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Ermeneutica e traduzione.
L'altro, lo straniero, l'ospite

di Domenico Jervolino

 

Una delle tre direzioni nelle quali va ricercato il senso del greco hermeneuein, accanto ad "affermare, esprimere" e a "interpretare, spiegare", è "tradurre, fare da interprete", come sottolinea lo Ebeling nella sua nota voce enciclopedica "Hermeneutik" (1). Peraltro, nella sede di questo nostro convegno, l'accostamento fra "ermeneutica" e "traduzione" non risponde tanto all'esigenza di una storia del termine, che è stata già fatta prima e meglio di quanto io non possa fare di nuovo; mi propongo, piuttosto, di accostare due fenomeni così come sono colti nell'esperienza comune e caratterizzati nel linguaggio ordinario : la pratica del tradurre in tutte le sue forme e l'interpretare come oggetto di riflessione teorica che nel nostro secolo ha assunto un ruolo sempre più centrale nella filosofia o quantomeno in rilevanti espressioni della filosofia dei nostri tempi, con l'ambizione di essere assai più di un'arte ausiliaria, anzi di presentarsi come una disciplina fondamentale e universale, qualcosa come l'antica filosofia prima.

Fino a che punto tali ambizioni siano fondate, lo lasciamo per ora da parte. Ci concentriamo invece sul fatto che il tradurre costituisce quantomeno una delle pratiche interpretative di cui l'ermeneutica filosofica rappresenta l'elaborazione teoretica. Il nostro problema è di vedere fino a qual punto il tradurre possa far luce sull'interpretare in quanto tale. Possa essere, in altri termini, un esempio illuminante, un paradigma per una filosofia del linguaggio e dell'interpretazione. Dico: del linguaggio e dell'interpretazione, perché il linguaggio nel senso più ampio della parola è il primo presupposto di ogni possibile interpretazione, in quanto solo ciò che viene al linguaggio può essere interpretato. Non nel senso che le espressioni linguistiche siano il solo oggetto dell'interpretare e che quest'ultimo si chiuda nell'ambito del linguaggio, che diventerebbe così una sorta di prigione magari dorata dalla quale sarebbe poi difficile uscire. Ciò che è linguisticamente mediato è tutto ciò il linguaggio dice, quindi ciò che è altro dal linguaggio, ciò di cui si parla quando si parla, e si ascolta, si scrive e si legge (o si tenta di....). Questo altro dal linguaggio è la posta in gioco dell'interpretazione : essa può essere ulteriormente caratterizzata come l'insieme delle "cose" o dei fenomeni che ci circondano, in mezzo a cui siamo, che si manifestano nella nostra esperienza e nella nostra vita, e fra queste cose o fenomeni noi stessi e gli altri con cui parliamo o di cui parliamo.

Un vecchio adagio, che peraltro richiede almeno una chiosa (2), afferma : in claris non fit interpretatio. I fenomeni, e noi fra essi, hanno bisogno di essere interpretati proprio perché essi non si manifestano in compiuta chiarezza, perché il loro senso è almeno parzialmente indeterminato, ma anche perché possono essere portati a chiarezza e apparire per quello che essi sono nella loro verità, per quanto limitata, parziale, perfettibile, ma che è comunque altra cosa da una vana apparenza o da un mero gioco di specchi (interpretazioni che non sono altro che interpretazioni di interpretazioni e così all'infinito...). Ed è proprio il fatto che le cose possano essere "nominate" che custodisce e attesta la loro verità (umana e non assoluta, un gioco di luci e ombre, per riprendere la metafora della luce). La parola è allora l'arca nella quale le cose sono custodite, l'arca che offre ospitalità alle cose del mondo, secondo l'interpretazione del mito biblico (Adamo che assegna a ciascuna cosa il suo nome, l'arca di Noè che salva una coppia di ogni specie vivente) da parte del fenomenologo francese Jean-Louis Chrétien (3).

Il nome biblicamente come arca o, se si preferisce, aristotelicamente come entelechìa del fenomeno, secondo la felice formula del discepolo russo di Husserl, Gustav Špet (4).

Il linguaggio dunque come mediazione necessaria e non necessitante tra uomo e mondo, come venir alla luce contemporaneo dell'essere detto o dicibile delle cose e del poter dire dell'uomo, come inaugurazione di una vita significante, come lumen naturale del quale si può dire in modo fenomenologicamente corretto che illumina ogni uomo che viene al mondo e che grazie ad esso ogni fenomeno av-viene, acquista visibilità, nel mondo.

Eppure, se tale è la funzione del linguaggio, il linguaggio stesso non esiste al di fuori di una pluralità di lingue, che si presenta a prima vista come dispersione disarmante e irrimediabile. Un solo linguaggio, molte lingue. Migliaia di lingue, ancor più numerose se si contano, oltre le lingue oggi viventi e le loro varianti, le lingue morte e tra le morte quelle scomparse senza lasciare tracce o solo tracce minime della loro esistenza passata. La tentazione di risolvere questa antinomia speculativamente attraverso una dialettica concettuale fra le categorie dell'uno e dei molti, non è certo ignota alla storia del pensiero. Frutto di questa dialettica, l'idea di una lingua perfetta o universale, che rappresenterebbe l'essenza pura della lingua, al di là delle innumerevoli particolarità delle lingue storiche. Ma queste ultime restano e la loro diversità irriducibile condiziona e dissolve ogni sogno di purezza ideale.

E qui, in questo iato fra linguaggio e lingue (un'opposizione esprimibile con immediata evidenza in italiano e in altre lingue neolatine, che in altre lingue si condensa per così dire in una sola parola, ma che comunque riesce ad essere pensata ed espressa in vario modo), è in questo iato che s'inserisce la pratica e la problematica della traduzione.

Qui, come filosofi, abbiamo tutto da imparare dalle dotte analisi di linguisti e semiologi, storici delle lingue e delle culture, filologi antichi e moderni, romanisti, germanisti, slavisti, orientalisti, storici e teorici della letteratura e della critica letteraria, esegeti della Bibbia ebraica e cristiana, commentatori del Talmud e del Corano, antropologi e storici delle religioni, ecc. che ci forniscono ormai una bibliografia amplissima, una storia articolata dei termini, una semantica della traduzione e del tradurre. Fare dei nomi significherebbe rischiare di peccare per omissione. Ma forse si può rischiare di citare almeno uno per tutti, un autentico classico dei nostri giorni in tale materia, quale è After Babel di George Steiner, del 1975, la cui seconda edizione inglese, sulla quale è condotta la traduzione italiana che utilizzeremo, risale al 1992. Nel frattempo il testo inglese è stato ripubblicato nel 1998 (5).

Si può parlare, nella seconda metà del Novecento, ormai di una vera e propria scienza della traduzione o traduttologia, o quanto meno, più prudentemente, di un campo di Translation Studies, con antenati illustri da Cicerone a Lutero, e, più vicini a noi, Goethe, Humboldt e Schleiermacher, una disciplina o un'area disciplinare che avrebbe, se lo volesse, anche un patrono celeste in san Gerolamo, autore, oltre che della Vulgata, dell'epistola a Pammachio De optimo genere interpretandi.

Se si accetta l'idea di una scienza della traduzione nata solo negli anni Quaranta del nostro secolo (e io qui sarei tentato di sottolineare la presenza di un paradigma di tipo comtiano del passaggio dalla filosofia alla scienza) o comunque se si prende atto dello straordinario sviluppo degli studi contemporanei sulla traduzione, bisogna comunque aggiungere che essi sono preceduti da una lunga fase storica nella quale si trovano importanti meditazioni sull'argomento, senza però la pretesa di costituire una disciplina specifica : gli ultimi grandi battitori liberi della riflessione sulla traduzione quindi sarebbero nel nostro secolo Croce e Ortega (Miseria y esplendor de la traducción), Rosenzweig (con la nota affermazione : "Il traduttore è servo di due padroni") e Benjamin (col suo mirabile saggio su Il compito del traduttore e il suo concetto messianico di una lingua pura di cui noi riusciamo solo a cogliere qualche brandello).

"La traduzione, scrive Gianfranco Folena, è una forma fondata sull'arbitrarietà e sulla bipolarità del segno linguistico, cioè sulla tensione fra due funtivi, nel senso che solo il significato è trasmissibile in lingue, e anche in certa misura, in sistemi semiotici diversi mediante nuovi significanti, in base al principio della non equivalenza delle singole unità costitutive e della equivalenza complessiva dei messaggi (equivalenza non significa identità neppure per il senso) nei codici diversi. La forma più immediata ed elementare di traduzione [...] è quella orale, reversibile, impostata sulla comunicazione a tre, dove fra gli interlocutori, emittente e destinatario, si situa l'intermediario, o fra due messaggi equivalenti, quello dell'emittente e quello del destinatario, un commutatore dei due codici rispettivi. Nella tradizione occidentale il tecnico della traduzione orale ha ricevuto per lo più un nome speciale, che poi è stato esteso anche alla fenomenologia scritta e culturale : in greco hermeneus, parola attestata fin da Pindaro, che ha resistito a tutti i tentativi 'ermeneutici' e resta di etimo misterioso anche nei suoi collegamenti col nome di Hermes, Ermete, in cui qualcuno volle vedere il dio interprete, mediatore ; e sembra attinta ad una lingua dell'Asia Minore, dove i Greci così poco aperti con pochissime eccezioni al plurilinguismo e al riconoscimento delle lingue 'barbare', giudicate inferiori e inintelligibili, vennero dapprima e più intensamente in contatto orale con lingue di struttura tanto diverse. Il dinamismo semantico della famiglia di hermeneus poggia su questa base, col senso di una penetrazione profonda dell'ignoto. Invece il latino interpres -etis è originale elaborazione di materiali latini (il secondo elemento del composto è certamente connesso con pretium), proveniente dalla sfera economico-giuridica, cioè in origine 'mediatore, sensale, arbitro del prezzo'[...]" (6).

Il Folena sottolinea, nel suo dottissimo contributo, che costituiva originariamente una relazione a un convegno triestino del 1973, che per la traduzione scritta il quadro terminologico-culturale è assai più complesso e che è caratterizzato e reso dinamico dal rapporto fra traduzione e tradizione, antico e moderno. Il problema della traduzione scritta è più importante perciò per i Latini che per i Greci, proprio perché i primi avevano un problema di rapportarsi all'eredità greca : così avverrà tutte le volte che ci si porrà il problema di un rapporto con una cultura altra, piuttosto che affermare orgogliosamente la propria autosufficienza. Molte grandi letterature moderne in effetti hanno richiesto prima di affermarsi un enorme lavoro di traduzione dai classici o da lingue straniere già accreditate.

Di qui anche il definirsi nell'ambito della latinità di una molteplicità forme verbali specifiche per il tradurre per iscritto, come vortere o vertere, coi derivati convertere e transvertere, imitari, exprimere, reddere, mutare, transferre. Quest'ultimo dà origine ai derivati participiali romanzi translatare, translater, di cui avvertiamo l'eco ancora oggi nell'inglese to translate. La complessità di questa rete di forme verbali è accentuata dal fatto che viene usato per la traduzione scritta per estensione anche interpretari e la relativa famiglia.

Di qui ancora il definirsi di due campi semantici vicini ma non identici in italiano come in altre lingue moderne per la traduzione orale e quella scritta. Nel senso professionale dei due termini ancora oggi nell'italiano corrente - e non solo in esso - l'interprete e il traduttore sono figure diverse. E' sempre il Folena ad aver valorizzato la figura dell'umanista quattrocentesco Leonardo Bruni, come il primo trattatista moderno della traduzione col suo De interpretatione recta (ca. 1420) e come colui che introduce il termine di "traducere" per indicare un concetto unitario di traduzione. Il Mounin, dal canto suo, rileva che il termine di traducteur in francese è un italianismo, usato per la prima volta nel Cinquecento dall'umanista Etienne Dolet (7).

Questa storia semantica ci conduce alle soglie della Modernità. Non possiamo certo dimenticare il ruolo determinante, che abbiamo già evocato sopra, svolto da grandi traduzioni per la nascita e lo sviluppo delle identità linguistiche e nazionali dei Moderni. La Bibbia di Lutero costituisce un esempio insigne di tale funzione, ma non è il solo. Si potrebbero ancora ricordare altre grandi traduzioni della Bibbia (quella ceca dei Fratelli Moravi, la Bibbia di Ginevra, the King James Version in Inghilterra), ma anche le traduzioni dei classici antichi e degli autori moderni di maggiore prestigio (e il ruolo formativo che tali traduzioni ebbero, ad esempio, nel caso della Germania, nel periodo fra Illuminismo e Romanticismo). Da questa storia si potrebbe concludere che il problema della traduzione è un problema moderno per eccellenza che si confonde con quello della Modernità. Ma la coscienza moderna non è soltanto l'affermazione dell'autonomia dei Moderni in relazione agli Antichi. Essa non nasce soltanto per la duplice appropriazione di una autenticità cristiana evangelica e della lezione dei Classici con un convergente effetto di emancipazione umana. La nascita della Modernità è legata, nella coscienza europea, in un modo più stretto di quanto noi siamo disposti a riconoscere, all'incontro con l'altro extra-europeo. I grandi viaggi, le grandi scoperte, le conquiste violente degli altri continenti ci pongono dei problemi di traduzione in un senso più ampio e più drammatico. Ricordiamo, per completare questo quadro problematico che il 1492 è nello stesso tempo l'anno della scoperta dell'America (e avvio della sua conquista) e l'anno della conquista di Granada (compimento della Reconquista cristiana della Spagna ) e dell'espulsione degli Ebrei dala Spagna; esso coincide dunque con la rimozione dall' identità europea - almeno dall'identità di una certa Europa - di un "altro" che tuttavia resta silenziosamente presente nella sua assenza.

Questo groviglio di problemi è legato alla questione filosofica della traduzione in tutta la sua ampiezza. Dal nostro punto di vista, dopo cinque secoli di storia moderna, la questione della traduzione manifesta la sua complessità a motivo della tensione immanente al concetto stesso di traduzione, nel quale si può distinguere un senso ampio e uno ristretto: parlare è già tradurre e inoltre v'è il dato della pluralità delle lingue. Si è tentati di dire che v'è pluralità delle lingue perché noi siamo originariamente plurali.

Ritorniamo ai nostri giorni, e in particolare allo Steiner : nel suo grande volume sulla traduzione troviamo un concetto allargato della traduzione : "Ogni modello di comunicazione è al tempo stesso un modello di tra-duzione, di trasferimento verticale o orizzontale di significato. Non vi sono due epoche storiche, due classi sociali o due località che si servano delle parole e della sintassi per significare esattamente le stesse cose, per inviare segnali identici di valutazione e deduzione. E nemmeno due esseri umani. [...] Si parla per comunicare. Ma anche per nascondere, per non dire. La capacità degli esseri umani di trasmettere informazioni errate o inesatte possiede un ampio spettro di variabilità dalla menzogna esplicita al silenzio. Tale capacità si basa sulla struttura duale del linguaggio : il nostro discorso esterno ha 'alle sue spalle' un flusso corrispondente di coscienza articolata. [...] Nella maggior parte degli scambi sociali convenzionali, il rapporto fra queste due correnti di discorso è solo in parte congruente. Vi è doppiezza. [...] Un essere umano compie dunque un atto di traduzione, nel pieno senso del termine, quando riceve un messaggio verbale da qualsiasi altro essere umano" (8).

Una consapevolezza acuta della difficoltà e della problematicità del tradurre attraversa la grande opera dello Steiner. La traduzione in senso stretto, da lingua a lingua, conferma e rafforza una problematicità che è immanente in ogni scambio di significato, nella traduzione in senso largo. Il numero enorme delle lingue e la loro diversità costituiscono un vero spreco per una umanità che è invece sostanzialmente omogenea dal punto di vista biologico e psicosomatico.

Ci troviamo di fronte a una vera e propria galassia di lingue che non risponde ad alcun principio definibile e contraddice i più elementari criteri di economia. Né la dispersione geografica costituisce un criterio ordinatore o una motivazione plausibile. Lingue parlate da una sola tribù, da un solo villaggio, incomprensibili ai popoli vicini. La polverizzazione linguistica degli umani sembra un enigma tale da rendere in qualche misura plausibile il ricorso a spiegazioni mitiche, come quella della biblica Babele che trova riscontro in altri miti analoghi presso altre culture.

Babele, quindi, come condanna alla confusione e alla dispersione, prezzo del peccato di orgoglio, nuova cacciata dall'Eden di una lingua unica, di una comunicazione senza intoppi. Babele come disastro originario, anche se il potere formativo della lingua, la sua forza poetica e creativa, di cui riusciamo a cogliere come delle scintille o degli sprazzi di luce tutte le volte che si ha comprensione, fa sì che il disastro diventi - secondo l'etimo suggerito da Steiner - una "pioggia di stelle" sull'umanità.

La traduzione diventa una sorta di rimedio rispetto a una condizione decaduta dell'umanità; essa nasce da un atto di fiducia iniziale: qui c'è un senso da recuperare. Una fiducia che può terminare nello scacco: qui non c'è nulla da capire. Ma, comunque, il seguito della fenomenologia della traduzione assume sempre più l'andamento di un conflitto, di una guerra. Alla fiducia, infatti, segue l'aggressione : la seconda mossa del traduttore è un atto di incursione e di estrazione : la comprensione dell'altro come atto intimamente violento (qui Steiner richiama Hegel e Heidegger, ma anche San Gerolamo che ricorre alla metafora del significato fatto prigioniero e riportato a casa dal traduttore). La terza mossa è l'incorporazione dell'altro nel nostro mondo linguistico e culturale. Qui il tradurre si rivela ancora più pericoloso e violento: a questo punto siamo sbilanciati, abbiamo sottratto qualcosa all'altro e l'incorporiamo in ciò che ci è proprio. Occorre compensare questo sbilanciamento: "L'atto ermeneutico deve essere compensativo. Se vuole essere autentico deve trasformarsi in scambio e ristabilire la parità. L'attuazione della reciprocità per ristabilire l'equilibrio, deve trasformarsi in scambio e ristabilire la parità. L'attuazione della reciprocità per ristabilire l'equilibrio è il fulcro del mestiere e della moralità della traduzione" (9). "La traduzione ristabilisce l'equilibrio tra se stessa e l'originale, tra la lingua originale e la lingua d'arrivo, equilibrio spezzato dall'attacco e dall'appropriazione interpretativa del traduttore. Il paradigma della traduzione rimane incompleto finché non si raggiunge la reciprocità, finché l'originale non ha recuperato quanto ha perduto" (10). Questo compito alla fine si rivela pressoché impossibile: si può sbagliare per eccesso o per difetto. La disamina delle traduzioni inglesi del brano omerico in cui Priamo va da Achille a chiedere le spoglie di Ettore è un pezzo di bravura che mostra tutta la grandezza del critico e storico della letteratura. La conclusione di Steiner è che la traduzione perfetta non esiste, ma che ci sono degli esempi di traduzione che si avvicinano alla perfezione.

Questa conclusione quasi scettica a livello della traducibilità della grande poesia viene in qualche modo recuperata dallo Steiner ritornando a un concetto allargato di traduzione : il linguaggio, la cultura, la comunicazione sono in effetti processi di traduzione, che comportano o la trasformazione di messaggi entro lo stesso sistema di segni verbali (in questo caso parliamo con Jakobson di "riformulazione", rewording) oppure il passaggio da un sistema di segni verbali a un sistema di segni non verbali (ciò che Jakobson chiama transmutation, transmutazione). L'ermeneutica comporta lo studio della traduzione, della sua possibilità e dei suoi limiti. Eppure una teoria, in senso stretto, della traduzione non c'è per Steiner, vale a dire per l'autore di quello che può considerarsi probabilmente la più importante opera sulla traduzione del nostro secolo. La traduzione è per lui - con una espressione volutamente paradossale che riprende da Wittgenstein - un'arte esatta. Ogni lingua è un mondo possibile, nella lingua si realizza come una trasfigurazione del destino biologico, mortale dell'individuo. Tutti i tentativi di giungere all'uniformità - dal formalismo estremo di certa linguistica generativa a quello che egli chiama l'esperanto angloamericano che invade il mondo tardocapitalista - sono da lui fortemente criticati. Resta l'immagine della pioggia di stelle sull'umanità. Un'immagine di bellezza, che ricorda un po' la "nostalgia del totalmente altro", l'utopia della lingua pura, perfetta, pre-babelica nel mondo post-babelico.

Ma la lettura del mito di Babele che vede nella molteplicità delle lingue una condanna e una maledizione è la sola possibile ? Oppure si dà una possibilità di intendere positivamente la pluralità delle lingue, a partire da una lettura diversa dello stesso racconto biblico ? Il pluralismo linguistico non sarebbe, allora, una condanna e una maledizione, ma significherebbe la rinuncia al sogno totalizzante di una lingua perfetta (e di una traduzione globale e, per così dire, senza residui). La parzialità e la finitezza delle singole lingue diverrebbe, allora, non un ostacolo insormontabile, ma la condizione stessa del comunicare possibile fra gli umani. In tale direzione va il bel libro di François Marty, che pur comportando una reinterpretazione del testo biblico, è un lavoro fondamentalmente filosofico di meditazione sulla natura del linguaggio (11) e, in modo più problematico, il denso contributo postumo del grande studioso francese di poetica e di storia letteraria Paul Zumthor (12).

È significativo che il saggio di Marty si apra con la citazione della pagina iniziale della Dottrina trascendentale del metodo della Critica della Ragione pura nella quale Kant accenna al racconto di Babele, invitando gli esseri umani a rinunciare alla pretesa di costruirsi una torre per accontentarsi di una abitazione più modesta, ma sufficiente ai loro bisogni. Jaspers nel suo volume I grandi filosofi riprende questa pagina kantiana, alla fine del lungo saggio su Kant, dicendo del filosofo di Könisberg che egli si è costruita una casa ai margini della strada per riposarvi, ma che né lui né noi dobbiamo fermarci per sempre in essa, ma dobbiamo riprendere il nostro cammino (13).

Siamo riportati dunque dalla trasgressione superba del limite simboleggiata dalla torre, alla modestia dell'abitare e alla perseveranza della vita come cammino, alle due immagini della casa e della via, evocanti la finitezza spaziale e temporale della condizione umana. Duplicità di dimensioni che si ritrovano, nel linguaggio, nella duplicità dell'asse del sintagma e dell'asse del paradigma. Bipolarità strutturale del linguaggio che diventa empirica pluralità delle lingue, al limite dei singoli individui parlanti come monadi che pure comunicano fra di loro.

Qui si potrebbe ricordare un saggio di Ricoeur del 1971 su "Discorso e comunicazione" in cui si afferma che la comunicazione intermonadica se per il linguista e gli scienziati del linguaggio è un fatto, essa diventa un enigma per il filosofo che deve ricostruire pazientemente, partendo da una messa in questione radicale (che fa rivivere, a mio avviso, il gesto dell'epoché fenomenologica) ciò che si comunica - il significato, con i suoi vari strati - senso e referenza, gli atti linguistici, le intenzioni noetiche, in breve ciò che con Beneveniste e Ricoeur possiamo chimare l'íntenté, l'intento, del discorso, la parte intenzionale della vita - sullo sfondo di ciò che non può essere comunicato perché è ciò che della vita è singolarità irripetibile, e che Ricoeur chiama lo psichico (14).

Finitezza dell'umano, bipolarità del linguaggio, unità in tensione fra singolarità e intenzionalità del vivere : forse tutte facce diverse della stessa realtà, nelle quali si ripropone continuamente la dialettica dello stesso e dell'altro, dell'altro nel cuore stesso dello stesso.

Bipolarità del linguaggio, bipolarità dell'umano: con Maine de Biran potremmo ripetere: Homo simplex in vitalitate, duplex in humanitate.

Alla ricerca di questa tensione bipolare - bipolarità che è propria a una dialettica finita, che trova sempre solo mediazioni imperfette, che non si chiude in sintesi definitive, possiamo fare una troppo rapida carrellata presso i grandi linguisti del nostro secolo: ricordiamo le celebri distinzioni antitetiche di Saussure, langue e parole, signifiant e signifié, diacronia e sincronia, sintagma e paradigma, riformulate in vario modo da Hiemslev, espressione e contenuto, forma e sostanza, Jakobson, asse del sintagma e asse del paradigma, Benveniste, linguistica della lingua e linguistica del discorso, dimensione semiotica e dimensione semantica - il Marty ispirandosi all'opera di Edmond Ortigues Le discours et le symbole riconduce il tutto alla tensione fra un polo della determinazione e un polo simbolico, rispettivamente al rapporto fra significante e significato e al rapporto dei significanti fra di loro, e in ultima analisi richiamandosi a Kant alla tensione fra il sensibile e l'intelligibile, e quindi al fatto primordiale per cui il linguaggio fa senso con ciò che di per sé non ha senso (15). Questa dualità tensionale trova riscontro, a suo avviso, nel cuore della riflessione analitica del linguaggio nella dualità dell'opera di Wittgenstein letta nel suo complesso e in modo unitario, dualità fra struttura logica del linguaggio e molteplicità dei giochi linguistici, e, dopo Wittgenstein, nella dualità di constatativo e performativo nella teoria degli atti linguistici.

Tale meditazione sulla dualità è importante per il nostro assunto perché essa ci conduce alla necessità del pluralismo linguistico, non solo come pluralità delle lingue, ma anche come necessaria pluralità degli attori linguistici.

La benedizione di Babele è allora la rinuncia a una lingua unica, che disconosce le differenze, così come al mito di una traduzione senza residui, che, se fosse realizzabile, sopprimerebbe la alterità dell'altro.

Di contro alla pluralità e diversità delle lingue, che è un ostacolo effettivo alla comprensione, non c'è la fuga nel mito, lingua unica, traduzione perfetta, ma il lavoro concreto, faticoso, foriero di risultati sempre parziali, della traduzione sia nel senso stretto che largo della parola. Così il germanista francese Antoine Berman può dare al un suo grande saggio su cultura e traduzione nella Germania romantica giustamente il titolo di L'épreuve de l'étranger (16).

Così il già citato Zumthor, grande medievista ma anche studioso di poetica e storia letteraria dai molteplici interessi, nel suo Babel può fare l'elogio dell'incompiutezza come segno della finitudine umana, che la lettura del mito suggerisce.

E infine Paul Ricoeur in una conferenza dell'aprile 1997 su Défi et bonheur de la traduction (17), replicata in una versione libera "a braccio" a Napoli, nell'Ateneo Federiciano, nel maggio dello stesso anno, avvicina il lavoro del traduttore - servo di due padroni, come diceva Rosenzweig, posto come mediatore tra l'autore da tradurre e il lettore, secondo Schleiermacher - al lavoro della memoria e al lavoro del lutto nel senso freudiano della parola "lavoro". Ciò che viene sottomesso ad una prova (che comporta anche sempre sofferenza) è il desiderio, la pulsione di tradurre: dunque d'appropriarsi dell'altro, dello straniero, trasserendolo, tra-ducendolo nella propria lingua. Il traduttore, dice Ricoeur riprendendo Berman, forza da due lati. Forza la propria lingua a rivestirsi di estraneità e la lingua straniera a lasciarsi de-portare nella propria lingua materna.

È una prova che si può superare solo se si accetta che in questo tragitto qualcosa si perda, qualcosa debba diventare oggetto di rinuncia (si debba cioè superare una resistenza, in analogia con la terapia psicoanalitica). Si deve consentire a perdere la pretesa di autosufficienza della propria lingua materna (contro le resistenze di ogni sorta di autoesaltazione enfatica della propria lingua, di imperialismo, di sciovinismo linguistico), ma si deve anche saper rinunciare alla fantasia di onnipotenza di una traduzione totalmente adeguata, di una reduplicazione dell'originale. Qui le resistenze contro cui combattere non sono solo di ordine fantasmatico ma sono anche tutte le difficoltà reali della traduzione effettiva: non solo i campi semantici non si sovrappongono, ma le sintassi non sono equivalenti, l'andamento delle frasi non veicola le stesse eredità culturali, le sfumature delle connotazioni semi-mute sovravvaricano le denotazioni fissate nei vocabolari ecc.

Eppure il solo rimedio ad una traduzione difettosa è una nuova traduzione, sulla base di un minimo di padronanza di entrambe le lingue, da parte di un lettore competente. L'ideale di una traduzione perfetta può come ogni ideale avere un uso regolativo e diventare allora lo stimolo ad una serie di approssimazioni: dal punto di vista storico sotto le specie di ciò che Lacoue-Labarthe e Jean-Luc Nancy chiamano l'Assoluto letterario (18) questo ideale regolativo ha svolto un ruolo nella crescita e nel perfezionamento di una lingua e di una letteratura particolare. Già il Folena osservava che molte letterature nascono da traduzioni (abbiamo ricordato il valore fondativo della traduzione di Lutero per la lingua letteraria tedesca) : sicché si deve dire in principio fuit interpres piuttosto che in principio fuit poëta (19).

L'ideale di una traduzione perfetta ha rivestito altre forme : quella cosmopolitica della biblioteca totale, del libro di tutti i libri, sogno di una razionalità universale libera da ogni vincolo, illuminismo pienamente realizzato e la versione messianica preconizzata da Walter Benjamin della lingua pura di cui ogni traduzione porta in sé una eco.

In tutte queste figure, per quanto suggestive, si tratta sempre di un guadagno senza perdita, di un desiderio di pienezza cui bisogna invece saper rinunciare. L'universalità recuperata finirebbe col sopprimere la memoria dello straniero e perfino l'amore per la lingua propria accusata di provincialismo : è la storia in definitiva che verrebbe cancellata: diverremmo tutti degli apolidi, senza patria, degli esuli che non trovano asilo in nessun luogo.

Al contrario, assumendo l'irriducibilità della coppia del proprio e dell'estraneo il traduttore trova la sua ricompensa e la sua felicità nel riconoscimento dell'insuperabile stato di dialogicità dell'atto di tradurre (che in questo senso è pienamente atto di interpretazione). Se Steiner, ma anche San Girolamo, ricorre a metafore guerresche per caratterizzare il lavoro del traduttore, l'incontro con l'altro, può avvenire non solo nella forma dell'hostis ma anche in quella, etimologicamente affine, come mostra il Benveniste (20), dell'hospes, ma certamente di assai diversa valenza etica.

"Ad onta del carattere conflittuale, scrive Ricoeur, che rende drammatico il compito del traduttore, questi potrà trovare la sua gioia in quella che vorrei chiamare l'ospitalità linguistica (hospitalité langagière). Il suo regime è appunto quello di una corrispondenza senza adeguazione. Condizione fragile che non ammette come verifica che quel lavoro di ritraduzione che ho richiamato in precedenza, come una sorta d'esercizio di reduplicazione del lavoro del traduttore grazie ad un minimo di bilinguismo. [...] Così come nell'atto di raccontare si può raccontare altrimenti, nell'atto di tradurre [...] egualmente si può tradurre altrimenti, senza sperare di colmare lo scarto fra equivalenza e adeguazione totale. Ospitalità linguistica, dunque, nella quale il piacere di abitare la lingua dell'altro è compensato dal piacere di ricevere presso di sé, nella propria casa di accoglienza, la parola dello straniero" (21).

Partendo da una rilettura del mito babelico, guidata dalla consapevolezza del linguaggio come aspetto imprescindibile della condizione finita e corporea dell'uomo e della tra-duzione come paradigma ermeneutico della mediazione fra mondi culturali diversi, arriviamo dunque alla necessità di elaborare una teoria e una pratica dell'ospitalità linguistica. In tale prospettiva, il rimedio contro l'intolleranza non potrebbe essere un generico sincretismo o un semplice appello ai buoni sentimenti, ma un approfondimento delle proprie radici spirituali, che renda capace di ascolto e di dialogo con l'altro, col diverso che può diventare perciò l'amico, l'ospite, il depositario di un seme di verità che a noi manca e completa quel frammento che possediamo o crediamo di possedere.

Il breve saggio di Ricoeur sulla traduzione che mi ha guidato nella parte finale della mia relazione contiene, per così dire, in miniatura, la memoria globale dell'opera del maestro francese: dall'antropologia implicita nella sua filosofia della volontà alla meditazione delle forme molteplici della creatività del linguaggio, nei lavori dedicati alla metafora e al racconto, passando per gli studi su Freud - ma soprattutto, la tra-duzione come paradigma dell'ermeneutica ci introduce in modo privilegiato nella fenomenologia ermeneutica del Sé, colla sua complessa dialettica dell'identico e dell'altro, e delle forme plurali dell'alterità nel cuore stesso del Sé, tema di Soi-même comme un autre.

Se tale prospettiva comporta nuovi compiti per la riflessione filosofica, compiti che mi piace caratterizzare con una espressione che prendo in prestito da Bernard Waldenfels, vale a dire la necessità di ripensare "die Phänomenologie als Xenologie" (22), vorrei sottolineare che il pensiero di Ricoeur resta, a mio avviso, un punto di equilibrio prezioso nel dispiegamento di una filosofia della alterità che non dimentica di essere intrecciata attraverso molti fili e in modo talora complesso e nascosto, all'itinerario drammatico e spesso penoso attraverso il quale il Sé, quel Sé che ciascuno di noi è ed è chiamato ad essere, si conquista e si realizza nella prassi di tutta una vita, e nella reciprocità della relazione intersoggettiva.

Se parlare, in conclusione, significa sempre tradurre, anche allorché parliamo con noi stessi, e scopriamo le tracce - da cui non si può prescindere - degli altri in noi stessi, l'affermazione originaria, che rappresenta - secondo Ricoeur e, rileggendo, alla sua scuola, Aristotele e Spinosa (23), nello spirito della tradizione riflessiva - lo sforzo o il desiderio di esistere, o ancora il conatus in cui si esprime il nostro atto costitutivo di uomini capaci di agire e di soffrire - in breve, il nodo essenziale della nostra vita e della nostra ricerca d'identità, passa per un lavoro enorme e mai definitivo di traduzione e di traduzioni, di ogni sorta di traduzione, che coincide con la storia delle nostre vita, con la rete infinita delle nostre azioni e passioni, con il lavoro del lutto e della memoria che tale opera esige, con le sue sfide sempre rinnovate e con la felicità che essa ha il potere di accordarci nelle pause del nostro cammino.


 

1) Die Religion in Geschichte und Gegenwart , Tübingen, Mohr, 19593, vol. III, coll. 242-262. "Die Vokabel hat drei Bedeutungsrichtungen: aussagen (ausdrücken), auslegen (erklären) und übersetzen (dolmetschen). Welcher Bedeutung die Priorität zukommt, ist sprachgeschichtlich nicht festzustellen. Es handelt sich um Modifikationen der Grundbedeutung 'zum Verstehen bringen', 'Verstehen vermitteln' in Hinsicht auf verschiedene Weisen des Verstehenproblems" (col. 243).

2) A tal proposito, E. Betti ritiene "un ingenuo pregiudizio provocato dalla forma mentis delle c.d. scienze esatte quello di credere che l'espressione adeguata e 'chiara', mentre rende possibile una intelligenza esatta e sicura, escluda la possibilità di una intelligenza migliore. Qui, come nell'asserire che 'in claris non fit interpretatio', si cade in un ysteron proteron , scambiando per punto di partenza quello che, dato il carattere ellittico di ogni linguaggio, potrà essere, se mai , un punto di arrivo e un risultato del processo interpretativo: l'apprezzamento di chiarezza dell'espressione rispetto al contenuto da esprimere" (Teoria generale dell'interpretazione, Milano, Giuffré, 1990, vol. I, pp. 339-340 ).

3) Cfr. J.- L. Chrétien, L'arche de la parole, Paris, Puf, 1997.

4) Cfr. G. Špet, Appaerence and Sense. Phenomenology or the Fundamental Science and its Problems, Dordrecht-Boston-London, Kluwer, 1991. Špet, che si era perfezionato con Husserl a Gottinga, dopo aver studiato nella nativa Kiev e a Mosca, ritornato in patria, prima dello scoppio della grande guerra, fu animatore del gruppo fenomenologico di Mosca cui appartenevano i giovani Roman Jakobson e Boris Pasternak.. Egli pubblicò già nel 1914 la sua monografia su Il fenomeno e il suo senso. La fenomenologia come scienza fondamentale e i suoi problemi, della quale abbiamo citato la traduzione inglese nella prestigiosa collana "Phaenomenologica", nella quale veniva proposto una riforma in senso ermeneutico della fenomenologia, qualche anno prima degli ormai noti corsi del giovane Heidegger a Friburgo. La promettente scuola russa di fenomenologia che godette di qualche anno di libertà subito dopo l'Ottobre, fu stroncata dal terrore staliniano (Špet morirà fucilato nel 1937, lasciando numerose opere edite e inedite tra cui una storia dell'ermenutica di straordinaria modernità datata Mosca 1918, pubblicata solo qualche anno fa in russo e in tedesco ; cfr. Die Hermeneutik und ihre Probleme (Moskau 1918), München, Alber, 1993. Su Špet si veda: E. Holenstein, Linguistik, Semiotik, Hermeneutik, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1976; A. Haardt, Husserl in Rußland. Phänomenologie der Sprache bei Gustav Špet und Aleksej Losev, München, Fink, 1993 ; M. Dennes, Husserl-Heidegger. Influence de leur oeuvre en Russie, Paris-Montréal, L'Harmattan, 1998.

5) Cfr. G. Steiner, After Babel. Aspects of Language and Translation, Oxford-New York, Oxford U. P., 1975, 19983 (tr. it. di R. Bianchi e C. Béguin, Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione, Milano, Garzanti, 19942).

6) G. Folena, Volgarizzare e tradurre, Einaudi, Torino 1991, pp. 5-6.

7) Cfr. G. Mounin, Teoria e storia della traduzione, tr. it. di S. Morganti, Einaudi, Torino 1965, p. 18. Questo testo dello studioso francese è stato scritto appositamente per l'editore italiano.

8) "Any model of communication is at the same time a model of trans-lation, of a vertical or horizontal transfer of significance. No two historical epochs, no two social classes, no two localities use words and syntax to signify exactely the same things, to send identical signals of valuation and inference. Neither do two human beings. [...] We speak to communicate. But also to conceal, to leave unspoken. The ability of human beings to misinform modulates through every wavelenght from outright lying to silence. This ability is based on the dual structure of discourse: our outward speech has 'behind it' a concurrent flow of articulate consciounsness. [...] In the majority of conventional, social exchanges, the relation between this two speech currents is only partially congruent. There is a duplicity. [...] Thus a humain being performs an act of translation, in the full sense of the word, when receiving a speech-message from any other human being": G. Steiner, op. cit., pp. 47-48 (tr. it. , pp. 74-75).

9) "The hermeneutic act must compensate. If it is to be authentic, it must mediate into exchange and restored parity. The enactement of reciprocity in order to restore balance is the crux of the métier and morals of translation": ibid., p. 316 (tr. it. , p. 358).

10) "The translation restores the equilibrium between itself and the original, between source-language and receptor-language which had been disrupted by the translator's interpretative attack and appropriation. The paradigm of translation stays incomplete until reciprocity has been achieved, until the original has regained as much as it had lost": ibid., p.415 (tr. it., 468).

11) Cfr. F. Marty, La bénédiction de Babel, Beauchesne, Paris 1990.

12) Cfr. P. Zumthor, Babel ou l'inachèvement, Seuil, Paris 1997 (Babele. Dell'incompiutezza, tr. it. di S. Varvaro, Il Mulino, Bologna 1998).

13) Cfr. K. Jaspers, Die grosse Philosophen, Pieper und Co., München 1957, p. 616 ( I grandi filosofi, tr. it. di F. Costa, Longanesi, Milano 1973, p. 704).

14) Cfr. P. Ricoeur, "Discours et communication", in La communication, Actes du XVe Congrès de l'Association des Sociétés de Philosophie de langue française, Montréal 1971, Montmorency, Montréal 1973, pp. 23-48; una traduzione italiana di questo testo è inclusa nell'antologia: P. Ricoeur, Filosofia e linguaggio, a cura di D. Jervolino, tr. it. di G. Losito, Guerini, Milano 1994, pp. 111-142.

15) Cfr. F. Marty, op. cit., pp. 34 ss. e E. Ortigues, Le discours et le symbole, Aubier, Paris 1962.

16) Cfr. A. Berman, L'épreuve de l'étranger. Culture et traduction dans l'Allemagne romantique, Gallimard, Paris 1984 (La prova dell'estraneo, a cura di G. Giometti, Quodlibet, Macerata 1997).

17) In occasione della consegna del Prix de Traduction pour la promotion des relations franco-allemandes (Fondazione DVA di Stoccarda), all'Institut Historique Allemand di Parigi, il 15 aprile 1997.

18) Cfr. Ph. Lacoue-Labarthe et J.-L. Nancy, L'absolu littéraire, Seuil, Paris 1998.

19) G. Folena, op. cit., p. 4.

20) Cfr. É. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Minuit, Paris 1969, vol. I, pp. 87-101, 360-361 (Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, tr. it. di M. Liborio, Einaudi, Torino 1976, vol. I, pp. 64-75, 276-277).

21) P. Ricoeur, Défi..., cit., p. 21.

22) Cfr. B. Waldenfels, Topographie des Fremden, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1997, pp. 85-109.

23) Cfr. P. Ricoeur, Soi-même comme un autre,Seuil, Paris 1990, pp. 365-367 (Sé come un altro, tr. it. di D. Iannotta, Jaka Book, Milano 1993, pp. 429-431).