indice del numero 4

 

 

 

 

Quando si toglie tutto, non resta niente

di Jean Baudrillard

cfr. la nota introduttiva


1

 

È falso.

L’equazione del tutto e del niente, la sottrazione del resto, è falsa da un capo all’altro.

Non è che non ci sia resto. Ma questo non ha mai realtà autonoma, né un luogo proprio: è ciò la cui suddivisione, circoscrizione, esclusione designa… che altro? E’ attraverso la sottrazione del resto che si fonda e prende forza di realtà… che altro?


La cosa strana è che non c’è affatto alcun termine opposto in una opposizione binaria: si può dire la destra/la sinistra, lo stesso/l’altro, la maggioranza/la minoranza, il folle/il normale, ecc. – ma il resto/ ? Niente dall’altro lato della barra. “La somma e il resto”, l’addizione e il resto, l’operazione e il resto – non sono affatto opposizioni distintive.


E tuttavia quello che si trova dall’altro lato del resto esiste, è anzi il termine messo in evidenza, il tempo forte, l’elemento privilegiato in questa opposizione stranamente asimmetrica, in questa struttura che non lo è affatto. Ma questo termine messo in evidenza non ha affatto un nome. E’ anonimo, instabile e privo di definizione. Positivo, ma solo il negativo gli dà forza di realtà. A rigore, esso non potrebbe essere definito se non come il resto del resto.


Il resto rinvia così ben più che a una divisione chiara a due termini localizzati, a una struttura girevole e reversibile, struttura dalla reversibilità sempre imminente, dove non si sa mai quale è il resto dell’altro. In nessun’altra struttura è possibile operare questa reversibilità, o questa mise en abyme: il maschile non è il femminile del femminile, il normale non è il folle del folle, la destra non è la sinistra della sinistra, ecc. Solo forse nello specchio la questione può essere posta: chi, tra il reale e l’immagine, è il riflesso dell’altro? In tal senso si può parlare del resto come di uno specchio, o dello specchio del resto. È che nei due casi, la linea di demarcazione strutturale, la linea di partizione del senso, è diventata fluttuante, è che il senso (letteralmente: la possibilità di andare da un punto ad un altro secondo un vettore determinato dalla posizione rispettiva dei termini) non esiste più. Non c’è più una posizione reciproca — dileguandosi il reale per lasciar posto ad una immagine più reale del reale, e inversamente — dileguandosi il resto dal luogo ad esso assegnato per risorgere all’inverso, in ciò di cui era il resto etc.


Lo stesso vale per il sociale. Chi potrà dire se il resto del sociale è il residuo non socializzato, oppure se non è il sociale stesso ad essere il resto, il gigantesco rifiuto… di che altro? Di un processo che, sarebbe esso completamente scomparso e non avrebbe altro nome che il sociale, lo stesso non ne sarebbe che il resto. Il residuo forse alla dimensione totale del reale. Quando un sistema ha assorbito tutto, quando si è tutto addizionato, quando non resta niente, l’intera somma volge a resto e diviene resto.


Vedere la rubrica “Societé” de “Le Monde”, dove non appaiono paradossalmente che gli immigrati, i delinquenti, le donne, ecc. – tutto quello che non è stato socializzato, casi “sociali” analoghi ai casi patologici. Sacche da assorbire, segmenti che il sociale isola a mano a mano che si espande. Indicati come “residuali” all’orizzonte del sociale, essi entrano per ciò stesso nella sua giurisdizione e sono destinati a trovare il loro posto in una socialità allargata. È su questo resto che la macchina sociale si rimette in moto e trova nuova energia. Ma che accade quando tutto è assorbito, quando tutto è socializzato? Allora la macchina si ferma, la dinamica si capovolge, ed è il sistema sociale tutto intero che diventa residuo. A mano a mano che il sociale nella sua espansione progressiva elimina ogni residuo, diventa esso stesso residuale.

Designando come “Società” le categorie residuali, il sociale designa se stesso come resto.


L’impossibilità di determinare quello che è il resto dell’altro caratterizza la fase di simulazione e di agonia dei sistemi fondati sulla distinzione, fase in cui tutto diviene resto e residuale. Inversamente, la scomparsa della barra fatidica e strutturale che isolava il resto dal ??? e che permette ormai ad ogni termine di essere il resto dell’altro caratterizza una fase di reversibilità in cui virtualmente non c’è più resto. Le due proposizioni sono “vere” simultaneamente e non si escludono. Sono esse stesse reversibili.


2


Altro aspetto altrettanto curioso quanto l’assenza del termine opposto: il resto fa ridere. Qualunque discussione su questo tema fa scattare gli stessi giochi linguistici, la stessa ambiguità e la stessa oscenità delle discussioni sul sesso o la morte. Sesso e morte sono i due grandi temi riconosciuti per poter scatenare l’ambivalenza ed il riso. Ma il resto è il terzo. E forse il solo, essendo gli altri due riconducibili ad esso come alla figura stessa della reversibilità. Perché, per quale ragione si ride? Non si ride che della reversibilità delle cose, e il sesso e la morte sono figure eminentemente reversibili. E’ perché il gioco è sempre reversibile tra il maschio e la femmina, tra la vita e la morte, che si ride del sesso e della morte. Quanto più ancora si ride del resto, che non conosce neanche un termine opposto, che percorre da solo tutto il ciclo, e corre infinitamente dietro la sua propria barra, dietro il suo proprio doppio, come Peter Schlemihl dietro alla sua ombra ? (1). Il resto è osceno perché è reversibile e si scambia in se stesso. E’ osceno e fa ridere, come solo fa ridere, profondamente ridere, l’indistinzione del maschile e del femminile, l’indistinzione della vita e della morte.


3


Il resto è diventato oggi il termine forte. E’ sul resto che si fonda una nuova intelligibilità. Fine di una certa logica delle opposizioni distintive in cui il termine debole funzionava come termine residuale. Oggi tutto si capovolge. La stessa psicoanalisi è la prima grande teorizzazione dei residui (lapsus, sogni, ecc.). Non è più un’economia politica della produzione a dirigerci, ma un’economia politica della riproduzione, del riciclaggio – ecologia e inquinamento – un’economia politica del resto. Tutto la normalità è rivista oggi alla luce della follia, che non era che il suo resto insignificante. Privilegio di tutti i resti, in tutti i campi, del non-detto, del femminile, del folle, del marginale, dell’escremento e del rifiuto in arte, ecc. Ma questo non è ancora che una sorta di inversione della struttura, di ritorno del rimosso come tempo forte, di ritorno del resto come sovrappiù di senso, come eccedenza (ma l’eccedenza non è formalmente diversa dal resto, e il problema del dispendio dell’eccedenza in Bataille non è diverso da quello del riassorbimento dei resti in una economia politica del calcolo e della penuria: solo le filosofie sono differenti), di una maggiore offerta di senso a partire dal resto. Segreto di tutte le “liberazioni”, che giocano sulle energie nascoste dall’altro lato della barra.


Ora siamo davanti a una situazione molto più originale: non quella dell’inversione pura e semplice e della promozione dei resti ma quella di una instabilità di ogni struttura e di ogni opposizione, che fa si che non c’è più resto, per il fatto che questo è dappertutto e, infischiandosi della barra, si annulla in quanto tale.


Non è quando si è levato tutto che non resta niente, ma quando le cose si capovolgono senza fine e l’addizione stessa non ha più senso.


4


La nascita è residuale se non è ripresa simbolicamente per mezzo dell’iniziazione.

La morte è residuale se non si risolve nel lutto, nella festa collettiva del lutto.

Il valore è residuale se non è riassorbito e volatilizzato nel ciclo degli scambi.

La sessualità è residuale quando diventa produzione di rapporti sessuali.

Il sociale stesso è residuale quando diventa produzione di “rapporti sociali”.

Tutto il reale è residuale, e tutto quello che è residuale è destinato a ripetersi indefinitamente nel fantasma.


5


Ogni accumulazione non è che resto e accumulazione di resto, nel senso che essa è rottura dell’alleanza, e compensa nell’infinito lineare del cumulo e del calcolo, nell’infinito lineare della produzione, dell’energia e del valore, quello che si compiva prima nel ciclo dell’alleanza. Ora, quello che percorre un ciclo si compie totalmente, mentre nella dimensione dell’infinito, tutto quello che è al di sotto della barra dell’infinito, al di sotto della barra dell’eternità (questo stoccaggio di tempo che è esso stesso, come qualunque altro stoccaggio, rottura d’alleanza), tutto questo non è che resto.


L’accumulazione non è che resto, e la rimozione non è altro che la sua forma capovolta e simmetrica. Lo stoccaggio di affetti e di rappresentazioni rimosse, è su questo che si fonda la nostra nuova alleanza.


Ma quando tutto è rimosso, niente lo è più. Noi non siamo affatto lontani da questo punto assoluto della rimozione dove gli stoccaggi stessi si disfano, dove gli stoccaggi di fantasmi si affondano. Tutto l’immaginario dello stoccaggio, dell’energia e di quello che ne resta, ci viene dalla rimozione. Quando questa arriva ad un punto di saturazione critica in cui la sua evidenza si capovolge, allora le energie non dovranno più essere liberate, spese, economizzate, prodotte: è il concetto stesso di energia che si volatilizzerà da solo.


Oggi si fa del resto, delle energie che ci restano, della restituzione e della conservazione dei resti, il problema cruciale dell’umanità. Esso è insolubile in quanto tale. Ogni nuova energia liberata o spesa lascerà un nuovo resto. Ogni desiderio, ogni energia libidica produrrà una nuova rimozione. Di che sorprendersi, visto che l’energia stessa non si concepisce se non nel movimento che l’accumula e la libera, che la rimuove e la “produce”, vale a dire nella figura del resto e del suo doppio?

Bisogna spingere al consumo insensato dell’energia per distruggerne il concetto. Bisogna spingere alla rimozione massima per distruggerne il concetto. Quando l’ultimo litro di energia sarà stato consumato (dall’ultimo ecologo), quando l’ultimo indigeno sarà stato analizzato (dall’ultimo etnologo), quando l’ultima merce sarà stata prodotta dall’ultima “forza lavoro” restante, quando l’ultimo fantasma sarà stato spiegato dall’ultimo analista, quando tutto sarà stato liberato e consumato “con l’ultima energia”, allora ci si accorgerà che questa gigantesca spirale dell’energia e della produzione, della rimozione e dell’inconscio, grazie alla quale si è riusciti a racchiudere tutto in una equazione entropica e catastrofica, che tutto questo non è altro in effetti che una metafisica del resto, e questa stessa sarà risolta di colpo in tutti i suoi effetti.

(trad. di Vincenzo Cuomo)


(articolo pubblicato nella rivista Traverses, n° 11, 1978, pp. 12-15)


 

(1) L’allusione a Peter SchlemihI, l’Uomo che ha perduto la sua Ombra, non è affatto accidentale. Poiché l’ombra, come l’immagine nello specchio (nello Studente di Praga), è per eccellenza un resto, qualcosa che può « cadere » dai corpi, proprio come i capelli, gli escrementi o pezzi d’unghie a cui quelle sono assimilate nell’ambito di tutta la magia arcaica. Ma esse sono anche, lo si sa, «metafore» dell’anima, del soffio, dell’Essere, dell’essenza, di ciò che profondamente dà un senso al soggetto. Senza immagine o senza ombra il corpo diventa un niente trasparente, esso stesso non è niente di più che un resto. Non è altro che la sostanza diafana che resta una volta che l’ombra è andata via. Esso non ha più realtà: è l’ombra che ha portato via tutta la realtà con sé (anche nello Studente di Praga, l’immagine spezzata con lo specchio porta alla morte immediata dell’eroe — sequenza classica dei racconti fantastici — vedasi anche «L'ombra» di Hans Christian Andersen). Anche il corpo può non essere che il rifiuto del suo proprio residuo, il cascame del suo proprio cascame. Solo l’ordine detto reale permette di privilegiare il corpo come riferimento. Ma niente nell’ordine simbolico permette di scommettere sulla priorità dell’uno o dell’altro (del corpo o della sua ombra). Ed è questa reversibilità dell’ombra nei confronti del corpo, è questo cascame dell’essenziale sotto il colpo dell’insignificante, è questo disfacimento incessante del senso dinanzi a ciò che resta, che sia questo un residuo di unghia oppure l’oggetto “a piccolo”, che produce il fascino, la bellezza e l’inquietante estraneità di queste storie.



 

 

 

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