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L'esperienza dell'altro

di Pietro Ciaravolo

 

Un’espressione ovvia all’apparenza ma nella realtà ad un’analisi più attenta risulta complessa e problematica. Dentro ha una sorta di "grumo semantico" che scioglierlo è un’autentica impresa. M’affido a quel noto "diluente" che è la teoretica un po’ messa in parte, oggi, per il crescere preferenziale della mentalità storiografica. All’istanza di un problema filosofico si risponde nella "didattica accademica" per lo più non con un diretto argomentare ma sulla base delle autorevoli testimonianze del passato e del presente. Si risponde per lo più con le "voci del passato" alle quali il prestigio degli autori conferisce tout court validità e veridicità. Un argomentare ex auctoritate! Non s’esclude (e come potrebbe venire in mente!) il metabolismo della cultura storica che fornisce chiavi ermeneutiche che, sommerse ed inconsce, entrano integrandosi in un’unità interpretativa. Il meccanismo creativo della Natura (della quale la mente umana fa parte) produce combinazioni nuove ed originali. I suoi esseri sono tutti diversi. E il materiale di composizione non è nuovo ma viene dal "deposito genetico" mentre è nuova la combinazione degli elementi. La somiglianza non annulla la diversità. Che è e resta la categoria essenziale e caratteristica della natura. L’inganno dell’uguale viene dall’uniformità del linguaggio che è legittima nel mondo dei segni dove l’artificio è caratteristico ma non in quello della Natura. Che ne è in realtà il referente di base, la radice che conferisce appoggio e consistenza al signum di comunicazione. La cultura che nutre l’interprete è come la tavolozza dell’artista che pur fornendo gli stessi colori si presta "a diversi usi" a seconda dell’individualità dell’artista. Nel senso che gli stessi colori (riferendomi ancora all’arte pittorica) acquistano "sensi diversi" a seconda della prospettività dell’immagine. Il significato di un insieme fissa il significato delle sue componenti. Mutando il significato d’insieme mutano i significati delle componenti. L’intuizione (che in origine è sempre sincretica) fa da centro e circonferenza allo sviluppo dell’analisi ( che è sempre) interpretativa. La "materia" che la compone è tratta dalla cultura, dal bagaglio delle idee, dalla storia ma la "forma" che unisce facendone un’unità è propria dell’interprete che "in – formandola"- la metabolizza e metabolizzando la individualizza. La materia di cultura esce dal linguaggio concettuale che tutto uniforma e fissa recuperando la sua diversità empirica originaria. La cultura personale che fa da chiave e da contesto nell’atto interpretativo è in realtà un prodotto metabolico del soggetto. Il pezzo di pane proveniente dallo stesso fornaio, venduto e consumato da più persone diventa nei propri metabolismi un "diverso carboidrato", tanti diversi carboidrati quante sono le persone che hanno consumato quel pezzo di pane. Come la stessa acqua versata in tanti diversi recipienti. Infatti, acquista tante forme quante sono le forme dei recipienti pur essendo la stessa acqua. Un’analogia ma tanto significante e tanto dicente. Platone si fa sentire nei sotterranei delle teoremi occidentali e non come alimentatore occulto ma con una dispotica influenza. La singolarità è una conoscenza inferiore, una doxa, una debole opinione; l’unicità della Forma fa della conoscenza la verità. L’ascesi teoretica è una scala che si libera dall’ingannevole percezione dei sensi per portarsi in vetta all’ideale mondo delle Forme. Un processo verso la desingolarizzazione, un andare verso l’unificazione, l’uniformazione. L’ingresso nel mondo ideale! Specie la filosofia moderna segue questo itinerario. Quella che ha influenzato ampiamente, quella che conferisce l’impianto razionale alla nostra civiltà che è tutto un mirare verso un modello uniformante. L’adattamento come comportamento d’adesione, come atto di assimilazione, come sacrificio della propria identità, della propria diversità diventa virtù, buon cittadino, buon religioso, morale, ligio al dovere. Un santificarsi da "abneget semetipsum". Un santificarsi come alienarsi: come perdersi per sostituirsi con una "maschera", con un "burattino" clonato. Un’alienazione che santifica. Un investimento di dignità. L’aria degli eroi. E’ probabile che la "nevrosi" che ci assale nasca dal conflitto d’identità che dentro ci erode e ci squilibra obbligandoci a vivere recitando un’esistenza non sentita e non propria. Il nostro baricentro è singolo ed è personale. Quello che ci accompagna e vigila sul nostro quotidiano. E per mantenersi il baricentro esplicando la sua funzione d’equilibratore, ha bisogno non di supporti artefatti ma di supporti connaturali e congeniti. Alimentatori d’energia che vengono dal di dentro. Diversamente, il venire dal di fuori, porta sensazioni di precarietà. Non è affidabile, non dà certezza di solidità o di validità. Si sente l’innaturale come il bastone per lo zoppo.

Può sembrare fuori campo e quasi inutile questo approccio o meglio un non approccio questa puntualizzazione "introduttoria", ma non è così. L’esperire l’altro ha bisogno – come ogni altro tema – di una contestualità "segnaletica" che fornisca le frecce-guida ai fini di un approfondimento interpretativo. Le notazioni fatte hanno questo ruolo sia per la parentela, per l’omogeneità logica con il tema sia per la capacità di fornire sensate chiavi interpretative.

 

L’ esperienza

Il termine è ricorrente nella nostra parlata. Lo si pronuncia tout court ed in modo tranquillo. Avviene quando si pronuncia ciò che si considera un’ovvietà. Non occorrono prove di validità. Sarebbero insensate come un voler illuminare con il chiarore di una candela un oggetto illuminato dal sole. Gettiamo giù la parola "esperienza", incuranti. L’ovvietà nella quale passa, impedisce l’avanzare di ogni forma di dubbio, di ogni sospetto di problematicità. Lo stesso riflesso psicologico dell’atto di fede. Un forte "assenso interno" che conferisce un’intoccabile certezza. L’acquisizione del "senso dell’evidenza" senza prove estrinseche ma solo quella interna che è data da un prorompente "si". E’ così e non potrà essere che così. Il senso dell’ovvietà paradossalmente ha la stessa dinamica psicologica del senso di fede con la differenza che mentre il senso dell’ovvietà è anche sostenuto dall’autorità della tradizione e dall’ampio consenso attuale; quello della fede deriva dall’inconscio attingendo qui la sua forza propulsiva. Un "qui" che è e resta un mistero. La carezza d’umiltà della filosofia postmoderna. Dispensa serenità ed equilibrio ed anche serietà nella ricerca. La presunzione come lo scambiare il buio per la luce, il meno per il più, l’opinione emendabile per la verità è la violenza d’orgoglio di chi rifiuta la sua incapacità, la sua impotenza mentale. La consapevolezza del proprio limite è la condizione "deontologica" di ogni seria ricerca dando in più una spinta d’efficacia.

a) L’esperire?

Lo scorrere dei "fenomeni" nell’alveo della coscienza. Un "rendersi conto", un avvertire ciò che avviene, un divenire di dati. Un trovarsi dinanzi qualcosa. Dove? Qui è il problema. Qui ha inizio la conta, la lunga conta dei nostri limiti. La semplice formulazione del "rendersi conto", dell’ "avvertire" è pura fenomenia che rischia di sperdersi nel nulla, di fissarsi, esaurirsi nel sonoro o nella grafia delle parole. Questo rischio di caduta nominalistica non è raro ad accadere ma quasi ricorrente nel linguaggio. Con una certa frequenza frammentiamo la linea logica del parlare alternato frasi (ed a volte all’interno della stessa frase) di percezione con frasi bagnate d’immaginazione. Senza che ci si accorge! Non dico dell’ausilio metaforico che aiuta la comprensione specie quando il discorso sale ai livelli di pura astrattezza ma quando le frasi (o le parole) per sé "immaginarie" sono assorbite per "attrazione di contiguità" da quelle "concrete" costituendo mentalmente un tutt’uno. I ruscelli che scorrendo diventano "mare". Ciò avviene anche nel linguaggio critico che pesa e soppesa nel suo dire accogliendo nel percorso l’acritico che "immerso" perde l’acriticità del contenuto per sollevarsi a "critico". Un’operazione d’assorbimento latente ed inconscio. La fantasia che intrecciandosi con il "reale" si fa "reale". S’assimila contraddittoriamente. Ed avviene più frequentemente di quanto si pensi. Quante volte abbiamo esteso il giudizio di verità e di scientificità a scritti o idee in sé poveri o insignificanti sol perché l’autore in altri scritti o in altre idee aveva acquisito alta stima ed alto apprezzamento? Un riversamento tout court di prestigio, uno straripare in zone estranee ed inidonee. Si può essere grandi in un campo e mediocri in un altro. Si cade in analoga superficialità quando un’idea passa per ovvia dispensando o facendo ritenere inutile ogni sosta d’analisi. Non sfiora alcun dubbio sulla sua verità. Ciò che si considera "ovvio" gode di luce solare. Non esistono ombre. Una supposizione che l’avallo tradizionale del giudizio di verità dato da uomini di grande e piccolo prestigio letterario ha trasformato in evidenza. Si può parlare di un processo di consolidamento martellato dal tempo cui fu sottoposta la prima sensazione di verità che accompagnava l’opinione. E questo è un altro esempio di "non critico" che entra nella scia del "critico" e per giunta con un grado superiore di luce. Rilievi che diffondono ombre di dubbio qua e là sui nostri tracciati logici segmentandoli con stacchi riempiti da "assensi di forte credenza". Ponti "irrazionali" che congiungono "rive razionali"! Un’intromissione che (se non è una prova) è un indizio d’insufficienza della "ragione logica". Un problema che lascio nel fondo a mò di contesto utilizzandolo all’occasione. Al momento resta il "dotto" sospetto che la regia della conoscenza non sia solo nelle mani della "ragione".

Temo di cadere nel semplicismo invece è solo semplicità di linguaggio sempre utile ai fini dell’intendimento. Sempre è opportuno anche si parla al dotto interlocutore e poi dà garanzia di una maggiore veridicità. Al di là dell’apparenza il linguaggio "tecnico" rischia di più l’errore interpretativo e più ancora se l’esattezza delle parole è affidata alle traduzioni. Quanti saggi rischiano di diventare un’invenzione essendosi affidati a traduzioni errate! Se abbiamo a volte difficoltà nell’interpretare testi scritti nella nostra lingua pur essendone padroni come si può essere certi dell’esattezza interpretativa di testi d’altra lingua che possiamo conoscere ma non esserne padroni? Su questa costruisce l’informazione e l’analisi critica. Chi s’accultura potrà ricevere il falso e ripetere e tramandare questo falso. Non è improbabile che la storia e la storiografia filosofica (ovviamente non solo filosofica) siano macchiate qua e là da "invenzioni interpretative" elaborando idee inesistenti. Sarebbe un problema molto grave e non campato in aria! Quando la lingua accademica era il latino dovevano essere più rari se non inesistenti questi rischi. Era la lingua ufficiale. Era la lingua comune all’alta cultura. Non v’era bisogno di traduzioni negli studi accademici! Ancora non prevalevano le lingue nazionali. Non è improbabile che anche l’anticlericalismo abbia fatto la sua parte. L’uso del latino diventava un appannaggio delle accademie teologiche, mentre l’uso eventuale dell’intellettualità laica diventava l’umiliazione della dipendenza. (1)

b) L’esperire e l’esperiente

Qualunque sia la valenza all’interno del sapere i termini linguistici s’affidano a due soluzioni semantiche, la concettuale e l’empirica. La prima è nel dire, nella parola in quanto tale mentre la seconda è nell’intenderla, nel capirla. Nella prima soluzione come nella seconda i termini hanno la funzione di segni linguistici: indicano, rimandano. Non si pongono per sé ma per altro a mò di frecce segnaletiche. Nel parlare indicano il concetto come referente, nell’intendimento (che è sempre interpretativo) invece il rimando è empirico. L’esperire e l’esperiente entrano in questo meccanismo: come termini dicenti riportano alla concettualizzazione mentre come termini intendenti riportano a "dati d’esperienza". Una distinzione che non stacca, non separa ma disegna un continuum graduale. Il concetto cui rimanda il suono (o la grafia) della parola in quanto signum è a sua volta signum generalizzatore di un "dato d’esperienza" che è sempre singolare. L’estensibilità generalizzante è propria del segno che "tutto abbraccia". Dire "mela" è investire tutte le "mele" del globo. Un’indicazione universale che entra nel gioco del segno. Un artificio d’economia mentale. Una soluzione geniale per liberare il "dicente" (o lo scrivente) dall’obbligo difficile ed oneroso d’indicare concretamente la "cosa" di cui si dice (o si scrive). L’universale entra nella potenzialità del segno e qui si consuma. E’ una soluzione immaginaria. Nessuna realtà corrisponde. A meno che non si riesumi il mondo platonico delle "Forme" che pure in latenza storiografica inonda le teoresi filosofiche dell’occidente. L’universale è una realtà. La parola corrisponde a misura. Traspare, trasmette senza artefazione. Ma questo è solo un cimelio storico. Un pezzo da museo. Si scontra con il rifiuto del quotidiano, del vissuto d’ogni giorno. Il campo di verifica di ogni idea. Solo Platone (e il platonismo storiografico) può permettersi di fare dell’ universale concettuale una realtà e considerare la "terrestrità" della percezione una prospettiva "inferiore" del mondo. Il pullulare delle singolarità dall’infinito numero a fronte delle poche unità delle Forme. La singolarità delle cose che si dispiega all’infinito numero a fronte delle poche unità delle Forme. La singolarità delle cose che si dispiega all’infinito nell’ottica percettiva (perfino le foglioline che scorrono sul rametto di un cespuglio sono diverse all’occhio!) ontologicamente si vanifica nella "fagocitazione" dell’uniformante modello. Nel linguaggio è il concetto che "fagocita" uniformando e generalizzando. Pur non facendo esplicita professione di platonismo tante filosofie si muovono teoreticamente in questa "mentalità" conferendo "realtà" al mondo dei concetti e se non proprio "realtà" una veridicità a se stante. Il referente al quale rimanda la parola in quanto "segno linguistico"non sfila nel "mondo iperuranio" ma è sulla "terra" portando dentro gli stessi privilegi ontologici dell’iperuranio. Un’eredità di prestigio che se pur ufficialmente non s’accetta resta ed agisce nei meandri dell’inconscio. I filosofi e gli studiosi respirano quest’aria quando danno alla concettualità più della funzione del segno. M’avvedo in questo dire d’incrociare un "bivio" e d’arrestarmi alla constatazione: il percorso della empirica percezione che fa del concetto un signum linguistico del "percepito"e il percorso platonico della "seconda navigazione". Percorsi che attendono la scelta e su questa proseguono. Scelgo in pari dignità la "segnicità empirica" del concetto generalizzatore nella sequenza: termine-concetto-dato empirico. La posizione platonica invece conferisce al concetto la "segnicità trascendentale" che è più un trasparire che un rimandare. Ma queste posizioni sono in ordine al linguaggio. Sono articolazioni linguistiche.

c) L’intendimento

Ma – come si fece notare sopra – diversa è la via imposta dall’intendimento, dall’interpretazione del signum ove in causa non è un soggetto logico ma un singolo uomo, diverso e differente da ogni altro, "in carne ed ossa" con una cultura individualmente metabolizzata. Quella che fa da humus per l’interpretazione. L’esempio della stessa acqua che prende le forme dei recipienti nei quali si raccoglie, calza e chiarisce l’individualità interpretativa. Ugualmente chiarisce il riferimento al metabolismo biologico che ‘muta’ il bolo alimentare trasformandolo in un proprio nella biochimica di questo o di quel corpo. Un rilievo sperimentabile in ogni momento e che resiste nella sua validità pur invocando e (su quale base!) una presumibile "dualità" nell’uomo con tipologie incompatibili. Opinione che trova un muro invalicabile per l’operazione "unificante". Il ricorso alla "ghiandola pineale" a mò di tunnel per il "raccordo"- del grande Descartes è emblematico. Quasi desta meraviglia che una mente logico-matematica di tale valore possa avvalersi di una fantasticheria! L’unità dell’uomo ha una prova inattaccabile che è la testimonianza di ognuno di noi che attinge all’esperienza del quotidiano non saltuaria né eccezionale ma continua. E’ sufficiente pigiare il bottone della coscienza per rendersi conto e trasparirne la consapevolezza. Non esistono prove contrarie che possano reggere allo scontro e se comunque entrano in campo si vanificano in un gioco di parole. Ma questa possibilità è stritolata sul nascere della stessa logica nella quale naviga. Le eventuali prove contrarie verrebbero dalla mente umana, la stessa che testimonia l’unità una contraddizione che entrerebbero nel patologico. E’ vero che la scienza legittima la "ripartizione" analitica dell’uomo ma solo ai fini metodologici che comunque non impediscono il sorgere dei limiti dovuti all’attenzione specialistica, alla separazione, cioè, del campo d’analisi dal resto per il maggiore approfondimento. Trattarlo come se non fosse una parte ma un’entità monadica. Le conseguenze sono più o meno gravi. Si pensi alle specialistiche della scienza medica i cui risultati sul piano della ricerca, della diagnostica e della terapeutica sono fortemente inficiati da "buchi" di dati, dal dubbio e dagli "effetti collaterali" negativi. Il metodo che chiude il campo dell’analisi ottiene sì conoscenze più ampie e più approfondite ma con un pedaggio d’insufficienza e di rischio di superficialità. A supporto è la geniale notazione di Ardigò che non si potrà mai ritenere determinante una causa perché nel ripostiglio ignorato delle altre cause possa esserci qualcuna più determinante. Il dubbio scaccia via ogni presunzione di vero e quando si crede d’aver superato il dubbio ne nasce un altro e poi un altro e poi un altro ancora. Non ci lascerà mai. Saremo sempre prigionieri del mistero che ghigna ironico sulle nostre autosufficienze. Quando si perde il senso del limite! La medicina si riscatta assumendolo e così ogni ramo della scienza e del sapere. La filosofia riesamina la solidità dei suoi plinti e dei suoi pilastri e s’accorge che la ricerca debba ancora scendere e controllare la forza di sostegno della terra alla quale s’appoggiano. Una conquista del dubbio che in iter perde l’ansietà se s’affaccia alla coscienza il senso del limite. La consapevolezza del "non sapere" o di "poter sapere poco" allevia ed a volte libera dall’ansietà del dubbio. Si agita chi dalla luce passa alla fitta nebbia non chi della nebbia fa il suo naturale habitat! Il mistero non è solo nel vocabolario teologico, il divino "absconditus", ma in ogni vocabolario del sapere. Come il credere che non è solo un atto religioso, un assenso dell’animo che porta certezza senza ricorrere al razionale; ma è uno "status animi" che entra in ogni nostro esperire portando equilibrio.

 

L’esperiente

Pur avendolo più volte incrociato e qualche volta "usato" con quel tanto di chiarimento che imponeva la logica del discorso, il termine esperiente va ripreso ed approfondito per la centralità che occupa in quest’analisi. Se l’esperia non è pura fenomenia che volteggia indisturbata nel vuoto a mò d’aquilone che spezzato il filo che lo manteneva e che lo guidava, impazzisce andando su e giù; se neanche la fatua immaginazione potrà reggerla perché essa stessa vuole esperia; infatti, seguendo la "voce" della logica essa si affida alla "categoria della casualità che offre alla pura fenomenia un legame tale da farla uscire dal vuoto d’essere in cui naviga. L’assunzione di tale rapporto genera "essere" e conferisce essere alla fenomenia che diventa "fenomeno di" e prima ancora "fenomeno da". L’origine: origine ed appartenenza. Senza queste connotazioni l’esperia non potrà liberarsi dalla semplice nominalità (che a rigore pur svuotata non perde l’aggancio all’essere per la sonorità (o per la grafia) che segnala. Ma è un essere "povero", un essere carente, incapace di significare, insignificante. Manca il referente cui appoggiarsi o collegarsi. Indicare la provenienza e stabilire l’appartenenza sono un carico d’essere di cui s’avvale la sonorità (o la graficità) per uscir fuori della semplice "nominalità". Il soggetto-esperiente fa da "supporto" e da "alimentatore d’essere" per tutto ciò nel quale è "operativamente" presente. Anche l’effimera sonorità della parola entra nel mondo dell’essere grazie al soggetto che fa da fonte d’essere. Un rilievo che si trae dal cielo del puro astratto ed è indicativo del ruolo centrale che il soggetto occupa nei processi ermeneutici. Ma è anche una prova che il puro astratto (che ha sempre a mio parere, una destinazione linguistica) sia una proiezione dell’empirico perché riporta segnalando in forma astratta ciò che avviene nella quotidiana esperienza che per sua natura è un campo di concretezza la cui caratteristica fondamentale è la singolarità della manifestazione. "Ciò che avviene" porta il timbro del soggetto nel quale "avviene". Siamo al punto nodale. L’ermeneutica si libera della soggezione platonica ed aristotelica e della grande schiera dei "fedeli" distribuiti nei tempi e recupera le sue naturali radici e il suo naturale ambiente. La cultura entra nel percepibile. Si raccoglie e si costituisce nella percezione, disprezzata e relegata nell’angolo povero dell’uomo. Una capacità improduttiva, falsante ed ingannevole, propria delle potenzialità animali. Farne uso è un disprezzarsi. Ma a confronto di che questa denigrazione? Che cosa recupera l’uomo? Qual è la prestigiosa alternativa che si pone in alto, tanto in alto il cui confronto metterebbe in luce la povertà conoscitiva della percezione? Per quello che ne sappia si può fare avanti solo la potenzialità concettuale. Quella che in atto ci permetterebbe la "visione generalizzata" degli uomini e delle cose tutte del nostro pianeta e della volta stellare che lo circonda. Il che comporterebbe la caduta o lo smussamento delle innumerevoli diversità e singolarità per tutto concettualmente uniformate. Il globo dalle infinite varietà passerebbe ad un gruppo (considerato) elitario di uniformità. Certamente il gruppo si differenzierebbe al suo interno ma sarebbe ridotto ad uno sparuto numero di entità al confronto di quello infinito offerto dall’occhio della percezione. Quella che guida ogni nostro passo nel quotidiano, che protegge ed assicura attimo per attimo l’equilibrio nella nostra esistenza. La mancanza e la devianza e l’insufficienza portano le patologie, le sofferenze, il dolore. La percezione si presenta alla vita dell’uomo con queste referenze (testimoniate e testimoniabili) dalle quali si possa evincere a buon diritto che sia "fonte di verità esistenziale", di "verità pragmatica". La "verità" che non ha bisogno di dimostrazione razionale perché s’avvale di un "forte e solido assenso interiore" che ne fa una "certezza intoccabile". Inoltre a differenza della verità logica e della serietà del suo percorso argomentativo che in sé non ha alcuna influenza sulle scelte della vita dell’uomo; quella arazionale (non irrazionale!) invece, priva d’ogni logico supporto e ricerca solo di una forte sensazione di certezza, incide efficacemente sul comportamento umano. La prova è testimoniale. E’ il sì forte e determinante che a mò di inarrestabile impulso prende e trascina imponendo l’affidabilità del dato di coscienza pur essendo privo dell’avallo razionale. Spinge con convinzione a decidere e ad agire. Gli atti decisionali vengono da questo percorso che ignora la guida razionale. Quando si crede d’essere stato convinto dalla solidità di un ragionamento, ripensandoci si scopre che "ciò che ci ha convinto" era in realtà ciò che era da tempo, latente, in qualche angolo della nostra mente. La convinzione è un’emersione alla luce della coscienza di ciò che già si possedeva. Un sapere virtuale che la ragione stimola, non crea, tira fuori dalla "latenza", l’attiva ma non la produce.

L’altro

Se si parte dal presupposto che l’"esperienza" è essenzialmente un atto di coscienza (al di là delle vie che lo inducono) e che la coscienza è di un "soggetto" o postula un soggetto e che ambedue debbano entrare nell’esistenziale concretezza per non sfocare in un’astrattezza che porta al "nulla nominalistico"; l’"altro" (che nella nostra specificità è l’uomo) entra in coscienza in quanto concreto. E per concretezza non s’intende soltanto il frutto del sensorio percettivo che "gira intorno" e ritrae ma tutto ciò che si raccoglie fluendo nell’ambito della coscienza qualunque ne sia la derivazione. Concretezza non è tout court una caratteristica della realtà. Non è sinonimo di realtà come avviene o viene assunto nella comune parlata. Il "concreto" è tutto ciò che cade nella coscienza. Questo semplice cadere, questo essere dato porta tout court concretezza. Il fatto che cada nella coscienza questo "ciò" non potrà essere che "concreto" perché la coscienza che l’accoglie e lo fa suo è una concretezza esistenziale, è una coscienza empirica. Il dato, qualunque sia la sua provenienza, dalla percezione sensoriale alla fantasia più accesa, è empiricamente connotato. Come tale non potrà essere un’astrazione. Se fosse non potrebbe abitare nella coscienza se non nella pura sonorità della parola. Quella che percepirebbe l’asino: una pura emissione di suono. E’ la sorte di ogni parola priva di referente. Il supporto al quale demandare e dal quale prendere significato. Il dire della parola è indicare, presentare, svelare ciò che si nasconde nell’orizzonte della nostra coscienza, per gli altri partecipi di ciò che avviene dentro di noi.

L’intenzione della parola è portare il soggetto a relazionarsi con l’altro per farsi conoscere. Esprime l’esigenza del porsi, dello scoprirsi, del trasparire. La parola è un segno di socialità. Dice che l’uomo è tra gli altri. Non è solo. Qui ci si innesta nella centralità del tema. La parola postula l’altro. La parola rivela un bisogno d’altro. Ma è solo la superficie e se qui si ferma, si sperde nel suono. Dice nulla se non che all’altra parte c’è qualcuno o qualcosa. E’ tutto qui. Dice qualcosa se si collega, se s’accompagna, se si muove insieme, se veste un corpo. Se assume il compito del riferimento di un qualcosa. Quale? La risposta è nella testimonianza di chi parla, di chi usa la parola. Aggancia la parola ad un qualcosa che ha dentro e che preme per essere portata fuori. Ciò che si ha dentro è un "dato d’esperienza". E qui si è nell’ovvio. Quale "altro" non c’è o non si sa. Il concetto s’inserisce ma non è un "dato interno". Fa parte del regno dei segni a meno che non si vagheggino –come si notò- le idee o le Forme di Platone che tanti ripugnano a parola ma scorrono silenti nel sotterraneo dei loro discorsi. Tirano i fili da sotto, nascosti operatori a mò di talpa, provocando vuoti d’incoerenza e d’ambiguità. Ogni parola argomentativa non regge ed è inutile. Ognuno di noi s’avvede osservandosi. Non si riesce a pensare al concetto! Non è qualcosa d’assimilabile per farne una conoscenza. Nessun ragionamento occorre addurre a prova. La prova è nella constatazione e che è forte per la sua ripetibilità, attivabile in ogni momento. Quando noi diciamo "mela", diciamo il concetto di "mela", diciamo non pensiamo. Il pensare supporta il dire. E’ il significare del dire che lo riscatta dal "vuoto" terminiamo. Un significato che viene raccolto e scelto al mercato dell’esperienza e non ad un immaginario mercato di concetti. Nessuna teoria è a retro. La si può inventare ma non serve per aver certezza. E’ colui che parla che fa da testimone e che dà certezza. Quando si dice "mela" s’intende tutte quelle mele che si son viste e se mai mangiate. Quelle che ho toccato con le dita, che ho mangiato, che ho visto nella sporta del fruttivendolo o pendenti dall’albero. Questo materiale d’esperienza fa da base e da riferimento per l’astrazione concettuale sulla quale viene forgiata la parola "mela". Un’operazione che affida al concetto in quanto tale la funzione del rimando, la funzione di segno di un dato empirico che fa da referente. In questa articolazione di rapporto il pensare come tale non è il prendere coscienza di un concetto ma del referente empirico cui il concetto si riferisce. Se mancasse questo rimando, se mancasse il dato di pertinenza, perdendone il legame, la parola cadrebbe nel vuoto della pura sonorità in chi la usa e in chi l’ascolta. Chi la usa cadrebbe o farebbe solo da ripetitore fonico mentre chi l’ascolta non capirebbe nulla acquistando solo una vibrazione auricolare. Ancora una volta vado fuori del teorico e chiamo noi a testimoniare. Supponga chi legge di udire la parola "mela" non capirà nulla se non l’ha mai visto. Ciò che significa che l’esperienza della "mela" è la condizione indispensabile per intendere la parola. Non s’esclude una quota d’intendibilità – che resta comunque superficiale ed approssimativa – acquisibile con la descrizione analogica – ma anche l’analogia è portatrice di dati d’esperienza. Quando si vuole spiegare "che cosa è il mare" a chi non l’ha mai visto didatticamente si usa il paragone di una piscina, di un pantano, di una bacinella immaginativamente allargate all’infinito. Dunque si parte da un’altra esperienza! Si dice che il cieco possa ricevere la conoscenza di ciò che gli è intorno attraverso la parola concettuale. Ma quale conoscenza ne deriva? Quei ciechi che hanno la fortuna di recuperare la vista sono letteralmente scioccati dalla notevole differenza tra quello che "pensavano" e quello che avevano davanti. Perché questo shock (per taluni di una tale gravità di disorientamento da portare al suicidio!) dinanzi alla differenza? Perché il contrasto è così forte da lacerare l’equilibrio? Se l’uomo è dotato di due potenzialità conoscitive, la razionale (il cui materiale edilizio è il concetto) e la percettiva e se ambedue fanno parte della dinamica costitutiva dell’uomo finalizzata a conservarne l’equilibrio, dovrebbero per sé assicurare non sono una pacifica correlazione ma anche un’integrazione unitaria. Eppure il disorientamento provocato è sconvolgente. Quale il motivo? La realtà è ben altra. Ed anche semplice! Il cielo non si muove, né vive in un ambiente concettuale fatto di cose "universali" ma al contrario, come tutti i vedenti, vive in ambiente interamente costruito di cose singole. Lo sbandamento che patisce all’acquisizione della vista non nasce dal contrasto tra una visione concettuale del mondo e quella che percepisce da vedente perché non esiste un mondo concettuale dato dalla "parola" ma solo un mondo dato dalla percezione. Il contrasto che disorienta il "cieco" divenuto vedente è all’interno della sua visione percettiva del mondo, prima insufficiente e deformata per la mancata percezione visiva, dopo si completa, si ricompone, si trasforma per l’apporto visivo. E’ questo improvviso mutamento che traumatizza. La concettualità non dà e non tocca. La sua prestazione s’esaurisce nel linguaggio. Le grandi costruzioni fanno parte del mondo dei segni che non sono realtà ma semplici indicatori. Confondere il segno con la realtà, farlo tutt’uno è il grave equivoco della nostra civiltà della Ragione al quale ha contribuito pesantemente ogni filosofia cresciuta nell’orto del logos. Anche qui il ragionamento è vano. Ancora la prova è nella ripetibile testimonianza di ognuno di noi che vedendo tutto al singolare non potrà mai immaginare un mondo di universali. Se c’è risulta in conoscibile e se c’è la parola la conoscenza si ferma alla sensorialità. Così l’opinione che l’universale entri solo nel regno dei segni diventa forse l’unica ragione della sua esistenza.

 

L’esperienza dell’altro

Tutte le considerazioni fatte fanno da filtrante lambicco della proposizione presa in esame. La sciolgono dall’astrattezza segnica e la portano diritto al contenuto che non è quello concettuale (anch’esso segnico!) ma quello empirico. Ma il filtraggio non si ferma qui evitando la trappola di una ulteriore astrattezza perché postula il riferimento ad un soggetto che se ne impossessa spogliandolo della sua logica astrattezza. Il filtraggio diventa sempre più un processo di concretezza che è poi un "rifiuto del carattere conoscitivo della Ragione" e l’accettazione della "percezione" (in senso più ampio del sensoriale) come facoltà di conoscenza. La realtà diventa un insieme di entità singole. Il soggetto diventa un singolo che "riceve e trasforma" nella "forma della sua singolarità". Il "dato empirico" diventa un "proprio", un "qualcosa di sé". Una fenomenia diversa secondo la diversità del "soggetto" (2) come la stessa acqua che prende tante "forme" quante ne hanno o ne possono avere più contenitori. L’analogia più affine è quella biologica del metabolismo che rende meglio il processo di singolarizzazione dell’esperienza. L’esperienza dell’altro entra in questa dinamica d’assimilazione e d’appropriazione perdendo l’altro un "pezzo" della sua alterità.

 

Cosa diventa l’ "altro"

Se si esclude che il "soggetto" possa "esperire l’altro" lasciandolo immutato nella sua identità originaria, intoccato dalla minima forma d’adattamento. (Ciò che ne farebbe pura fenomenia navigante nel "vuoto" perdendo anche in fantasia un certo appoggio d’essere!). Se si esclude, scansando la concessione idealistica, la possibilità umana di contattare la "realtà in sé" senza la mediazione rappresentativa, resta l’ipotesi forte per l’avallo della testimonianza della percezione che l’oggetto altro tra i tanti presenti alla coscienza ed altro esterno al soggetto della coscienza, vengono immersi nell’ "impasto culturale" proprio del soggetto per riemergere con una propria "rappresentazione". L’ipotesi più accreditata è quella della "soggettivazione" rappresentativa venendo a mancare nell’uomo la capacità di confrontare in riferimento ad una "realtà in sé" per trarne veridicità di "ciò che è presente alla sua coscienza. L’enigma kantiano del "noumeno" – se si eccettua la "creatività teologistica" dell’idealismo – resta e resiste nei percorsi teoretici postkantiani. Ed ancora perdura in clima postmoderno ove il "soggetto" si scarica della sua "universalità" logica e linguistica per assumere una "singolarità" propria del regno della percezione. Il "regno della Natura"! Ove gli uomini (e tutte le altre cose) si distinguono esibendo ognuno una connotazione inconfondibile. Una constatazione ovvia e solare! Il "regno della percezione" non conosce il doppione ma solo l’originalità dell’unico interpretativamente maltrattato nell’Ottocento come sinonimo d’assoluto o come la più alta espressione dell’egoismo ontologico.Un fraintendimento che non fa onore alla criticità della filosofia. Tuttavia l’atto dell’esperire l’altro, l’atto dell’intenderlo comporta da un lato il rafforzamento dell’individualità del "soggetto" e dall’altro nell’oggetto un "assorbimento metabolico" che lo aliena. L’intendimento è reso possibile con l’assimilazione dell’oggetto che da "altro" diventa un "proprio" dell’intendente, un qualcosa di sé. L’alterità scompare per diventare tutt’uno con il soggetto. Un identificarsi che trova riscontro in due delle norme più alte del vangelo: "Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te" e "ama il prossimo come te stesso". In ambedue la dinamica è assimilatoria. Gli "altri", il "prossimo" fanno da "alter ego" assumendone potenzialmente lo stato d’animo con le sue reazioni. Nella prima ci s’immedesima al punto da "sostituirsi" all’altro comportandosi "come se questi non ci fosse" come se agissi su me stesso! La scomparsa dell’altro diventa un percorso etico, una morale, un’ascesi, una virtù. L’io (e nel caso il tu) facendo dell’altro un sé che agisce su sé, fa all’altro quello che vorrebbe fosse fatto a sé. Cade l’alterità dell’altro. L’esperienza dell’altro è resa possibile con l’assimilazione. La stessa diversità che caratterizza il regno della percezione nell’atto dell’esperire si spunta e si uniforma al "soggetto esperiente". Il procedimento metabolico non è proprio del biologico ma si estende allo psicologico. L’esperienza dell’altro è una "funzione metabolica" della mente che da un lato cancella l’essere "altro" e dall’altro lato concede in sostituzione la "diversità" dell’io metabolizzatore. Così l’esperire diventa un atto assimilatorio per il quale scompare l’oggettività del dato per farsi "soggettivo". (Termini che comunque andrebbero aboliti perché a rischio nominalistico. Se l’oggettività "staccata" dal soggetto (conoscente) non è pensabile, non potrà neanche essere formulata perché ne manca la conditio. Il tutto si sperde nel nulla. Ai termini mancano i supporti per esserci. Il porsi s’esaurisce nella grafica o nel sonoro della "parola". E’ il caso di mettere il punto a queste vaganti notazioni che hanno mirato tutte a "scartare" il vecchio involucro semantico della nostra proposizione l’esperienza dell’altro scoprendone l’inconsistenza lasciando intatto l’interno fulcro che è dato dal "singolo esperiente".

Note:

(1) Queste considerazioni che possono sembrare inutili ed estranee in realtà vogliono segnalare l'aria di precarietà che accompagna ogni tentativo teoretico. Segnalano con fugace approssimazione (un approfondimento sistematico avrebbe portato fuori!) la "debolezza" del terreno su cui costruire l'analisi del tema assunto. Ciò equivale ad una confessione di una pura e semplice opinabilità nonostante l'impegno argomentativo. Considerazioni che hanno l'alibi delle sortite ma non mancano delle affinità al tema. Insieme costituiscono -come si vedrà- un contesto 'catalizzatore'. Al momento è solo una latente potenzialità che comunque genera quell'aria di sospetto che toglie alla ragione il monopolio della conoscenza.

(2) Certamente non sfuggirà la difficoltà di trovare i termini adatti per trattare dell'individualità come tale. L'incompatibilità del singolo con l'universale si fa vedere. Ma non sussisterebbe se si tenesse ferma la differenza di piano tra segno e differenza.