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Jean Genet, Palestinesi,
a cura di Marco Dotti, Milano, Stampa Alternativa, 2002, p. 268, ISBN 88-7226-699-8, € 12,00

 

Gli scritti di Jean Genet sulla questione palestinese che, ottimamente curati da Marco Dotti, sono raccolti in questo volume, interessano per molti motivi: per il valore di documenti di un interesse umano e politico durato vent’anni; per le riflessioni teorico-politiche contenutevi; per l’urgenza che il problema palestinese continua, oggi forse più di ieri, ad avere. Tuttavia, consapevole di operare una scelta critica, vorrei soffermarmi su un motivo che si ritrova trasversalmente in tali testi; mi piacerebbe chiamarlo il motivo dell’immaginazione rivoluzionaria.

Tale questione, credo, si possa suddividere nelle seguenti: a) Quale immagine di sé rifiuta un fedayn? b) Che cosa sogna? c) Quale immagine dei palestinesi lo scrittore Genet sceglie di raccontare?

Cominciamo a rispondere alla prima domanda. Nel lungo scritto del 1973 intitolato Conversazione a Parigi, ad un certo punto Genet si chiede se "la felicità borghese non dipenda proprio dal fatto di sapere che esiste un altro mondo, un mondo a parte che ignora questa forma di felicità. Il vero piacere dell’occhio è quello di poter accarezzare con lo sguardo un uomo povero, o in condizioni miserabili, e ridurlo ad oggetto ornamentale" (p. 65). Ecco, quando quest’altro mondo prende coscienza dello sfruttamento subito, la prima cosa che fa è rifiutare l’immagine ornamentale che l’occidente si è costruito di esso. La rivoluzione palestinese, commenta Genet, se vuole realizzare il suo sogno (cfr. infra), deve rifiutare quell’immagine e lo sguardo dell’occidente: "l’apparizione sullo schermo televisivo, e sulla prima pagina dei giornali, della sagoma nascosta dietro un passamontagna era al contempo sconvolgente e sgradevole. Forniva la prova, mi pare, di come Settembre nero rifiutasse completamente quel ‘paesaggio’, quel terzo mondo da operetta, quel tenore localistico in cui la morte e la miseria, considerate da lontano dagli ‘spettatori’ europei, finiscono per confondersi diventando perfino piacevoli allo sguardo" (p. 72).

Un’affermazione, questa, dai risvolti politici molto seri, specie se letta col senno dell’oggi; ma anche i riferimenti alla contemporaneità vissuta da Genet sono drammatici: ci sono già state azioni di dirottamento da parte di organizzazioni palestinesi; c’è già stata l’azione "terrorista" alle Olimpiadi di Monaco. L’argomentazione di Genet diventa cinica e sconsolata ad un tempo: "tutto dipenderà dallo stile che si vorrà dare la rivoluzione palestinese. Se darà valore alla sua immagine presso gli occidentali, allora dovrà fornirne una accettabile anche in Occidente. In tal caso, rinuncerà alle strategie condannate dal moralismo delle nazioni borghesi. E perderà, per questa ragione, perderà e non otterrà più nulla, perché gli apparati militari d’Israele e dei suoi alleati non si faranno scappare l’occasione di presentare il mondo palestinese […] come una forma di male da estirpare" (p. 68). Ragionamento cui è possibile, sempre in chiave politica, controbattere che quasi sempre è l’azione "terrorista" che fornisce l’occasione per criminalizzare un intero popolo e una giusta causa. Tuttavia, quel che dice Genet deve far molto riflettere: troppo spesso l’occidente considera problemi da risolvere solo quelli che s’impongono attraverso azioni violente che scuotono il suo tranquillo egoismo e il suo grasso, e interessato, filantropismo.

Passiamo alla seconda domanda. Che cosa sogna un fedayn (parola che significa ‘colui che si sacrifica’)? Certamente la restituzione della terra al suo popolo. O anche, secondo Genet, la rivoluzione socialista nel mondo arabo. Tuttavia, quali sono le immagini concrete dei suoi sogni? Che cosa desidera il singolo combattente fedayn?

La risposta di Genet è che o essi sognano/desiderano gli stessi valori "borghesi" contro di cui lottano, oppure sognano sogni eroici in cui eternano il loro status di combattenti rivoluzionari. Vale la pena riportare per intero un brano tratto dallo scritto Presso Ajloun. In memoria di tutti i fedayin (1970): "tutto ciò è già stato osservato […], è opportuno che in un sogno [i fedayin] si vedano emiro petroliere, miliardario, tradizionalista e cosmopolita per distruggere meglio il petrolio, i miliardi, la tradizione e la complicità cosmopolite, esponendosi al fuoco. Da povero ragazzo qual è, chi ucciderebbe sacrificandosi, se non ha altro che la sua povertà? Uccide un nemico più importante se ha avuto il tempo, prima del sacrificio, di abbandonarsi a un sogno in cui può essere sovrano" (p. 95). Genet tocca qui un punto essenziale, che riguarda la possibilità e la natura dell’immaginazione rivoluzionaria. Apparentemente, se ci si sofferma sul solo contenuto di tale immaginario rivoluzionario, si potrebbe essere tentati di svilirlo a semplice riproduzione del dominio sociale che si combatte. Da tale punto di vista bisognerebbe concludere che non può esserci immaginazione rivoluzionaria. Mai l’immaginazione andrà al potere, perché essa è sempre del potere. Ma Genet ci invita ad andare oltre tale conclusione ("è già stato osservato…"). Chi può sacrificarsi se non ha altro che la sua povertà? Se non ha almeno sognato sogni di "sovranità", spodestando i potenti del mondo, mettendosi al posto di essi con un atto di insubordinazione? Insomma, i sogni non valgono per quel che dicono ma per la rivolta che producono e quindi, si potrebbe commentare, valgono ben oltre le intenzioni della soggettività rivoluzionaria. Astuzia dei sogni. Eppure, c’è qualcosa che Genet sembra temere. È costantemente preoccupato che la rivoluzione palestinese possa perdere la sua laicità facendosi condizionare da atteggiamenti religiosi fondamentalisti. Nel caso ciò avvenisse (e forse sta avvenendo) è facile capire cosa quei sogni sogneranno. Allora forse il contenuto di essi tornerà ad avere importanza.

Giungiamo alla terza domanda: quale immagine dei fedayin lo scrittore Genet sceglie di raccontare?

Una prima risposta è già implicita nelle considerazioni fin qui svolte. Genet sceglie di raccontare, come giustamente sottolinea Marco Dotti, l’uomo in rivolta. I palestinesi lo interessano in quanto uomini in rivolta: "Visi e corpi sono offerti a chi sa leggere. Si crede di capire che hanno voluto questa durezza allo scopo di creare questa nube che aleggia sul mondo arabo, di lacerare le mitologie che vi sono state dipinte. È la rivolta. Ed è il grido affermativo di sé, ma appena un po’ incerto, come se, nel momento in cui desiderano penetrare nella nube, i combattenti sognassero di proteggersi nel suo spessore" (p. 91). È questa bellezza che lo scrittore intende raccontare: la bellezza della rivolta: "scampati ai campi profughi, scampati alla morale e all’ordine dei campi, a una morale imposta dalle necessità della sopravvivenza, scampati alla vergogna, i fedayin erano bellissimi. […] Forse è necessario ammettere che le rivoluzioni o le liberazioni si danno – oscuramente – come fine quello di trovare o di ritrovare la bellezza. […] Per bellezza intendiamo un’allegra insolenza che sfida l’antica miseria" (pp. 136-137). Nella Conversazione con Rüdiger Wischenbart e Layla Shahid del 1983, Genet ancora una volta sembra ribadire a se stesso e agli altri in che cosa consista il suo interesse per i palestinesi: "il giorno in cui i palestinesi saranno istituzionalizzati, quel giorno io non sarò più al loro fianco. Il giorno in cui i palestinesi diventeranno una nazione come tutte le altre, io non sarò più là" (p. 168). Lo scrittore Genet non sarà più al loro fianco perché non saranno più belli ai suoi occhi.

Tuttavia, come spesso accade, la grandezza di un uomo, o di una donna, si misura con la sua capacità di contraddirsi per coerenza morale. Genet non è da meno. Nello stesso testo del 1983 appena citato, riferendosi a quel che aveva visto nel campo di Chatila dopo il massacro compiuto dai falangisti libanesi di Haddad (con la vigile disattenzione dei militari israeliani a guardia del campo), riesce a liberarsi anche della sua veste di scrittore e dei limiti intrinseci all’immaginazione estetica. Rispondendo ad un’esplicita domanda di Rüdiger Wischenbart ("Qual è la differenza tra i libri di trent’anni fa e ora?"), Genet afferma: "Nei libri, quando mi trovavo in prigione, ero signore della mia immaginazione: Signore dell’elemento su cui lavoravo. Perché si trattava della mia fantasticheria. Ma ora, non sono più signore di quello che ho visto, sono obbligato a dire: ho visto gente imbavagliata, legata, ho visto una signora con le dita mozzate! Sono costretto a sottomettermi al mondo reale. Ma sempre con le vecchie parole, con le mie parole" (p. 163).

Genet è costretto a vedere la bruttezza del mondo reale. Non è più artista, ma solo scrittore. Oltrepassa i limiti della sua immaginazione estetica e diviene un testimone.

Il libro è integrato da una cronologia degli eventi e da una bibliografia essenziale sull’autore.

Vincenzo Cuomo

 

Indice:

Manicomio, riformatorio, prigione

Palestinesi, commento a dieci immagini di Bruno Barbey

Conversazione a Parigi

Le donne di Djebel Hussein

Presso Ajloun

Il mito crudele della Terra promessa

Quattro ore a Chatila

Appendice

"Jean Genet tra i palestinesi" di Tahar Ben Jelloun

Conversazione con Rüdiger Wischenbart e Layla Shahid

Cronologia

Testimonianze, ricordi, frammenti critici

Un funambolo tra le macerie

Bibliografia

Note