull'avvenire sono sfuggevoli, il possesso che ho del mio tempo è sempre differito (différée) fino al momento in cui io mi comprenderei interamente, e quel momento non può giungere, giacché sarebbe pur sempre un momento, circondato da un orizzonte d'avvenire, e a sua volta avrebbe bisogno di sviluppi per essere compreso". (39) Questa appropriazione differita, che in seguito sarà caratterizzata come espropriazione o spossessamento, (40) fa sì che un'alterità si insinui nel cuore stesso della presenza a sé. "Io posso" significa sempre anche un "io non posso". Eppure questo motivo resta legato ad un pensiero pronto a scendere a compromessi fintanto che Merleau-Ponty non rimane ancorato ad un'esigenza di autofondazione in un "miscuglio di finitezza ed infinità", (41) esigenza di cui egli stesso mostra il fallimento. Finché la fenomenologia del corpo proprio non significa nient'altro che una concretizzazione e finitizzazione della fenomenologia trascendentale, il corpo proprio assume il ruolo di un pre-io, che cerca invano di raggiungere se stesso, e questo pre-io resta incatenato all'anonimità di un 'si', all'interno del quale il proprio e l'estraneo sono sincretisticamente unificati. La figura fondamentale di una tale fenomenologia della finitezza è costituita dalla circolarità, quale la conosciamo in Hegel, ma anche nell'ermeneutica. Il rapporto di senziente e sentito, di azione e situazione significa allora un contemporaneo dare e avere, cosicché l'alterità scade in fin dei conti a momento di un evento complessivo. Il non poter essere un tutto resta nel quadro di un essere se stessi e di un pensiero del medesimo. Merleau-Ponty abbandona definitivamente questo impianto allorché, nell'opera più tarda, giunge al corpo proprio partendo da una duplicazione e sdoppiamento del sé. (42) Il corpo che vede ed è visto, che tocca ed è toccato non è più chiamato 'corps propre', corpo proprio, bensì 'chair', carne. La non-coincidenza nella coincidenza non significa una "non coincidenza di fatto", fondata su una "coincidenza di principio o presuntiva". (43) Non è nemmeno un semplice sigillo della finitezza, che sarebbe poi misurato con il metro di un possibile infinito, piuttosto essa assume un carattere costitutivo. Il rapporto a sé si realizza come sottrazione a sé e da ciò risulta una "assenza irrimediabile", (44) che implica una "assenza da sé", (45) un'assenza, una distanza, una forma dell'invisibile, dell'inaudito, dell'intoccabile, che nella loro irrevocabilità non sono più da determinare come semplici mancanze; esiste piuttosto un "originario dell'altrove". (46) Questo altrove esperito deve essere accuratamente distinto da un "altrove in sé". (47) Il raddoppio del proprio corpo si prolunga in una specie di sdoppiamento dell'estraneità. L'alter ego non è semplicemente un duplicato dell'ego, non è un semplice ampliamento della sfera di proprietà, ma prende piuttosto la forma di un sosia, che può essere potenziato fino alla paranoia. L'altro è "un doppio errante; esso frequenta il mio ambiente più che comparirvi, è la risposta inopinata che io ricevo altrove". (48) La sottrazione a sé del proprio corpo si approfondisce ulteriormente nella sottrazione estranea del corpo dell'altro. Sono presso l'altro in quanto non sono mai del tutto in me. La fenditura che attraversa dall'interno l'essere-sé impedisce che il proprio e l'estraneo possano essere considerati come membri di una catena continua dell'essere, si dà al contrario una "fenditura dell'Essere". (49)

Non si deve affatto ritenere che con questo sia superata ogni ambiguità. Il confronto tra Merleau-Ponty e Levinas, che ha avuto luogo in maniera solo assai rudimentale allorché entrambi i filosofi erano in vita, è - analogamente al confronto tra Merleau-Ponty e Foucault - aperto da entrambi i lati, come ho cercato di dimostrare altrove. Ma ciononostante si aprono nuove strade che permettono di venir fuori dal dilemma di un'etica fenomenologica, dilemma dal quale siamo partiti. Diversamente da quanto assume Michel Henry, (50) la vita ha determinate forme del 'fuori' (dehors), è una forma di scarto (écart), è al di fuori di sé, diverge da se stessa, e proprio per questo resta rimessa ad un qualcosa di estraneo, che rappresenta non l'opposto, ma l'altro lato del proprio.

5. L'ethos dei sensi

Invece di indagare ulteriormente queste questioni fondamentali, vorrei tentare di dimostrare, per concludere, come la responsività del nostro sensorium si trasformi da sé in una sorta di responsorium, al quale non si può negare un certo spessore etico.

In genere si è pronti a considerare le espressioni linguistiche come relazioni a tre componenti: qualcuno comunica qualcosa a qualcun altro, eppure al contrario si è inclini a caratterizzare le percezioni come relazioni che hanno due sole componenti: qualcuno percepisce qualcosa (o un dato di fatto). Ma i caratteri dell'appello di cui si è detto non si lasciano affatto imbrigliare in questo schema percettivo così semplice e limitato, ma rimandano piuttosto ad una ulteriore differenza appellativa: qualcosa si presenta come qualcosa, in quanto chiama a qualcos'altro. L'"avere-da-essere (Zu-sein)", che Heidegger attribuisce esclusivamente all'esserci, parte qui dalle cose. Ciò trova espressione linguistica nella forma infinitiva, che si trova spesso in Merleau-Ponty, quando per esempio si sottolinea che da parte nostra resta ancora qualcosa da vedere, da dire, da fare (à voir, à dire, à faire); analogamente Heidegger si riferisce ripetutamente a qualcosa che è ancora da-pensare (das zu-Denkende). (51) Se con Karl Bühler distinguiamo tra funzione rappresentativa, espressiva ed appellativa, allora dobbiamo riconoscere che nell'appello delle cose la funzione rappresentativa e quella appellativa sono strettamente correlate e che l'io compare nella forma di un "dativo di indirizzo", (52) prima ancora di passare dall''io' al quale ci si rivolge ad un 'io' come soggetto al nominativo. Questo è propriamente lo stimolo al quale si deve dare una risposta. Da qui nasce l'esigenza di una eterosomatica, che sviluppo più approfonditamente nel mio libro Antwortregister. (53)

Incominciamo con l'ascoltare. Prestare ascolto a qualcosa che sorge dal silenzio o dalla quiete, che proviene da una certa direzione, ma che non è fissabile in un certo luogo, precede sempre ogni ascoltare qualcosa di determinabile. I tentativi di John Cage di trovare un suono sulla soglia del silenzio sono particolarmente adatti se si vuole esercitare un tale ascolto senza che ci sia propriamente niente da ascoltare, prima ancora che le 'orecchie dello spirito' riconoscano nell'udire qualcosa di semplicemente udito. L'ascoltare si raddoppia nell'eco, che risuona già nel sentirsi parlare, nella nostra stessa voce che ci rimbomba nelle orecchie e nell'ascolto della voce estranea. In questo caso la duplicazione non significa che qualcosa si presenta due volte, piuttosto che qualcosa si sdoppia, che qualcosa, come nel caso della foglia del gingko per Goethe, "è una e doppia". L'eco somiglia allo specchio, senza esserne peraltro del tutto simile. Nello specchio vedo il mio volto come lo vedono gli altri, nell'eco al contrario non ascolto il mio udito, come se l'udire avesse un lato esterno, piuttosto l'effetto dell'eco è immediatamente presente nel parlare, senza che compaia nel mezzo alcuno 'specchio dell'udito'. Lo specchio potenzia la vicinanza fino al limite di una coincidenza irraggiungibile, mentre nell'eco quanto è più prossimo scivola in una distanza non più colmabile. L'interpretazione metafisica della voce come puro essere presso di sé, che Derrida attribuisce in maniera forse unilaterale al fenomeno della voce, mostra qui un barlume di verità. La voce che - come per esempio nel caso di una telefonata anonima - affiora senza essere già riconoscibile come voce di qualcuno, si ascolta come qualcosa di inaudito in ciò che pure si ascolta. Non udiamo in realtà ciò a cui prestiamo ascolto.

I tre aspetti che abbiamo considerato, e cioè il carattere appellativo del sensibile, il raddoppio della percezione e il momento anestetico nella aisthesis, si trovano anche nei registri degli altri sensi, volta a volta caratterizzati da variazioni specifiche. Anche il vedere non si risolve semplicemente nel visto, risponde piuttosto ad uno sguardo che già le cose ci accordano - come insegna la pittura. (54) Non c'è soltanto lo sguardo che gettiamo sull'immagine, ma anche e innanzitutto lo sguardo che proviene dall'immagine e che fa sobbalzare il nostro guardare più ingenuo. Lo sguardo che si rivolge a qualcosa e lo sguardo che proviene da altro non sono da intendere a loro volta come due singoli sguardi che si scontrano come due palle da biliardo, piuttosto lo sguardo che si scambia e ci si scambia significa sempre anche che lo sguardo si raddoppia. Lo specchio acquista tutta la sua forza, che ha in sé addirittura qualcosa di magico, proprio a partire da questo raddoppio e non certo dal suo essere un supporto secondario che amplia semplicemente la prospettiva del nostro sguardo. In questo punto Merleau-Ponty si riferisce sempre di nuovo a Jacques Lacan, oltre che a Henri Wallon. (55) All'evento del vedere appartiene infine anche la macchia cieca del vedere stesso, coinvolta nel processo della vista come un che di invisibile nel visibile.

Da ultimo resta il tatto e il toccare, in cui si intrecciano il toccare se stessi e il toccare ciò che è estraneo, senza che l'uno si risolva nell'altro. Anche il tatto significa più che non un semplice toccare qualcosa, si tratta piuttosto di un venire in contatto con..., che sperimenta il suo sdoppiamento per esempio nella stretta di mano che ci scambiamo e che in qualche modo scambiamo anche con le cose. Attaverso questo raddoppio sperimentiamo come nel contatto ricambiato o evitato si dia qualcosa di inattingibile in ciò che pure tocchiamo con mano. Qui si mostrano i limiti di ogni mani-polazione e di ogni mani-festazione.

Questo gioco di raddoppi, nel quale l'estraneità del nostro stesso corpo si intreccia con la distanza in carne ed ossa dell'altro, si prolunga nel desiderio del corpo libidinoso, che si raddoppia in un desiderio del desiderio. Ciò raggiunge il suo culmine nell'intangibilità e nell'inavvicinabilità del volto dell'altro che mi è estraneo.

Prima di aprire un baratro tra l'ontologia e l'etica, tra un altro che mi appare e l'altro che esige qualcosa da me, è consigliabile fare attenzione alle tracce dell'altro che affiorano nella corporeità. Che cosa sarebbe l'esigenza dell'altro senza un guardare e un ascoltare che si rivolge all'altro rispondendo, (56) che presta attenzione e rispetto a ciò che è estraneo? Il disprezzo delle esigenze estranee non incomincia certo al livello dei discorsi argomentativi, incomincia piuttosto nelle "lacune dei discorsi", là dove tacere, passare sotto silenzio e mettere a tacere coincidono. Anche lo sguardo, il re-gard, oscilla tra uno stare in guardia ed un atteggiamento di riguardo per ciò che ci concerne. Un ethos che non consideri la responsività ancorata nel "logos del mondo estetico" si fossilizza in una morale che è semplicemente una sovrastruttura e che rinnega la propria stessa origine e gli abissi da cui proviene.

(Traduzione dal tedesco di Gabriella Baptist)

Note:

1) Cfr. l'omaggio a Bergson in M. Merleau-Ponty, Éloge de la philosophie. Leçon inaugurale faite au Collège de France le jeudi l5 janvier 1953, Paris, Gallimard, 1953, p. 40; tr. it. di C. Sini, Elogio della filosofia, Roma, Editori Riuniti, 19993, p. 40.

2) D. Janicaud, Le tournant théologique de la phénoménologie française, Combas, L'éclat, 1991.

3) E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l'extériorité, Den Haag, Nijhoff, 1961, p. XII; tr. it. di A. Dell'Asta, Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità, Milano, Jaca Book, 1980, p. 27.

4) M. Henry, Phénoménologie matérielle, Paris, PUF, 1990, p. 131; tr. it. di E. De Liguori e M. L. Iacarelli, Fenomenologia materiale, a cura di P. D'Oriano, Milano, Guerini e Associati, 2001, p. 166. J.-L. Marion, Étant donné. Essai d'une phénoménologie de la donation, Paris, PUF, 1997; tr. it. di R. Caldarone, Dato che. Saggio di una fenomenologia della donazione, Torino, SEI, 2001.

5) F. Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse. Vorspiel einer Philosophie der Zukunft, in Kritische Studienausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. V: Jenseits von Gut und Böse. Zur Genealogie der Moral, München e Berlin/New York, DTV e de Gruyter, 19933, pp. 106 e 119-120 (§§ 186 e 199); tr. it. di F. Masini, Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell'avvenire, vol. VI/2: Al di là del bene e del male. Genealogia della morale, Milano, Adelphi, 1968, pp. 84 e 97.

6) Così Husserl si esprime in una considerazione a proposito di Edith Stein del dicembre 1935, cfr. in proposito D. Janicaud, La phénoménologie éclatée, Combas, L'éclat, 1998, p. 38.

7) Cfr. le dichiarazioni di Merleau-Ponty nel suo scritto di candidatura al 'Collège de France', Un inédit de Merleau-Ponty, a cura di M. Gueroult, "Revue de Métaphysique et de Morale", LXVII (1962), p. 401.

8) Per quel che riguarda la problematica di un'etica dei valori di impostazione fenomenologica, rimando alle mie considerazioni critiche in B. Waldenfels, "Wertqualitäten oder Erfahrungsansprüche?", in G. Pfafferot (a cura di), Vom Umsturz der Werte in der modernen Gesellschaft. II. Internationales Kolloquium der Max-Scheler-Gesellschaft e.V., Universität zu Köln, 7.-10. Juni 1995, Bonn, Bouvier, 1997.

9) M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Paris, Gallimard, 1945, p. 67; tr. it. di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Milano, Il Saggiatore, 1965, p. 98.

10) Certamente Merleau-Ponty non è stato un gran lettore di Nietzsche. Eppure egli ha fatto riferimento alla Genealogia della morale di Nietzsche già nella recensione a Scheler del 1935, M. Merleau-Ponty, "Christianisme et ressentiment", in Parcours 1935-1951, Lagrasse, Verdier, 1997, pp. 9-33.

11) M. Merleau-Ponty, Le visible et l'invisible, suivi de notes de travail, a cura di C. Lefort, Paris, Gallimard, 1964, pp. 300-302; tr. it. di A. Bonomi, Il visibile e l'invisibile, Milano, Bompiani, 1969, pp. 280-281.

12) Cfr. la forma grammaticale della oratio obliqua.

13) Si veda in proposito la singolare, ma perciò tanto più significativa presa di distanza di Merleau-Ponty rispetto al pensiero heideggeriano sul problema dell'essere in M. Merleau-Ponty, Résumés de cours. Collège de France 1952-1960, a cura di C. Lefort, Paris, Gallimard, 1968, p. 156, oltre che i corrispondenti appunti per le lezioni in Id., Notes du cours sur L'origine de la géométrie de Husserl, suivi de Recherches sur la phénoménologie de Merleau-Ponty, a cura di R. Barbaras, Paris, PUF, 1998, pp. 63, 65.

14) Cfr. M. Merleau-Ponty, Le visible et l'invisible, cit., p. 233; tr. it. cit., p. 212.

15) Anche Merleau-Ponty segue l'uso linguistico invalso allorché parla in genere di 'réaction' nella sua teoria del comportamento.

16) M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, cit., p. 248; tr. it. cit., p. 291.

17) Il termine francese 'sollicitation', che Merleau-Ponty utilizza ripetutamente, significa: 1) richiesta pressante, domanda, candidatura per un impiego, 2) esortazione, 3) premura, sforzo, 4) rivendicazione (anche in senso tecnico); 'solliciter' significa inoltre: attirare su di sé l'attenzione. Anche nel termine inglese 'solicitation' si ritrova qualcosa di questa plurivocità, oltre alla sfumatura che rimanda ad un che di 'inoppurtuno'.

18) E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, I: Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, a cura di W. Biemel, Husserliana, vol. III, Den Haag, Nijhoff, 1950, p. 205 (§ 84); tr. it. di G. Alliney e E. Filippini, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, I: Introduzione generale alla fenomenologia pura, Torino, Einaudi, 1965, p. 188.

19) M. Merleau-Ponty, Signes, Paris, Gallimard, 1960, p. 27; tr. it. G. Alfieri, Segni, a cura di A. Bonomi, Milano, Il Saggiatore, 1967, p. 42.

20) M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, cit., p. 255; tr. it. cit., p. 299.

21) E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass III: 1929-1935, a cura di I. Kern, Husserliana, vol. XV, Den Haag, Nijhoff, 1973, p. 128.

22) M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, cit., p. 369; tr. it. cit., p. 417.

23) Ibid., p. 369-370; tr. it. cit., p. 418.

24) Ibid., p. 505; tr. it. cit., p. 565.

25) M. Merleau-Ponty, L'œil et l'esprit, Paris, Gallimard, 1964, p. 86 ; tr. it. di G. Invitto, L'occhio e lo spirito, Lecce, Milella, 1971, p. 77.

26) M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, cit., p. 517; tr. it. cit., p. 578.

27) M. Merleau-Ponty, Le visible et l'invisible, cit., p. 161; tr. it. cit., p. 143.

28) Cfr. E. Husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, a cura di S. Strasser, Husserliana, vol. I, Den Haag, Nijhoff, 19632, p. 95; tr. it. di F. Costa, Meditazioni cartesiane con l'aggiunta dei Discorsi parigini, con una Presentazione di R. Cristin, Milano, Bompiani, 19973, pp. 86-87.

29) M. Merleau-Ponty, Le visible et l'invisible, cit., p. 161; tr. it. cit., p. 143.

30) Ibid., p. 229; tr. it. cit., p. 207.

31) Ibid., p. 262; tr. it. cit., p. 241. Cfr. anche ibid., p. 173, tr. it. cit., p. 156.

32) Ibid., p. 297; tr. it. cit., p. 276-277.

33) P. Valéry, Cahiers, vol. I, a cura di J. Robinson, Paris, Gallimard, 1973, p. 988; tr. it. di R. Guarini, Quaderni, vol. III: Sistema, Psicologia, Soma e CEM, Sensibilità, Memoria, a cura di J. Robinson-Valéry, Milano, Adelphi, 1988, p. 231.

34) M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, cit., p. 520; tr. it. cit., p. 581.

35) M. Heidegger, "Der Ursprung des Kunstwerkes", in Holzwege, a cura di F.-W. von Herrmann, Frankfurt a.M. Klostermann, 1980, p. 63; tr. it. di P. Chiodi, "L'origine dell'opera d'arte", in Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968, p. 59.

36) M. Merleau-Ponty, Le visible et l'invisible, cit., p. 112; tr. it. cit., p. 99.

37) Ibid., p. 317; tr. it. cit., p. 297.

38) Cfr. M. Merleau-Ponty, "La perception d'autrui et le dialogue", in La prose du monde, a cura di C. Lefort, Paris, Gallimard, 1969, pp. 182-203; tr. it. di M. Sanlorenzo, "La percezione dell'altro e il dialogo", in La prosa del mondo, con una Introduzione di C. Sini, Roma, Editori Riuniti, 1984, pp. 135-147.

39) M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, cit., p. 398; tr. it. cit., pp. 450-451.

40) M. Merleau-Ponty, Signes, cit., p. 215; tr. it. cit., p. 223. Id., Le visible et l'invisible, cit., p. 319; tr. it. cit., p. 299.

41) Un inédit de Merleau-Ponty, cit., p. 409.

42) M. Merleau-Ponty, Le visible et l'invisible, cit., pp. 300, 317; tr. it. cit., pp. 279, 297.

43) Ibid., p. 166; tr. it. cit., p. 148.

44) Ibid., p. 211; tr. it. cit., p. 191.

45) Ibid., p. 303; tr. it. cit., p. 283.

46) Ibid., p. 307-308; tr. it. cit., p. 288.

47) Ibid., p. 300; tr. it. cit., p. 280.

48) M. Merleau-Ponty, La prose du monde, cit., p. 186; tr. it. cit., p. 137.

49) M. Merleau-Ponty, Le visible et l'invisible, cit., p. 289; tr. it. cit., p. 268.

50) M. Henry, Phénoménologie matérielle, cit., p. 7; tr. it. cit., p. 62.

51) Cfr. M. Heidegger, "Was heißt Denken?", in Vorträge und Aufsätze, Pfullingen, Neske, 1954, pp. 123-137; tr. it. di G. Vattimo, "Che cosa significa pensare?", in Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1976, pp. 85-95.

52) K. Bühler, Sprachtheorie. Die Darstellungsfunktion der Sprache, Stuttgart/New York, Fischer, 1982, § 15; tr. it. di S. Cattaruzza Derossi, Teoria del linguaggio. La funzione rappresentativa del linguaggio, Roma, Armando, 1983, p. 305, nota.

53) B. Waldenfels, Antwortregister, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1994.

54) M. Merleau-Ponty, Le visible et l'invisible, cit., p. 261; tr. it. cit., p. 240.

55) Cfr. M. Merleau-Ponty, "Les relations avec autrui chez l'enfant", in Merleau-Ponty à la Sorbonne, résumé de cours 1949-1952, Grenoble, Cynara, 1988, pp. 303-396; tr. it. di G. Goeta, Il bambino e gli altri, con una Introduzione di P. Filiasi Carcano, Roma, Armando, 1968.

56) Cfr. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass III: 1929-1935, cit., p. 462.