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Qualcosa di consistente: l'altro e l'io

di Aldo Meccariello

 

Ed infatti quest’uomo è il più legato a me
per parentela ed abita dove abito io
(Platone,
Ippia Maggiore, 304 d-e )

1. Sfogliando il dizionario, vorrei tentare subito una definizione del problema: leggiamo nel Dizionario della lingua italiana di Nicola Zingarelli che "il consistere [vc. dotta, lat. consistere, comp. di cum ‘con’ e sistere ‘collocare’, fermarsi] significa 1. avere il proprio fondamento in qualcosa; 2. essere costituito, composto di qualcosa". Anche altre lingue tendono a dare una dilatazione semantica al termine: l’inglese consistency accentua il significato di impasto, mentre la lingua tedesca articola una serie di sinonimi: die Dichtigkeit, die Festigkeit, die Haltbarkeit, der Bestand, compattezza, densità, solidità.

La consistenza evoca un’idea di spessore, di ciò che tiene insieme (io, tu e gli altri) ma evoca anche l’idea di molteplicità cioè l’essere costituito di…, di tanti elementi, di tanti fili. E poi un terzo significato può alludere all’idea dell’impasto, del mescolare insieme cose diverse, della contaminazione tra elementi eterogenei. Tali significati dicono già molto su una parola (1), oggetto da qualche anno di studi di matrice sociologica, ma che è tutt’ora esclusa dall’universo comunicativo e mediatico.

La consistenza è il contrario dell’evanescenza. C’è una frase di Marx che riassume in modo illuminante e profetico il senso di questa opposizione.

"Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti" (2). Dunque tutto ciò che è solido svanisce nell’aria nel senso che il tratto fondamentale della modernità è l’evanescenza, l’inconsistenza delle cose e degli uomini mutati in merce, è la dissoluzione di ogni esperienza che costringe l’individuo a ruotare all’infinito senza più mete e punti fissi, a compiere banali e omologanti traiettorie dove trova ad attenderlo un vuoto assoluto di identità.

L’ idea di consistenza è dunque un’idea di costruzione capace di far lievitare una nozione altra e oltre rispetto a quella di individuo.

2. Chi è l’individuo consistente? In questo breve saggio mi prefiggo di argomentare la tesi della consistenza nella convinzione che da tale approfondimento sia possibile una ridefinizione del problema dell’altro. Esaminiamo tre modalità di essere della consistenza: l’orientamento, la composizione e la negoziazione. Tali modalità focalizzano le molteplici dinamiche dell’identità individuale, mettono in discussione una concezione monolitica e sostanzialistica di soggettività che è stata dominante nella tradizione filosofica moderna.

Prima di addentrarci nell’analisi di queste proprietà, sarà opportuno richiamare un celebre saggio di G. Simmel del 1908, Excursus sullo straniero, che riflette sulla figura dello straniero all’interno di un capitolo sullo spazio e gli ordinamenti spaziali della società:

"L’unità di vicinanza e di distanza, che ogni rapporto tra uomini comporta, è qui pervenuta a una costellazione che si può formulare nella maniera più breve nei termini seguenti: la distanza nel rapporto significa che il soggetto vicino è lontano, mentre l’essere straniero significa che il soggetto lontano è vicino. Infatti l’essere straniero è naturalmente una relazione del tutto positiva, una particolare forma di azione reciproca (3).

In questo passo simmeliano è utile focalizzare alcuni passaggi teoreticamente rilevanti per il nostro discorso al di là dell’oggetto e del contesto specifico: la prima osservazione è che il rapporto tra persone è uno stare in tensione tra lontananza e vicinanza, è abitare un campo di relazione che vede l’io e l’altro coappartenersi nella distanza; la seconda osservazione concettualizza l’idea di soggettività come una particolare forma di azione reciproca tra soggetti. Simmel fa propria l’affermazione kantiana contenuta nella terza analogia dell’esperienza, secondo cui "tutte le sostanze, in quanto possono venir percepite nello spazio come simultanee, agiscono sempre reciprocamente le une sulle altre" (4). Il rapporto tra le sostanze è un dunque un rapporto dell’influsso per cui "la simultaneità – continua Kant – delle sostanze nello spazio non può nell’esperienza esser conosciuta altrimenti che a patto di presupporre una scambievole azione di esse fra di loro" (5).

L’agire delle sostanze è in realtà un interagire, una spaziatura per fare l’esperienza dell’altro; inoltre, è dentro la dimensione dello spazio che si misura il movimento interagente, inquieto, delle sostanze.

La lettura simmeliana di Kant lascia intravedere la riformulazione del soggetto moderno contaminato di azione reciproca, capace di tenere insieme gli influssi dell’altro da sé dentro i quali esso si costruisce. L’azione reciproca che gli individui esercitano gli uni sugli altri rimanda alla consistenza che possiamo intendere, in prima approssimazione, come l’ininterrotta ricerca della propria individualità nella multiformità degli spazi, dei percorsi e delle possibilità in cui essa s’imbatte, nonché nei suoi molteplici confini da cui si vede attraversata.

La consistenza è l’Erfahrung dell’identità: l’Erfahrung proviene da erfahren, "passare attraverso" cioè il modo in cui la coscienza hegeliana fa esperienza di sé. Scrive Heidegger, che del termine mostra tutte le valenze concettuali e linguistiche:

"Il procedere (fahren) proprio dell’esperire (erfahren) ha il significato originario del condurre […] Il procedere è uno studiar la strada da prendere " (6).

La consistenza è il modo di condurre una vita, comporta l’idea che dare il senso alla propria vita sia "uno studiar la strada da prendere".

3. La consistenza può, quindi, essere predicata. Proviamo a descrivere le proprietà sopra richiamate.

Anzitutto, l’orientamento. Non si dà consistenza senza orientamento.

Che cosa significa orientarsi nella vita? Si orienta nella vita colui che sa realizzare una buona identità.

L’orientamento può ritradursi nella nostra accezione anche come la tensione romantica, novalisiana a prendere possesso della propria interiorità, come l’affermazione di un’identità ben riuscita, come la possibilità che io trovi da solo il senso della mia vita. Come l’eroe romantico va alla ricerca del senso del sé affrontando le peripezie della vita, arrischiandosi in "quel formidabile deserto del mondo"(7), così l’individuo moderno va alla ricerca del proprio consistere - aprendosi a bisogni e a desideri - mettendosi in gioco rispetto a se stesso, rispetto agli altri, rispetto al mondo.

Se l’eroe romantico orienta i suoi gesti e il suo agire nel mondo esclusivamente per la sua auto-esplorazione, per mettere alla prova il suo io, l’individuo moderno cerca il proprio consistere attraverso il riconoscimento dell’altro, negoziando la sua identità attraverso il dialogo con gli altri.

In termini più tradizionali potremmo dire che orientare la propria vita significa fare scelte autentiche, cioè optare per l’autenticità contro i conformismi assordanti della modernità, significa guardare a noi stessi come ad esseri dotati di profondità interne. Il filosofo americano Charles Taylor spiega che l’ideale dell’autenticità è parte essenziale della storia dell’individualismo moderno ancora tutta da raccontare. "Se non sono fedele a me stesso, perdo la sostanza della mia vita, perdo ciò che l’essere uomo è per me. […] Essere fedele a me stesso significa essere fedele alla mia propria originalità, la quale è qualcosa che io solo posso articolare e scoprire. Nell’articolarla, io definisco altresì me stesso, realizzando una potenzialità ch’è propriamente ed esclusivamente mia"(8). Ciascuno, quindi, è chiamato ad essere fedele a se stesso, ha un suo proprio compito e non può scambiarlo con nessuno, pena la perdita di sé. L’elemento costitutivo di questa etica dell’autenticità - secondo Ch. Taylor - è l’originalità, vale a dire sono chiamato a vivere la mia vita in questo modo e non ad imitazione di modi altrui.

Su questa linea si muovono i lavori del sociologo italiano Alessandro Ferrara (9) che sviluppa un complesso discorso sulla tesi dell’autenticità presupposta ad ogni paradigma intersoggettivo. "Possiamo individuare tre diversi modi in cui la tesi dell’autenticità presuppone una prospettiva genuinamente intersoggettiva. In primo luogo, la categoria centrale di identità non può che essere intesa in chiave intersoggettiva. In secondo luogo, la categoria di autorealizzazione presuppone la nozione, centrale in alcune versioni del paradigma intersoggettivo, di riconoscimento"(10). L’autore chiarisce che la tesi dell’autenticità non vuole affatto essere una riedizione della filosofia del soggetto né il ritorno all’identità come autocoscienza, piuttosto la nozione di identità "presuppone, fra le altre cose, sapersi vedere con gli occhi di un altro o sapere assumere il ruolo di un altro" (11). Quindi, un’identità riuscita, orientata è quella che sa vedersi con gli occhi di un altro.

4. La composizione. Non si dà consistenza senza composizione.

"C’è un atto di creazione che ci vede tutti coinvolti: la composizione delle nostre vite" (12). La composizione è un processo che si nutre di continue rotture e di intermittenti improvvisazioni, è un esercizio che smuove le fissità identitarie, rendendole fluide.

L’identità è un composto. Qui si vuole alludere alla composizione come trama, ordito, rete fatta cioè di tanti fili. Potremmo dire che un’identità per composizione rinvia all’inimitabile trattato leibniziano De arte combinatoria cioè la capacità di tenere insieme il multiversum: l’io e l’altro, l’identità e la differenza, la differenza che passa tra l’identità e la differenza. È un modo di essere dell’individuo e di darsi a conoscere come tale. Ritorna la simmeliana interazione delle parti con il tutto in un gioco di infinite combinazioni. Consistenza è anzitutto consistenza di eventi, di incontri con cui il nostro io viene in contatto: la mia azione si intreccia inevitabilmente con quella degli altri, è implicata non senza conseguenze nell’agire degli altri.

Metamorfosi, molteplicità, composizione sono i tratti dell’individuo consistente. Prendiamo l’esempio dell’Albertine proustiana e delle sue metamorfosi. Come è noto, il Narratore della Recherche è perdutamente innamorato di lei, ma avverte un acuto senso di sofferenza ogniqualvolta cerca di capire qualcosa della sua identità: Albertine è sfuggente, mutevole, inafferrabile, camaleontica nelle parole e nei comportamenti: la sua natura somiglia tanto poco a quel che era la volta precedente, che mette scompiglio nella mente già provata del Narratore :

"Non avevo indovinato in Albertine una di quelle donne in cui sotto l’involucro carnale palpitano molti più esseri non dico che in un gioco di carte ancora chiuso nel suo astuccio, o in una cattedrale o in un teatro prima d’entrarvi, ma nella folla immensa e sempre nuova? E non soltanto molti esseri, ma il desiderio, il ricordo voluttuoso, l’inquieta ricerca di loro […] ciò aveva conferito, per me, ad Albertine la pienezza d’un essere riempito sino in fondo dalla sovrapposizione di molti esseri, e di ricordi voluttuosi di esseri"(13).

 

L’identità di Albertine è un composto di innumerevoli esseri: da qui emerge lo spessore del personaggio proustiano, la sua capacità di inventare e di "comporre" la sua esistenza in un gioco di intreccio con quella degli altri. Possiamo dire che la consistenza di Albertine altro non è che la sua determinazione a mostrarsi nei suoi innumerevoli esseri, è la pienezza di un essere riempito che impressiona il Narratore. In ogni amore - dice Proust - c’è una scoperta, una dolorosa ricerca dell’altro, una voluttuosa reminiscenza. L’oggetto amato sfugge continuamente, è evanescente come un’araba fenice. Il Narratore lo sa e per questo si trasforma in potente carceriere al fine di tenere chiusa la sua preda. Ma ci sono tante Albertine, ciascuna delle quali ha un nome, un volto e un essere proprio, anche rispetto a se stessa: in lei l’identico e il diverso si coappartengono in una misteriosa complicità. La sua consistenza si afferma nella continua sovrapposizione di molti esseri, nella capacità di scegliere ora l’uno, ora l’altro, di lasciarli transitare nel magma della vita e dell’esperienza.

Se poi spostiamo lo sguardo su Marcel, il suo ubi consistam è la sofferenza, la consapevolezza che "tutto ciò era menzogna, ma alla quale non avevo il coraggio di cercare altra soluzione fuorché la mia morte"(14). La sua consistenza si espande nei molteplici tragitti della sofferenza e nella dolorosa rinuncia.

5. La negoziazione. Non si dà consistenza senza negoziazione

La costruzione di un’identità è un processo che comporta, sempre delle scelte: che cosa includere o escludere dai confini della nostra "costruzione". Quindi essa ci lega ad altri, nel senso che la negoziamo con gli altri. Ha scritto Taylor che "lo scoprire la mia identità non significa che io la elaboro in un completo isolamento, ma che la negozio attraverso il dialogo - in parte aperto - in parte interiorizzato con gli altri"(15). Storicamente questo bisogno di negoziazione, cioè di riconoscimento (ammesso che diamo qui per sinonimi i due termini), è nato nell’età moderna. Non sorprende – secondo Taylor – che sia dato trovare alcune delle idee basilari in materia di dignità del cittadino e di riconoscimento universale in Rousseau e soprattutto in Hegel. Non è questa la sede per dilungarsi su questo discorso che tocca il destino del soggetto moderno, ma sicuramente conviene ribadire che, sia sul piano privato sia sul piano sociale, il riconoscimento è universalmente ammesso e condiviso.

La negoziazione sovverte la logica dell’identità costituita, provoca delle scelte potenziali, delle possibilità alternative che contrastano la rigidità e la pienezza dell’identità.

Si tratta di un modo diverso di concettualizzare il rapporto tra identità e alterità: non più una tensione conflittuale, di negazione e rifiuto dell’altro, ma il riconoscimento dell’alterità nel suo essere coessenziale all’identità. Occorre ammettere, cioè, che alterità e identità sono intrinsecamente legate nella loro formazione: innanzitutto perché l’alterità stessa precede il processo di costruzione identitaria; in secondo luogo perché l’identità è fatta anche di alterità ed è continuamente costretta a negoziare con essa i suoi confini. In questa prospettiva l’identità non è più una costruzione compatta e immutabile, ma risulta il frutto di un processo continuo di contrattazione con l’altro.

Negoziare la propria identità è soprattutto una sfida al mondo globalizzato. Lo straniero sul piano intimo è introiettato, assimilato, annullato nei nostri sistemi identitari, sul piano sociale è derubricato a merce in nome dell’inclusione universale, mentre sul piano politico è un nemico storicamente necessario alla costruzione delle identità nazionali. Nella società della comunicazione globale e dell’uniformazione, lo straniero è puramente despazializzato, completamente espropriato, confinato nel limbo delle non persone. Al contrario deve essere riaffermata e ricostruita una cultura del riconoscimento per neutralizzare la carica di ostilità che connota la figura dello straniero: un passo essenziale verso la cultura del riconoscimento è l’esperire empatico, cioè la capacità di sentire l’altro e di rendersi conto di qualcosa o di qualcuno che sta davanti a me. Empatizzando, incontro l’altro.

Tralascio la vasta letteratura sull’argomento e gli usi molteplici a cui questa grande categoria formativa si presta anche in ambito sociale per concentrarmi sulla spiegazione che ne dà Edith Stein, la grande fenomenologa, allieva di Husserl, morta ad Auschwitz nel 1942: "Affiorando di colpo davanti a me, mi si contrappone come oggetto (come le sofferenze che leggo sul viso dell’altro); ma mentre analizzo le tendenze che questo porta con sé, mentre cerco di chiarire a me stesso lo stato d’animo nel quale l’altro si trova, questo non è più oggetto in senso proprio ma mi ha coinvolto in sé"(16).

L’esperire empatico è la comprensione dell’altro, è il trovarsi presso l’altro: ciò rafforza la sensibilità nei confronti di chi è diverso da noi e rende possibile un gioco di interazioni al punto tale che spontaneamente sentiamo il bisogno di negoziare la nostra identità. L’Io si libera così dal suo carattere monadico per riemergere in un Noi come soggetto di grado più elevato. "Lo stesso può accadere agli altri e così, empatizzando, arricchiamo il nostro sentire, e noi ora sentiamo un’altra gioia rispetto a quella che sentivamo io, tu o lui restando isolati" (17).

In altri termini, l’esperire empatico è un esercizio di consistenza perché ci permette di acquistare spessore in questa relazione con il "sapere del vissuto altrui". Infatti, l’identità di ogni individuo è alimentata e contaminata da molte altre identità. E l’empatia è un rendersi conto che c’è l’altro nell’orizzonte del mio essere, della mia esperienza. "L’empatia attesta dunque la possibilità della circolazione o comunicazione dell’esperienza, non perché due soggetti diventino uno, si confondano o trovino un’analogia e un’identità misteriosa, ma perché è possibile riferirsi a qualcosa che non siamo noi, ma non è una cosa, è la realtà vissuta di un altro essere umano" (18).

Tuttavia, l'essenza dell’empatia non significa una immedesimazione con l’altro, ma una disponibilità a lasciare all’altra persona la sua autonomia; pertanto la mia autonomia e quella dell’altro implicano, comunque, una contrattazione che non è necessariamente cognitiva ma può svolgersi anche in modalità emotive e/o narrative.

Il soggetto consistente è un soggetto dilatato, contaminato a connessioni potenziali, a vicinanze e ad affinità inesplorate, in cui si scopre coessenziale il senso dell’alterità.

Prendiamo ad esempio l’amore (19). Nel sentimento d’amore si compie un atto di creazione, perché l’amante, quando assume in sé l’altro, crea e compone come l’artista; il legame tra l’amante e l’amato è un legame di creazione che mescola una profonda vicinanza e un’irriducibile distanza.

"Più nero del nero, sono più nudo.
Infedele solo sono fedele
Io sono tu, quando io sono io" (20).

Così scrive Paul Celan, in Lode della lontananza, spiegando la forma e l’essenza dell’amore, nel suo farsi concretezza, pratica di contaminazione e di ricreazione dell’altro. Contaminare la propria vita nell’amore è un esercizio di consistenza, di esperienza dell’altro. Questo verso Io sono tu, quando io sono io si nutre di una misteriosa ed impenetrabile bellezza.

Ad una prima lettura, posso affermare che io sono io quando mi scopro nell’altro e mi vedo con gli occhi dell’altro: l’io non è l’io, ma diventa io solo nell’espressione del tu, dell’altro. E così il tu, l’altro vengono prima. (21). Ciò che veramente si ama è il mutare e il divenire che è proprio degli amanti; il loro scambio osmotico, empatico rende consistenti le rispettive individualità.

"L’amore di un essere umano per un altro, è forse la prova più ardua per ciascuno di noi, la testimonianza più alta di noi stessi; l’opera suprema di cui tutte le altre non sono che la preparazione"(22).

Così scriveva nel 1904 Rainer Maria Rilke per il quale l’amore è l’occasione unica di maturare, di prendere forma, di acquistare consistenza.

Un’ipotesi conclusiva

La consistenza è un esercizio che dà il tono ad una vita, perforando quell’enigma che è l’identità di una persona.

Orientamento, composizione e negoziazione sono proprietà transitive che non si lasciano conservare nello scrigno della fissità e perciò scompaginano i principi stessi della gerarchia identitaria. Identità e alterità, identità e differenza non sono più coppie gerarchicamente definite; la consistenza ne svuota il contenuto binario, cioè dicotomico, per cui lo stesso problema dell’altro va radicalmente reimpostato e ridefinito. Il mio divenire s’incrocia con il divenire dell’altro, il mio essere consistente s’incrocia con l’essere consistente dell’altro. Io non sono identico a me stesso come l’altro non è mai identico a se stesso.

Non c’è un’identità che osserva e incontra l’alterità, ma c’è un’identità che osserva e incontra l’identità.

È solo attraverso un’esperienza di profonda vicinanza con l’altro che scopro il mio consistere, la mia ineludibile contingenza (23).

Alimentandosi alla linfa della consistenza, l’identità assume così carattere proteiforme e scopre la sua errante radice.

 

Note

(1) L’ultima lezione americana di Italo Calvino, la sesta, doveva essere dedicata alla parola consistenza "Consistency". Di questa lezione mai scritta parla Esther Calvino, nella sua nota introduttiva, "so solo che si sarebbe riferito a Bartleby di Herman Melville" (I. Calvino, Lezioni americane, Milano, A. Mondadori, 1993, p.VI). Studi recenti hanno riproposto l’idea di consistenza non sempre in maniera univoca. Penso ai lavori di Alessandro Ferrara (L’eudaimonia postmoderna, Napoli, Liguori, 1992), di Paolo Jedlowski (Il sapere dell’esperienza, Milano, Il Saggiatore, 1994) e di Gabriella Turnaturi (Flirt Seduzione Amore, Milano, Anabasi, 1994). Il termine consistenza, sia pure con notevoli sfumature nei tre autori, significa anzitutto un criterio per condurre e orientare la propria vita. Ferrara preferisce parlare di "autorealizzazione di un’identità" secondo precisi parametri quali la coerenza, la vitalità, la profondità e la maturità, mentre Turnaturi insiste sull’idea di consistenza come divenire che si riconosce non nel progetto ma nel percorso, nell’ascolto attento a tutte le parti di sé e alle risposte che il sé dà rispetto alle esperienze vissute. Jedlowski lega invece consistenza ed esperienza ritenendo che l’esperienza è un processo, mentre il suo esito è la "consistenza del soggetto".

(2) Karl Marx, Il Manifesto del partito comunista, a cura di Emma Cantimori Mezzomonti e prefazione di Lucio Colletti, Roma-Bari, Economica Laterza, 1995, p. 87.

(3) Georg Simmel, Sociologia, tr.it. e intr. di Alessandro Cavalli, Torino, Edizioni di Comunità, 1998, p. 580.

(4) Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura, a cura di Vittorio Mathieu, Bari, Laterza, 1977, p. 217. Cfr. sui rapporti Kant-Simmel la lucida interpretazione di Luca Burgazzoli. Lo straniero nel pensiero di G.Simmel in AA.VV. Lo straniero e il nemico, Materiali per l’etnografia contemporanea, a cura di Alessandro Dal Lago, Genova - Milano, Costa & Nolan,1998, pp.64-80.

(5) I. Kant, Op. cit., p. 218.

(6) Martin Heidegger, Sentieri Interrotti, a cura di Pietro Chiodi, Firenze, La Nuova Italia, 1973, p. 168.

(7) Giacomo Leopardi, Lettera a Pietro Giordani, 17 Dicembre1819 in Tutte le poesie e tutte le prose, Roma, Newton & Compton editori, 1997, p. 1192.

(8) Charles Taylor, Il disagio della modernità, Roma-Bari, Economica Laterza, 1999, p. 36.

(9) Alessandro Ferrara, L’eudaimonia postmoderna op. cit.; vedi anche Id., Intendersi a Babele. Autenticità, phronesis e progetto della modernità, Catanzaro, Rubbettino 1994; Id., Autenticità riflessiva, Milano, Feltrinelli, 1999.

(10) A. Ferrara, Intendersi a Babele, cit., p. 63.

(11) Ivi, p. 63.

(12) Mary Bateson, Comporre una vita, tr.it., Milano, Feltrinelli, 1992, p. 13. L’autrice, che è figlia di Margaret Mead e Gregory Bateson, riflette in questo suo lavoro "sulla vita come arte dell’improvvisazione, sul modo in cui ciascuna di noi combina ciò che è familiare e ciò che è sconosciuto in risposta a situazioni nuove, seguendo una grammatica di fondo e un’estetica del divenire" (p. 14). Sul tema dell’identità per composizione in una prospettiva radicalmente diversa cfr. l’opera di Sergio Moravia, L’enigma della mente, Roma-Bari, Laterza, 1996.

(13) Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, vol. V. La prigioniera, a cura di Mariolina Bongiovanni Bertini, Torino, Einaudi, 1978, p. 92.

(14) Ibidem, p. 370.

(15) Ch. Taylor, Op .cit. pp. 56-57.

(16) Edith Stein, L’empatia, a cura di Michele Nicoletti, Milano, Franco Angeli, 1985, p. 62.

(17) Ibidem, p.72.

(18) Laura Boella, Annarosa Buttarelli, Per amore di altro, Milano, Raffaele Cortina Editore, 2000, p. 70.

(19) Rinvio alle pagine dello splendido libro di Gabriella Turnaturi, cit., p. 75; "Indipendentemente dalla volontà dei soggetti coinvolti, l’amore nasce dalla contaminazione di due individualità, dalla contaminazione del soggetto col mondo, del soggetto con l’altro, e produce a sua volta contaminazione. L’amore produce alterità e alterazione, vive nell’alterità e nel trasformare. L’oggetto d’amore, per essere tale, deve essere altro da me, e insieme ci alteriamo perché siamo vicendevolmente l’altro, e perché ci trasformiamo".

(20) Antonio Prete, L’ospitalità della lingua, Baudelaire e altri poeti, Lecce, Ed. Pietro Manni, 1996, p. 121.

(21) La riflessione sullo statuto del vedere è centrale nella filosofia novecentesca. Possiamo citare, a titolo di esemplificazione, Merleau-Ponty, per il quale il soggetto esiste nell’espressione altrui, e sente l’altro esistere nella propria. Al suo nome va aggiunto quello di Levinas, per il quale lo sguardo diventa il veicolo privilegiato dello scambio con l’altro.

(22) Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, Roma, Carlo Mancosu editore, 1993, p. 93.

(23) Rinvio al saggio di Günther Anders, Patologia della libertà. Saggio sulla non-identificazione, Bari, Palomar, 1993. L’identità vive la singolare esperienza della contingenza, costretta, com’è, a continue peregrinazioni. Si ritrova e si perde, si ritrae e si astrae, scoprendo così la sua contingenza.