Ermeneutica 
          e traduzione.
 L'altro, lo straniero, l'ospite
          
        di Domenico 
          Jervolino
         
        
        Una delle tre direzioni nelle quali 
          va ricercato il senso del greco hermeneuein, accanto ad "affermare, 
          esprimere" e a "interpretare, spiegare", è "tradurre, 
          fare da interprete", come sottolinea lo Ebeling nella sua nota 
          voce enciclopedica "Hermeneutik" (1). Peraltro, nella sede 
          di questo nostro convegno, l'accostamento fra "ermeneutica" 
          e "traduzione" non risponde tanto all'esigenza di una storia 
          del termine, che è stata già fatta prima e meglio 
          di quanto io non possa fare di nuovo; mi propongo, piuttosto, di accostare 
          due fenomeni così come sono colti nell'esperienza comune e caratterizzati 
          nel linguaggio ordinario : la pratica del tradurre in tutte le 
          sue forme e l'interpretare come oggetto di riflessione teorica che nel 
          nostro secolo ha assunto un ruolo sempre più centrale nella filosofia 
          o quantomeno in rilevanti espressioni della filosofia dei nostri tempi, 
          con l'ambizione di essere assai più di un'arte ausiliaria, anzi 
          di presentarsi come una disciplina fondamentale e universale, qualcosa 
          come l'antica filosofia prima. 
        Fino a che punto tali ambizioni siano 
          fondate, lo lasciamo per ora da parte. Ci concentriamo invece sul fatto 
          che il tradurre costituisce quantomeno una delle pratiche interpretative 
          di cui l'ermeneutica filosofica rappresenta l'elaborazione teoretica. 
          Il nostro problema è di vedere fino a qual punto il tradurre 
          possa far luce sull'interpretare in quanto tale. Possa essere, in altri 
          termini, un esempio illuminante, un paradigma per una filosofia del 
          linguaggio e dell'interpretazione. Dico: del linguaggio e dell'interpretazione, 
          perché il linguaggio nel senso più ampio della parola 
          è il primo presupposto di ogni possibile interpretazione, in 
          quanto solo ciò che viene al linguaggio può essere interpretato. 
          Non nel senso che le espressioni linguistiche siano il solo oggetto 
          dell'interpretare e che quest'ultimo si chiuda nell'ambito del linguaggio, 
          che diventerebbe così una sorta di prigione magari dorata dalla 
          quale sarebbe poi difficile uscire. Ciò che è linguisticamente 
          mediato è tutto ciò il linguaggio dice, quindi ciò 
          che è altro dal linguaggio, ciò di cui si parla quando 
          si parla, e si ascolta, si scrive e si legge (o si tenta di....). Questo 
          altro dal linguaggio è la posta in gioco dell'interpretazione : 
          essa può essere ulteriormente caratterizzata come l'insieme delle 
          "cose" o dei fenomeni che ci circondano, in mezzo a cui siamo, 
          che si manifestano nella nostra esperienza e nella nostra vita, e fra 
          queste cose o fenomeni noi stessi e gli altri con cui parliamo o di 
          cui parliamo. 
        Un vecchio adagio, che peraltro richiede 
          almeno una chiosa (2), afferma : in claris non fit interpretatio. 
          I fenomeni, e noi fra essi, hanno bisogno di essere interpretati proprio 
          perché essi non si manifestano in compiuta chiarezza, perché 
          il loro senso è almeno parzialmente indeterminato, ma anche perché 
          possono essere portati a chiarezza e apparire per quello che essi sono 
          nella loro verità, per quanto limitata, parziale, perfettibile, 
          ma che è comunque altra cosa da una vana apparenza o da un mero 
          gioco di specchi (interpretazioni che non sono altro che interpretazioni 
          di interpretazioni e così all'infinito...). Ed è proprio 
          il fatto che le cose possano essere "nominate" che custodisce 
          e attesta la loro verità (umana e non assoluta, un gioco di luci 
          e ombre, per riprendere la metafora della luce). La parola è 
          allora l'arca nella quale le cose sono custodite, l'arca che 
          offre ospitalità alle cose del mondo, secondo l'interpretazione 
          del mito biblico (Adamo che assegna a ciascuna cosa il suo nome, l'arca 
          di Noè che salva una coppia di ogni specie vivente) da parte 
          del fenomenologo francese Jean-Louis Chrétien (3). 
        Il nome biblicamente come arca o, se 
          si preferisce, aristotelicamente come entelechìa del fenomeno, 
          secondo la felice formula del discepolo russo di Husserl, Gustav Špet 
          (4).
         Il linguaggio dunque come mediazione 
          necessaria e non necessitante tra uomo e mondo, come venir alla luce 
          contemporaneo dell'essere detto o dicibile delle cose e del poter dire 
          dell'uomo, come inaugurazione di una vita significante, come lumen 
          naturale del quale si può dire in modo fenomenologicamente 
          corretto che illumina ogni uomo che viene al mondo e che grazie ad esso 
          ogni fenomeno av-viene, acquista visibilità, nel mondo. 
        Eppure, se tale è la funzione 
          del linguaggio, il linguaggio stesso non esiste al di fuori di una pluralità 
          di lingue, che si presenta a prima vista come dispersione disarmante 
          e irrimediabile. Un solo linguaggio, molte lingue. Migliaia di lingue, 
          ancor più numerose se si contano, oltre le lingue oggi viventi 
          e le loro varianti, le lingue morte e tra le morte quelle scomparse 
          senza lasciare tracce o solo tracce minime della loro esistenza passata. 
          La tentazione di risolvere questa antinomia speculativamente attraverso 
          una dialettica concettuale fra le categorie dell'uno e dei molti, non 
          è certo ignota alla storia del pensiero. Frutto di questa dialettica, 
          l'idea di una lingua perfetta o universale, che rappresenterebbe l'essenza 
          pura della lingua, al di là delle innumerevoli particolarità 
          delle lingue storiche. Ma queste ultime restano e la loro diversità 
          irriducibile condiziona e dissolve ogni sogno di purezza ideale.
        E qui, in questo iato fra linguaggio 
          e lingue (un'opposizione esprimibile con immediata evidenza in italiano 
          e in altre lingue neolatine, che in altre lingue si condensa per così 
          dire in una sola parola, ma che comunque riesce ad essere pensata ed 
          espressa in vario modo), è in questo iato che s'inserisce la 
          pratica e la problematica della traduzione. 
        Qui, come filosofi, abbiamo tutto da 
          imparare dalle dotte analisi di linguisti e semiologi, storici delle 
          lingue e delle culture, filologi antichi e moderni, romanisti, germanisti, 
          slavisti, orientalisti, storici e teorici della letteratura e della 
          critica letteraria, esegeti della Bibbia ebraica e cristiana, commentatori 
          del Talmud e del Corano, antropologi e storici delle religioni, ecc. 
          che ci forniscono ormai una bibliografia amplissima, una storia articolata 
          dei termini, una semantica della traduzione e del tradurre. Fare dei 
          nomi significherebbe rischiare di peccare per omissione. Ma forse si 
          può rischiare di citare almeno uno per tutti, un autentico classico 
          dei nostri giorni in tale materia, quale è After Babel di 
          George Steiner, del 1975, la cui seconda edizione inglese, sulla quale 
          è condotta la traduzione italiana che utilizzeremo, risale al 
          1992. Nel frattempo il testo inglese è stato ripubblicato nel 
          1998 (5).
         Si può parlare, nella seconda 
          metà del Novecento, ormai di una vera e propria scienza della 
          traduzione o traduttologia, o quanto meno, più prudentemente, 
          di un campo di Translation Studies, con antenati illustri 
          da Cicerone a Lutero, e, più vicini a noi, Goethe, Humboldt e 
          Schleiermacher, una disciplina o un'area disciplinare che avrebbe, se 
          lo volesse, anche un patrono celeste in san Gerolamo, autore, oltre 
          che della Vulgata, dell'epistola a Pammachio De optimo genere 
          interpretandi.
        Se si accetta l'idea di una scienza 
          della traduzione nata solo negli anni Quaranta del nostro secolo (e 
          io qui sarei tentato di sottolineare la presenza di un paradigma di 
          tipo comtiano del passaggio dalla filosofia alla scienza) o comunque 
          se si prende atto dello straordinario sviluppo degli studi contemporanei 
          sulla traduzione, bisogna comunque aggiungere che essi sono preceduti 
          da una lunga fase storica nella quale si trovano importanti meditazioni 
          sull'argomento, senza però la pretesa di costituire una disciplina 
          specifica : gli ultimi grandi battitori liberi della riflessione 
          sulla traduzione quindi sarebbero nel nostro secolo Croce e Ortega (Miseria 
          y esplendor de la traducción), Rosenzweig (con la nota affermazione : 
          "Il traduttore è servo di due padroni") e Benjamin 
          (col suo mirabile saggio su Il compito del traduttore e il suo 
          concetto messianico di una lingua pura di cui noi riusciamo solo a cogliere 
          qualche brandello).
         "La traduzione, scrive Gianfranco 
          Folena, è una forma fondata sull'arbitrarietà e sulla 
          bipolarità del segno linguistico, cioè sulla tensione 
          fra due funtivi, nel senso che solo il significato è trasmissibile 
          in lingue, e anche in certa misura, in sistemi semiotici diversi mediante 
          nuovi significanti, in base al principio della non equivalenza delle 
          singole unità costitutive e della equivalenza complessiva dei 
          messaggi (equivalenza non significa identità neppure per il senso) 
          nei codici diversi. La forma più immediata ed elementare di traduzione 
          [...] è quella orale, reversibile, impostata sulla comunicazione 
          a tre, dove fra gli interlocutori, emittente e destinatario, si situa 
          l'intermediario, o fra due messaggi equivalenti, quello dell'emittente 
          e quello del destinatario, un commutatore dei due codici rispettivi. 
          Nella tradizione occidentale il tecnico della traduzione orale ha ricevuto 
          per lo più un nome speciale, che poi è stato esteso anche 
          alla fenomenologia scritta e culturale : in greco hermeneus, 
          parola attestata fin da Pindaro, che ha resistito a tutti i tentativi 
          'ermeneutici' e resta di etimo misterioso anche nei suoi collegamenti 
          col nome di Hermes, Ermete, in cui qualcuno volle vedere il dio 
          interprete, mediatore ; e sembra attinta ad una lingua dell'Asia 
          Minore, dove i Greci così poco aperti con pochissime eccezioni 
          al plurilinguismo e al riconoscimento delle lingue 'barbare', giudicate 
          inferiori e inintelligibili, vennero dapprima e più intensamente 
          in contatto orale con lingue di struttura tanto diverse. Il dinamismo 
          semantico della famiglia di hermeneus poggia su questa base, 
          col senso di una penetrazione profonda dell'ignoto. Invece il latino 
          interpres -etis è originale elaborazione di materiali 
          latini (il secondo elemento del composto è certamente connesso 
          con pretium), proveniente dalla sfera economico-giuridica, cioè 
          in origine 'mediatore, sensale, arbitro del prezzo'[...]" (6). 
          
        Il Folena sottolinea, nel suo dottissimo 
          contributo, che costituiva originariamente una relazione a un convegno 
          triestino del 1973, che per la traduzione scritta il quadro terminologico-culturale 
          è assai più complesso e che è caratterizzato e 
          reso dinamico dal rapporto fra traduzione e tradizione, antico e moderno. 
          Il problema della traduzione scritta è più importante 
          perciò per i Latini che per i Greci, proprio perché i 
          primi avevano un problema di rapportarsi all'eredità greca : 
          così avverrà tutte le volte che ci si porrà il 
          problema di un rapporto con una cultura altra, piuttosto che affermare 
          orgogliosamente la propria autosufficienza. Molte grandi letterature 
          moderne in effetti hanno richiesto prima di affermarsi un enorme lavoro 
          di traduzione dai classici o da lingue straniere già accreditate.
         Di qui anche il definirsi nell'ambito 
          della latinità di una molteplicità forme verbali specifiche 
          per il tradurre per iscritto, come vortere o vertere, 
          coi derivati convertere e transvertere, imitari, exprimere, 
          reddere, mutare, transferre. Quest'ultimo dà origine ai derivati 
          participiali romanzi translatare, translater, di 
          cui avvertiamo l'eco ancora oggi nell'inglese to translate. La 
          complessità di questa rete di forme verbali è accentuata 
          dal fatto che viene usato per la traduzione scritta per estensione anche 
          interpretari e la relativa famiglia.
        Di qui ancora il definirsi di due campi 
          semantici vicini ma non identici in italiano come in altre lingue moderne 
          per la traduzione orale e quella scritta. Nel senso professionale dei 
          due termini ancora oggi nell'italiano corrente - e non solo in esso 
          - l'interprete e il traduttore sono figure diverse. E' sempre il Folena 
          ad aver valorizzato la figura dell'umanista quattrocentesco Leonardo 
          Bruni, come il primo trattatista moderno della traduzione col suo De 
          interpretatione recta (ca. 1420) e come colui che introduce il termine 
          di "traducere" per indicare un concetto unitario di traduzione. 
          Il Mounin, dal canto suo, rileva che il termine di traducteur in 
          francese è un italianismo, usato per la prima volta nel Cinquecento 
          dall'umanista Etienne Dolet (7).
        Questa storia semantica ci conduce alle 
          soglie della Modernità. Non possiamo certo dimenticare il ruolo 
          determinante, che abbiamo già evocato sopra, svolto da grandi 
          traduzioni per la nascita e lo sviluppo delle identità linguistiche 
          e nazionali dei Moderni. La Bibbia di Lutero costituisce un esempio 
          insigne di tale funzione, ma non è il solo. Si potrebbero ancora 
          ricordare altre grandi traduzioni della Bibbia (quella ceca dei Fratelli 
          Moravi, la Bibbia di Ginevra, the King James Version in Inghilterra), 
          ma anche le traduzioni dei classici antichi e degli autori moderni di 
          maggiore prestigio (e il ruolo formativo che tali traduzioni ebbero, 
          ad esempio, nel caso della Germania, nel periodo fra Illuminismo e Romanticismo). 
          Da questa storia si potrebbe concludere che il problema della traduzione 
          è un problema moderno per eccellenza che si confonde con quello 
          della Modernità. Ma la coscienza moderna non è soltanto 
          l'affermazione dell'autonomia dei Moderni in relazione agli Antichi. 
          Essa non nasce soltanto per la duplice appropriazione di una autenticità 
          cristiana evangelica e della lezione dei Classici con un convergente 
          effetto di emancipazione umana. La nascita della Modernità è 
          legata, nella coscienza europea, in un modo più stretto di quanto 
          noi siamo disposti a riconoscere, all'incontro con l'altro extra-europeo. 
          I grandi viaggi, le grandi scoperte, le conquiste violente degli altri 
          continenti ci pongono dei problemi di traduzione in un senso più 
          ampio e più drammatico. Ricordiamo, per completare questo quadro 
          problematico che il 1492 è nello stesso tempo l'anno della scoperta 
          dell'America (e avvio della sua conquista) e l'anno della conquista 
          di Granada (compimento della Reconquista cristiana della Spagna ) e 
          dell'espulsione degli Ebrei dala Spagna; esso coincide dunque con la 
          rimozione dall' identità europea - almeno dall'identità 
          di una certa Europa - di un "altro" che tuttavia resta silenziosamente 
          presente nella sua assenza.
        Questo groviglio di problemi è 
          legato alla questione filosofica della traduzione in tutta la sua ampiezza. 
          Dal nostro punto di vista, dopo cinque secoli di storia moderna, la 
          questione della traduzione manifesta la sua complessità a motivo 
          della tensione immanente al concetto stesso di traduzione, nel quale 
          si può distinguere un senso ampio e uno ristretto: parlare è 
          già tradurre e inoltre v'è il dato della pluralità 
          delle lingue. Si è tentati di dire che v'è pluralità 
          delle lingue perché noi siamo originariamente plurali.
        Ritorniamo ai nostri giorni, e in particolare 
          allo Steiner : nel suo grande volume sulla traduzione troviamo 
          un concetto allargato della traduzione : "Ogni modello di 
          comunicazione è al tempo stesso un modello di tra-duzione, di 
          trasferimento verticale o orizzontale di significato. Non vi sono due 
          epoche storiche, due classi sociali o due località che si servano 
          delle parole e della sintassi per significare esattamente le stesse 
          cose, per inviare segnali identici di valutazione e deduzione. E nemmeno 
          due esseri umani. [...] Si parla per comunicare. Ma anche per nascondere, 
          per non dire. La capacità degli esseri umani di trasmettere informazioni 
          errate o inesatte possiede un ampio spettro di variabilità dalla 
          menzogna esplicita al silenzio. Tale capacità si basa sulla struttura 
          duale del linguaggio : il nostro discorso esterno ha 'alle sue 
          spalle' un flusso corrispondente di coscienza articolata. [...] Nella 
          maggior parte degli scambi sociali convenzionali, il rapporto fra queste 
          due correnti di discorso è solo in parte congruente. Vi è 
          doppiezza. [...] Un essere umano compie dunque un atto di traduzione, 
          nel pieno senso del termine, quando riceve un messaggio verbale da qualsiasi 
          altro essere umano" (8).
         Una consapevolezza acuta della difficoltà 
          e della problematicità del tradurre attraversa la grande opera 
          dello Steiner. La traduzione in senso stretto, da lingua a lingua, conferma 
          e rafforza una problematicità che è immanente in ogni 
          scambio di significato, nella traduzione in senso largo. Il numero enorme 
          delle lingue e la loro diversità costituiscono un vero spreco 
          per una umanità che è invece sostanzialmente omogenea 
          dal punto di vista biologico e psicosomatico.
        Ci troviamo di fronte a una vera e propria 
          galassia di lingue che non risponde ad alcun principio definibile e 
          contraddice i più elementari criteri di economia. Né la 
          dispersione geografica costituisce un criterio ordinatore o una motivazione 
          plausibile. Lingue parlate da una sola tribù, da un solo villaggio, 
          incomprensibili ai popoli vicini. La polverizzazione linguistica degli 
          umani sembra un enigma tale da rendere in qualche misura plausibile 
          il ricorso a spiegazioni mitiche, come quella della biblica Babele che 
          trova riscontro in altri miti analoghi presso altre culture. 
         Babele, quindi, come condanna alla 
          confusione e alla dispersione, prezzo del peccato di orgoglio, nuova 
          cacciata dall'Eden di una lingua unica, di una comunicazione senza intoppi. 
          Babele come disastro originario, anche se il potere formativo della 
          lingua, la sua forza poetica e creativa, di cui riusciamo a cogliere 
          come delle scintille o degli sprazzi di luce tutte le volte che si ha 
          comprensione, fa sì che il disastro diventi - secondo l'etimo 
          suggerito da Steiner - una "pioggia di stelle" sull'umanità. 
          
        La traduzione diventa una sorta di rimedio 
          rispetto a una condizione decaduta dell'umanità; essa nasce da 
          un atto di fiducia iniziale: qui c'è un senso da recuperare. 
          Una fiducia che può terminare nello scacco: qui non c'è 
          nulla da capire. Ma, comunque, il seguito della fenomenologia della 
          traduzione assume sempre più l'andamento di un conflitto, di 
          una guerra. Alla fiducia, infatti, segue l'aggressione : la seconda 
          mossa del traduttore è un atto di incursione e di estrazione : 
          la comprensione dell'altro come atto intimamente violento (qui Steiner 
          richiama Hegel e Heidegger, ma anche San Gerolamo che ricorre alla metafora 
          del significato fatto prigioniero e riportato a casa dal traduttore). 
          La terza mossa è l'incorporazione dell'altro nel nostro mondo 
          linguistico e culturale. Qui il tradurre si rivela ancora più 
          pericoloso e violento: a questo punto siamo sbilanciati, abbiamo sottratto 
          qualcosa all'altro e l'incorporiamo in ciò che ci è proprio. 
          Occorre compensare questo sbilanciamento: "L'atto ermeneutico deve 
          essere compensativo. Se vuole essere autentico deve trasformarsi in 
          scambio e ristabilire la parità. L'attuazione della reciprocità 
          per ristabilire l'equilibrio, deve trasformarsi in scambio e ristabilire 
          la parità. L'attuazione della reciprocità per ristabilire 
          l'equilibrio è il fulcro del mestiere e della moralità 
          della traduzione" (9). "La traduzione ristabilisce l'equilibrio 
          tra se stessa e l'originale, tra la lingua originale e la lingua d'arrivo, 
          equilibrio spezzato dall'attacco e dall'appropriazione interpretativa 
          del traduttore. Il paradigma della traduzione rimane incompleto finché 
          non si raggiunge la reciprocità, finché l'originale non 
          ha recuperato quanto ha perduto" (10). Questo compito alla fine 
          si rivela pressoché impossibile: si può sbagliare per 
          eccesso o per difetto. La disamina delle traduzioni inglesi del brano 
          omerico in cui Priamo va da Achille a chiedere le spoglie di Ettore 
          è un pezzo di bravura che mostra tutta la grandezza del critico 
          e storico della letteratura. La conclusione di Steiner è che 
          la traduzione perfetta non esiste, ma che ci sono degli esempi di traduzione 
          che si avvicinano alla perfezione.
        Questa conclusione quasi scettica a 
          livello della traducibilità della grande poesia viene in qualche 
          modo recuperata dallo Steiner ritornando a un concetto allargato di 
          traduzione : il linguaggio, la cultura, la comunicazione sono in 
          effetti processi di traduzione, che comportano o la trasformazione di 
          messaggi entro lo stesso sistema di segni verbali (in questo caso parliamo 
          con Jakobson di "riformulazione", rewording) oppure 
          il passaggio da un sistema di segni verbali a un sistema di segni non 
          verbali (ciò che Jakobson chiama transmutation, transmutazione). 
          L'ermeneutica comporta lo studio della traduzione, della sua possibilità 
          e dei suoi limiti. Eppure una teoria, in senso stretto, della traduzione 
          non c'è per Steiner, vale a dire per l'autore di quello che può 
          considerarsi probabilmente la più importante opera sulla traduzione 
          del nostro secolo. La traduzione è per lui - con una espressione 
          volutamente paradossale che riprende da Wittgenstein - un'arte esatta. 
          Ogni lingua è un mondo possibile, nella lingua si realizza come 
          una trasfigurazione del destino biologico, mortale dell'individuo. Tutti 
          i tentativi di giungere all'uniformità - dal formalismo estremo 
          di certa linguistica generativa a quello che egli chiama l'esperanto 
          angloamericano che invade il mondo tardocapitalista - sono da lui fortemente 
          criticati. Resta l'immagine della pioggia di stelle sull'umanità. 
          Un'immagine di bellezza, che ricorda un po' la "nostalgia del totalmente 
          altro", l'utopia della lingua pura, perfetta, pre-babelica nel 
          mondo post-babelico.
         Ma la lettura del mito di Babele che 
          vede nella molteplicità delle lingue una condanna e una maledizione 
          è la sola possibile ? Oppure si dà una possibilità 
          di intendere positivamente la pluralità delle lingue, a partire 
          da una lettura diversa dello stesso racconto biblico ? Il pluralismo 
          linguistico non sarebbe, allora, una condanna e una maledizione, ma 
          significherebbe la rinuncia al sogno totalizzante di una lingua perfetta 
          (e di una traduzione globale e, per così dire, senza residui). 
          La parzialità e la finitezza delle singole lingue diverrebbe, 
          allora, non un ostacolo insormontabile, ma la condizione stessa del 
          comunicare possibile fra gli umani. In tale direzione va il bel libro 
          di François Marty, che pur comportando una reinterpretazione 
          del testo biblico, è un lavoro fondamentalmente filosofico di 
          meditazione sulla natura del linguaggio (11) e, in modo più problematico, 
          il denso contributo postumo del grande studioso francese di poetica 
          e di storia letteraria Paul Zumthor (12). 
        È significativo che il saggio 
          di Marty si apra con la citazione della pagina iniziale della Dottrina 
          trascendentale del metodo della Critica della Ragione pura nella 
          quale Kant accenna al racconto di Babele, invitando gli esseri umani 
          a rinunciare alla pretesa di costruirsi una torre per accontentarsi 
          di una abitazione più modesta, ma sufficiente ai loro bisogni. 
          Jaspers nel suo volume I grandi filosofi riprende questa pagina 
          kantiana, alla fine del lungo saggio su Kant, dicendo del filosofo di 
          Könisberg che egli si è costruita una casa ai margini della 
          strada per riposarvi, ma che né lui né noi dobbiamo fermarci 
          per sempre in essa, ma dobbiamo riprendere il nostro cammino (13). 
        Siamo riportati dunque dalla trasgressione 
          superba del limite simboleggiata dalla torre, alla modestia dell'abitare 
          e alla perseveranza della vita come cammino, alle due immagini della 
          casa e della via, evocanti la finitezza spaziale e temporale della condizione 
          umana. Duplicità di dimensioni che si ritrovano, nel linguaggio, 
          nella duplicità dell'asse del sintagma e dell'asse del paradigma. 
          Bipolarità strutturale del linguaggio che diventa empirica pluralità 
          delle lingue, al limite dei singoli individui parlanti come monadi che 
          pure comunicano fra di loro.
        Qui si potrebbe ricordare un saggio 
          di Ricoeur del 1971 su "Discorso e comunicazione" in cui si 
          afferma che la comunicazione intermonadica se per il linguista e gli 
          scienziati del linguaggio è un fatto, essa diventa un enigma 
          per il filosofo che deve ricostruire pazientemente, partendo da una 
          messa in questione radicale (che fa rivivere, a mio avviso, il gesto 
          dell'epoché fenomenologica) ciò che si comunica 
          - il significato, con i suoi vari strati - senso e referenza, gli atti 
          linguistici, le intenzioni noetiche, in breve ciò che con Beneveniste 
          e Ricoeur possiamo chimare l'íntenté, l'intento, 
          del discorso, la parte intenzionale della vita - sullo sfondo di ciò 
          che non può essere comunicato perché è ciò 
          che della vita è singolarità irripetibile, e che Ricoeur 
          chiama lo psichico (14).
        Finitezza dell'umano, bipolarità 
          del linguaggio, unità in tensione fra singolarità e intenzionalità 
          del vivere : forse tutte facce diverse della stessa realtà, 
          nelle quali si ripropone continuamente la dialettica dello stesso e 
          dell'altro, dell'altro nel cuore stesso dello stesso.
        Bipolarità del linguaggio, bipolarità 
          dell'umano: con Maine de Biran potremmo ripetere: Homo simplex in 
          vitalitate, duplex in humanitate.  
        Alla ricerca di questa tensione bipolare 
          - bipolarità che è propria a una dialettica finita, che 
          trova sempre solo mediazioni imperfette, che non si chiude in sintesi 
          definitive, possiamo fare una troppo rapida carrellata presso i grandi 
          linguisti del nostro secolo: ricordiamo le celebri distinzioni antitetiche 
          di Saussure, langue e parole, signifiant e signifié, 
          diacronia e sincronia, sintagma e paradigma, riformulate in vario modo 
          da Hiemslev, espressione e contenuto, forma e sostanza, Jakobson, asse 
          del sintagma e asse del paradigma, Benveniste, linguistica della lingua 
          e linguistica del discorso, dimensione semiotica e dimensione semantica 
          - il Marty ispirandosi all'opera di Edmond Ortigues Le discours et 
          le symbole riconduce il tutto alla tensione fra un polo della determinazione 
          e un polo simbolico, rispettivamente al rapporto fra significante e 
          significato e al rapporto dei significanti fra di loro, e in ultima 
          analisi richiamandosi a Kant alla tensione fra il sensibile e l'intelligibile, 
          e quindi al fatto primordiale per cui il linguaggio fa senso con ciò 
          che di per sé non ha senso (15). Questa dualità tensionale 
          trova riscontro, a suo avviso, nel cuore della riflessione analitica 
          del linguaggio nella dualità dell'opera di Wittgenstein letta 
          nel suo complesso e in modo unitario, dualità fra struttura logica 
          del linguaggio e molteplicità dei giochi linguistici, e, dopo 
          Wittgenstein, nella dualità di constatativo e performativo nella 
          teoria degli atti linguistici.
        Tale meditazione sulla dualità 
          è importante per il nostro assunto perché essa ci conduce 
          alla necessità del pluralismo linguistico, non solo come pluralità 
          delle lingue, ma anche come necessaria pluralità degli attori 
          linguistici.
         La benedizione di Babele è allora 
          la rinuncia a una lingua unica, che disconosce le differenze, così 
          come al mito di una traduzione senza residui, che, se fosse realizzabile, 
          sopprimerebbe la alterità dell'altro. 
        Di contro alla pluralità e diversità 
          delle lingue, che è un ostacolo effettivo alla comprensione, 
          non c'è la fuga nel mito, lingua unica, traduzione perfetta, 
          ma il lavoro concreto, faticoso, foriero di risultati sempre parziali, 
          della traduzione sia nel senso stretto che largo della parola. Così 
          il germanista francese Antoine Berman può dare al un suo grande 
          saggio su cultura e traduzione nella Germania romantica giustamente 
          il titolo di L'épreuve de l'étranger (16).
        Così il già citato Zumthor, 
          grande medievista ma anche studioso di poetica e storia letteraria dai 
          molteplici interessi, nel suo Babel può fare l'elogio 
          dell'incompiutezza come segno della finitudine umana, che la lettura 
          del mito suggerisce.
        E infine Paul Ricoeur in una conferenza 
          dell'aprile 1997 su Défi et bonheur de la traduction (17), 
          replicata in una versione libera "a braccio" a Napoli, nell'Ateneo 
          Federiciano, nel maggio dello stesso anno, avvicina il lavoro del traduttore 
          - servo di due padroni, come diceva Rosenzweig, posto come mediatore 
          tra l'autore da tradurre e il lettore, secondo Schleiermacher - al lavoro 
          della memoria e al lavoro del lutto nel senso freudiano della parola 
          "lavoro". Ciò che viene sottomesso ad una prova (che 
          comporta anche sempre sofferenza) è il desiderio, la pulsione 
          di tradurre: dunque d'appropriarsi dell'altro, dello straniero, trasserendolo, 
          tra-ducendolo nella propria lingua. Il traduttore, dice Ricoeur riprendendo 
          Berman, forza da due lati. Forza la propria lingua a rivestirsi di estraneità 
          e la lingua straniera a lasciarsi de-portare nella propria lingua materna. 
          
         È una prova che si può 
          superare solo se si accetta che in questo tragitto qualcosa si perda, 
          qualcosa debba diventare oggetto di rinuncia (si debba cioè superare 
          una resistenza, in analogia con la terapia psicoanalitica). Si deve 
          consentire a perdere la pretesa di autosufficienza della propria lingua 
          materna (contro le resistenze di ogni sorta di autoesaltazione enfatica 
          della propria lingua, di imperialismo, di sciovinismo linguistico), 
          ma si deve anche saper rinunciare alla fantasia di onnipotenza di una 
          traduzione totalmente adeguata, di una reduplicazione dell'originale. 
          Qui le resistenze contro cui combattere non sono solo di ordine fantasmatico 
          ma sono anche tutte le difficoltà reali della traduzione effettiva: 
          non solo i campi semantici non si sovrappongono, ma le sintassi non 
          sono equivalenti, l'andamento delle frasi non veicola le stesse eredità 
          culturali, le sfumature delle connotazioni semi-mute sovravvaricano 
          le denotazioni fissate nei vocabolari ecc. 
        Eppure il solo rimedio ad una traduzione 
          difettosa è una nuova traduzione, sulla base di un minimo di 
          padronanza di entrambe le lingue, da parte di un lettore competente. 
          L'ideale di una traduzione perfetta può come ogni ideale avere 
          un uso regolativo e diventare allora lo stimolo ad una serie di approssimazioni: 
          dal punto di vista storico sotto le specie di ciò che Lacoue-Labarthe 
          e Jean-Luc Nancy chiamano l'Assoluto letterario (18) questo 
          ideale regolativo ha svolto un ruolo nella crescita e nel perfezionamento 
          di una lingua e di una letteratura particolare. Già il Folena 
          osservava che molte letterature nascono da traduzioni (abbiamo ricordato 
          il valore fondativo della traduzione di Lutero per la lingua letteraria 
          tedesca) : sicché si deve dire in principio fuit interpres 
          piuttosto che in principio fuit poëta (19).
        L'ideale di una traduzione perfetta 
          ha rivestito altre forme : quella cosmopolitica della biblioteca 
          totale, del libro di tutti i libri, sogno di una razionalità 
          universale libera da ogni vincolo, illuminismo pienamente realizzato 
          e la versione messianica preconizzata da Walter Benjamin della lingua 
          pura di cui ogni traduzione porta in sé una eco.
        In tutte queste figure, per quanto suggestive, 
          si tratta sempre di un guadagno senza perdita, di un desiderio di pienezza 
          cui bisogna invece saper rinunciare. L'universalità recuperata 
          finirebbe col sopprimere la memoria dello straniero e perfino l'amore 
          per la lingua propria accusata di provincialismo : è la 
          storia in definitiva che verrebbe cancellata: diverremmo tutti degli 
          apolidi, senza patria, degli esuli che non trovano asilo in nessun luogo.
        Al contrario, assumendo l'irriducibilità 
          della coppia del proprio e dell'estraneo il traduttore trova la sua 
          ricompensa e la sua felicità nel riconoscimento dell'insuperabile 
          stato di dialogicità dell'atto di tradurre (che in questo senso 
          è pienamente atto di interpretazione). Se Steiner, ma anche San 
          Girolamo, ricorre a metafore guerresche per caratterizzare il lavoro 
          del traduttore, l'incontro con l'altro, può avvenire non solo 
          nella forma dell'hostis  ma anche in quella, etimologicamente 
          affine, come mostra il Benveniste (20), dell'hospes, ma certamente 
          di assai diversa valenza etica.  
        "Ad onta del carattere conflittuale, 
          scrive Ricoeur, che rende drammatico il compito del traduttore, questi 
          potrà trovare la sua gioia in quella che vorrei chiamare l'ospitalità 
          linguistica (hospitalité langagière). Il suo regime 
          è appunto quello di una corrispondenza senza adeguazione. Condizione 
          fragile che non ammette come verifica che quel lavoro di ritraduzione 
          che ho richiamato in precedenza, come una sorta d'esercizio di reduplicazione 
          del lavoro del traduttore grazie ad un minimo di bilinguismo. [...] 
          Così come nell'atto di raccontare si può raccontare altrimenti, 
          nell'atto di tradurre [...] egualmente si può tradurre altrimenti, 
          senza sperare di colmare lo scarto fra equivalenza e adeguazione totale. 
          Ospitalità linguistica, dunque, nella quale il piacere di abitare 
          la lingua dell'altro è compensato dal piacere di ricevere presso 
          di sé, nella propria casa di accoglienza, la parola dello straniero" 
          (21).
        Partendo da una rilettura del mito babelico, 
          guidata dalla consapevolezza del linguaggio come aspetto imprescindibile 
          della condizione finita e corporea dell'uomo e della tra-duzione come 
          paradigma ermeneutico della mediazione fra mondi culturali diversi, 
          arriviamo dunque alla necessità di elaborare una teoria e una 
          pratica dell'ospitalità linguistica. In tale prospettiva, il 
          rimedio contro l'intolleranza non potrebbe essere un generico sincretismo 
          o un semplice appello ai buoni sentimenti, ma un approfondimento delle 
          proprie radici spirituali, che renda capace di ascolto e di dialogo 
          con l'altro, col diverso che può diventare perciò l'amico, 
          l'ospite, il depositario di un seme di verità che a noi manca 
          e completa quel frammento che possediamo o crediamo di possedere. 
         Il breve saggio di Ricoeur sulla traduzione 
          che mi ha guidato nella parte finale della mia relazione contiene, per 
          così dire, in miniatura, la memoria globale dell'opera del maestro 
          francese: dall'antropologia implicita nella sua filosofia della volontà 
          alla meditazione delle forme molteplici della creatività del 
          linguaggio, nei lavori dedicati alla metafora e al racconto, passando 
          per gli studi su Freud - ma soprattutto, la tra-duzione come paradigma 
          dell'ermeneutica ci introduce in modo privilegiato nella fenomenologia 
          ermeneutica del Sé, colla sua complessa dialettica dell'identico 
          e dell'altro, e delle forme plurali dell'alterità nel cuore stesso 
          del Sé, tema di Soi-même comme un autre.
        Se tale prospettiva comporta nuovi compiti 
          per la riflessione filosofica, compiti che mi piace caratterizzare con 
          una espressione che prendo in prestito da Bernard Waldenfels, vale a 
          dire la necessità di ripensare "die Phänomenologie als Xenologie" 
          (22), vorrei sottolineare che il pensiero di Ricoeur resta, a mio avviso, 
          un punto di equilibrio prezioso nel dispiegamento di una filosofia della 
          alterità che non dimentica di essere intrecciata attraverso molti 
          fili e in modo talora complesso e nascosto, all'itinerario drammatico 
          e spesso penoso attraverso il quale il Sé, quel Sé che 
          ciascuno di noi è ed è chiamato ad essere, si conquista 
          e si realizza nella prassi di tutta una vita, e nella reciprocità 
          della relazione intersoggettiva. 
        Se parlare, in conclusione, significa 
          sempre tradurre, anche allorché parliamo con noi stessi, e scopriamo 
          le tracce - da cui non si può prescindere - degli altri in noi 
          stessi, l'affermazione originaria, che rappresenta - secondo Ricoeur 
          e, rileggendo, alla sua scuola, Aristotele e Spinosa (23), nello spirito 
          della tradizione riflessiva - lo sforzo o il desiderio di esistere, 
          o ancora il conatus in cui si esprime il nostro atto costitutivo 
          di uomini capaci di agire e di soffrire - in breve, il nodo essenziale 
          della nostra vita e della nostra ricerca d'identità, passa per 
          un lavoro enorme e mai definitivo di traduzione e di traduzioni, di 
          ogni sorta di traduzione, che coincide con la storia delle nostre vita, 
          con la rete infinita delle nostre azioni e passioni, con il lavoro del 
          lutto e della memoria che tale opera esige, con le sue sfide sempre 
          rinnovate e con la felicità che essa ha il potere di accordarci 
          nelle pause del nostro cammino. 
        
         
        1) Die Religion in Geschichte und 
          Gegenwart , Tübingen, Mohr, 19593, vol. III, coll. 
          242-262. "Die Vokabel hat drei Bedeutungsrichtungen: aussagen (ausdrücken), 
          auslegen (erklären) und übersetzen (dolmetschen). Welcher 
          Bedeutung die Priorität zukommt, ist sprachgeschichtlich nicht 
          festzustellen. Es handelt sich um Modifikationen der Grundbedeutung 
          'zum Verstehen bringen', 'Verstehen vermitteln' in Hinsicht auf verschiedene 
          Weisen des Verstehenproblems" (col. 243).
        
        2) A tal proposito, E. Betti ritiene 
          "un ingenuo pregiudizio provocato dalla forma mentis delle c.d. 
          scienze esatte quello di credere che l'espressione adeguata e 'chiara', 
          mentre rende possibile una intelligenza esatta e sicura, escluda la 
          possibilità di una intelligenza migliore. Qui, come nell'asserire 
          che 'in claris non fit interpretatio', si cade in un ysteron proteron 
          , scambiando per punto di partenza quello che, dato il carattere ellittico 
          di ogni linguaggio, potrà essere, se mai , un punto di arrivo 
          e un risultato del processo interpretativo: l'apprezzamento di chiarezza 
          dell'espressione rispetto al contenuto da esprimere" (Teoria 
          generale dell'interpretazione, Milano, Giuffré, 1990, vol. 
          I, pp. 339-340 ). 
        
        3) Cfr. J.- L. Chrétien, L'arche 
          de la parole, Paris, Puf, 1997.
        
        4) Cfr. G. Špet, Appaerence and Sense. 
          Phenomenology or the Fundamental Science and its Problems, Dordrecht-Boston-London, 
          Kluwer, 1991. Špet, che si era perfezionato con Husserl a Gottinga, 
          dopo aver studiato nella nativa Kiev e a Mosca, ritornato in patria, 
          prima dello scoppio della grande guerra, fu animatore del gruppo fenomenologico 
          di Mosca cui appartenevano i giovani Roman Jakobson e Boris Pasternak.. 
          Egli pubblicò già nel 1914 la sua monografia su Il 
          fenomeno e il suo senso. La fenomenologia come scienza fondamentale 
          e i suoi problemi, della quale abbiamo citato la traduzione inglese 
          nella prestigiosa collana "Phaenomenologica", nella quale 
          veniva proposto una riforma in senso ermeneutico della fenomenologia, 
          qualche anno prima degli ormai noti corsi del giovane Heidegger a Friburgo. 
          La promettente scuola russa di fenomenologia che godette di qualche 
          anno di libertà subito dopo l'Ottobre, fu stroncata dal terrore 
          staliniano (Špet morirà fucilato nel 1937, lasciando numerose 
          opere edite e inedite tra cui una storia dell'ermenutica di straordinaria 
          modernità datata Mosca 1918, pubblicata solo qualche anno fa 
          in russo e in tedesco ; cfr. Die Hermeneutik und ihre Probleme 
          (Moskau 1918), München, Alber, 1993. Su Špet si veda: E. Holenstein, 
          Linguistik, Semiotik, Hermeneutik, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 
          1976; A. Haardt, Husserl in Rußland. Phänomenologie der 
          Sprache bei Gustav Špet und Aleksej Losev, München, Fink, 1993 ; 
          M. Dennes, Husserl-Heidegger. Influence de leur oeuvre en Russie, 
          Paris-Montréal, L'Harmattan, 1998.
        
        5) Cfr. G. Steiner, After Babel. 
          Aspects of Language and Translation, Oxford-New York, Oxford U. 
          P., 1975, 19983 (tr. it. di R. Bianchi e C. Béguin, 
          Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione, Milano, 
          Garzanti, 19942).
        
        6) G. Folena, Volgarizzare e tradurre, 
          Einaudi, Torino 1991, pp. 5-6.
        
        7) Cfr. G. Mounin, Teoria e storia 
          della traduzione, tr. it. di S. Morganti, Einaudi, Torino 1965, 
          p. 18. Questo testo dello studioso francese è stato scritto appositamente 
          per l'editore italiano. 
        
        8) "Any model of communication 
          is at the same time a model of trans-lation, of a vertical or horizontal 
          transfer of significance. No two historical epochs, no two social classes, 
          no two localities use words and syntax to signify exactely the same 
          things, to send identical signals of valuation and inference. Neither 
          do two human beings. [...] We speak to communicate. But also to conceal, 
          to leave unspoken. The ability of human beings to misinform modulates 
          through every wavelenght from outright lying to silence. This ability 
          is based on the dual structure of discourse: our outward speech has 
          'behind it' a concurrent flow of articulate consciounsness. [...] In 
          the majority of conventional, social exchanges, the relation between 
          this two speech currents is only partially congruent. There is a duplicity. 
          [...] Thus a humain being performs an act of translation, in the full 
          sense of the word, when receiving a speech-message from any other human 
          being": G. Steiner, op. cit., pp. 47-48 (tr. it. , pp. 74-75).
        
        9) "The hermeneutic act must compensate. 
          If it is to be authentic, it must mediate into exchange and restored 
          parity. The enactement of reciprocity in order to restore balance is 
          the crux of the métier and morals of translation": 
          ibid., p. 316 (tr. it. , p. 358).
        
        10) "The translation restores the 
          equilibrium between itself and the original, between source-language 
          and receptor-language which had been disrupted by the translator's interpretative 
          attack and appropriation. The paradigm of translation stays incomplete 
          until reciprocity has been achieved, until the original has regained 
          as much as it had lost": ibid., p.415 (tr. it., 468).
        
        11) Cfr. F. Marty, La bénédiction 
          de Babel, Beauchesne, Paris 1990.
        
        12) Cfr. P. Zumthor, Babel ou l'inachèvement, 
          Seuil, Paris 1997 (Babele. Dell'incompiutezza, tr. it. di S. 
          Varvaro, Il Mulino, Bologna 1998).
        
        13) Cfr. K. Jaspers, Die grosse Philosophen, 
          Pieper und Co., München 1957, p. 616 ( I grandi filosofi, 
          tr. it. di F. Costa, Longanesi, Milano 1973, p. 704).
        
        14) Cfr. P. Ricoeur, "Discours et communication", 
          in La communication, Actes du XVe Congrès de 
          l'Association des Sociétés de Philosophie de langue française, 
          Montréal 1971, Montmorency, Montréal 1973, pp. 23-48; 
          una traduzione italiana di questo testo è inclusa nell'antologia: 
          P. Ricoeur, Filosofia e linguaggio, a cura di D. Jervolino, tr. 
          it. di G. Losito, Guerini, Milano 1994, pp. 111-142. 
        
        15) Cfr. F. Marty, op. cit., 
          pp. 34 ss. e E. Ortigues, Le discours et le symbole, Aubier, 
          Paris 1962. 
        
        16) Cfr. A. Berman, L'épreuve 
          de l'étranger. Culture et traduction dans l'Allemagne romantique, 
          Gallimard, Paris 1984 (La prova dell'estraneo, a cura di G. Giometti, 
          Quodlibet, Macerata 1997).
        
        17) In occasione della consegna del 
          Prix de Traduction pour la promotion des relations franco-allemandes 
          (Fondazione DVA di Stoccarda), all'Institut Historique Allemand di Parigi, 
          il 15 aprile 1997.
        
        18) Cfr. Ph. Lacoue-Labarthe et J.-L. 
          Nancy, L'absolu littéraire, Seuil, Paris 1998.
        
        19) G. Folena, op. cit., p. 4.
        
        20) Cfr. É. Benveniste, Le 
          vocabulaire des institutions indo-européennes, Minuit, Paris 
          1969, vol. I, pp. 87-101, 360-361 (Il vocabolario delle istituzioni 
          indoeuropee, tr. it. di M. Liborio, Einaudi, Torino 1976, vol. I, 
          pp. 64-75, 276-277).
        
        21) P. Ricoeur, Défi..., 
          cit., p. 21.
        
        22) Cfr. B. Waldenfels, Topographie 
          des Fremden, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1997, pp. 85-109.
        
        23) Cfr. P. Ricoeur, Soi-même 
          comme un autre,Seuil, Paris 1990, pp. 365-367 (Sé come 
          un altro,  tr. it. di D. Iannotta, Jaka Book, Milano 1993, 
          pp. 429-431).