indice del numero 4

 

 

 

 

Resti di Glas

di Jacques Derrida

 

(a cura di Gabriella Baptist)


Ciò che resta


di Glas

Delle numerose opere di Jacques Derrida, Glas sembra essere la più rimossa, quella su cui in genere si tace, che non si considera affatto o si nomina solo marginalmente. Paradossalmente questo è un destino che assai bene le si addice e che anzi ne conferma l’urgenza e lo spessore, visto che affronta appunto questioni di margini e destituzioni. La recente Introduzione a Derrida curata da Maurizio Ferraris, uno dei primi studiosi italiani ad occuparsi di decostruzione, la relega in nota o nelle cronologie e bibliografie finali, per amor di completezza; una precedente presentazione del nostro autore da parte di Mario Vergani concede almeno qualche riguardo in più, ma solo per sottolineare che si tratta di un esperimento avanguardistico di scrittura; persino chi si occupa esplicitamente del legame teorico tra Derrida e Hegel finge di dimenticare che Glas si occupa esplicitamente di un confronto, pur dimezzato, con il filosofo tedesco. (1) Ma di che cosa si tratta e perché tutto questo imbarazzo, che ha in genere costretto seguaci, esegeti e interpreti a cavarsela semplicemente con l’omissione?

Glas è un testo degli anni Settanta, generatosi a partire da seminari su Hegel tenuti da Derrida all’Università di Irvine e alla Freie Universität di Berlino. (2) L’origine accademica contrasta certamente, a prima vista, con la non convenzionalità ed anzi spregiudicatezza della sua scrittura, peraltro le Università che ne sono state a battesimo si caratterizzano precisamente per l’apertura alla sperimentazione e all’innovazione. Si tratta di un testo scritto su due colonne che risultano poi entrambe, a loro volta, intrecciate, interpolate, intricate e tortili, incrostate e tatuate da altre inserzioni. Già al primo sguardo Glas risulta un testo fratturato e scisso, tagliato con le forbici, troncato, inciso, circonciso, castrato, se si vuole, e addirittura decapitato, visto che non ha letteralmente né capo né coda, né inizio né fine (nessuna maiuscola per incominciare, nessun segno di interpunzione per finire). Non è solo e semplicemente un lavoro enigmatico, ma anche enigmistico, anagrammatico, anamorfotico, che tematizza se stesso e fornisce qua e là chiavi che lo complicano ulteriormente, illuminandone l’eterogeneità come una raffinata costruzione niente affatto aleatoria. (3)

Le due colonne si levano l’una di fronte all’altra, l’una a fianco dell’altra e si possono considerare solo nel va e vieni zigzagante dall’una all’altra, che è l’andata-e-ritorno o il double bind di una lettura strabica, senza circolarità né specularità: “X, chiasmo quasi perfetto, piuccheperfetto, di due testi messi l’uno al cospetto dell’altro: una galleria e una grafia che si guardano a vicenda e si perdono di vista”. (4)

La colonna di sinistra è dedicata ad una interpretazione di Hegel, quella di destra ad una lettura di Genet: da un lato la filosofia nel suo trionfo sistematico, indagata peraltro proprio là dove la dialettica non tiene o trova un intoppo; dall’altro lato una letteratura niente affatto decorativa, ma che si occupa di avanzi di galera e decomposizioni, di secrezioni corporali, più che di pneumatiche ispirazioni. Si dovrà forse dire che abbiamo allora la coscienza da un lato e l’inconscio dall’altro? a sinistra un sé presuntamene assoluto, che inciampa ripetutamente nella finitezza e nelle sue pochezze, nonostante le grucce del sapere, e, a destra, un’antologia istintuale che vuole essere letteralmente un florilegio, magari liberatorio, un’‘anterezione’ di fiori fallici, come esplicitamente si dice? il pensiero in azione di qua, il gioco all’opera di là? lo spirito che si innalza da una parte e una materialità che rovina dall’altra? Ma le due colonne si intersecano anche continuamente, si contaminano, si rispondono, si ammiccano, si fanno addirittura il verso, come quando a sinistra si interroga la famiglia hegeliana, per ricordare poi a destra la discendenza bastarda e matrilineare di Genet, oppure come quando a sinistra si discetta di sepolture e del loro significato spirituale, per citare poi a destra le Pompe funebri di prostitute e invertiti. È come se Glas fosse un testo scritto con entrambe le mani, pensato con entrambi gli emisferi cerebrali, da leggere sia (classicamente?) da sinistra a destra – dal concetto alla natura, dalla scienza e dalla ragione all’arte e ai sensi, dalla filosofia con il suo vero alla letteratura e il suo verosimile, dalla totalità a tutto il resto – sia (semiticamente?) da destra a sinistra – dalla datità del singolare all’essenza dell’universale, dal gioco del linguaggio alla sua logica, dalla poesia alla teoresi che le è sottesa o implicita, dal rimosso e dal residuo a dove questi ci vorranno riportare.

Glas significa campana a morto e in effetti si presenta come un tentativo di elaborazione del lutto per la fine annunciata del significato, del senso, del significante, della proprietà letteraria, del diritto d’autore (5) e si potrebbe continuare aggiungendo e azzardando: per la fine della modernità, della metafisica, della storia, per il tramonto dell’Occidente, la morte dell’arte e via di catastrofi in apocalissi. Per chi suona la campana? Che ne è di chi resta? Che cosa resta dopo, se resta pure qualcosa? Si potrà ricominciare dalle macerie? dallo smembramento che Glas mette in opera con i suoi ritagli e stereoscopie? In un foglio non numerato ed aggiunto all’edizione originale francese con il titolo: Prière d’insérer Derrida chiede: “Che cosa resta del sapere assoluto? della storia, della filosofia, dell’economia politica, della psicoanalisi, della semiotica, della linguistica, della poetica? del lavoro, della lingua, della sessualità, della famiglia, della religione, dello Stato ecc.? Che cosa resta, nel dettaglio, del resto?”

Con il problema del resto, del vestigio, del residuo, del rifiuto, del detrito iniziano entrambe le colonne: “che ne è del resto oggi, per noi, qui, ora, di un Hegel?”, a sinistra; a destra invece: “« ce qui est resté d’un Rembrandt déchiré en petits carrés bien réguliers, et foutu aux chiottes » si divide in due”, si tratta della citazione di un breve testo di Genet che rappresenta nella sua struttura formale il modello di Glas e che, con il suo Rembrandt spezzettato e gettato al degrado di una latrina, annuncia senza mezzi termini che si sta facendo sul serio. (6)

La selezione che presentiamo di Glas resta nel solco delle sue intenzioni e anzi le potenzia, perché ritaglia da un insieme pensato comunque come un mosaico alcune tessere che vanno a ricomporre un disegno del resto, di quello che resta.


di Hegel

L’operazione della riflessione è già letteralmente uno sdoppiarsi e rifrangersi. In Glas non solo l’interpretazione di Hegel è visivamente affiancata da un bordone letterario che sembra dare il tono o comunque proporre un controcanto, ma è anche internamente indirizzata ad interrogarsi su ciò che resiste alle macchinazioni speculative, su ciò che ne risulta come avanzo. Abbiamo ritagliato dal testo quanto Derrida presenta come ciò che la dialettica non riesce a digerire e che quindi è l’indigesto del sistema: rimandi all’esclusione del figlio illegittimo dalla famiglia hegeliana (anche da quella personale di Hegel, che non aveva accolto né riconosciuto Ludwig); stralci dalla lettura del giudaismo, paragonato a quel resto di pietra che non riesce a volare e perciò ricade sempre in terra; passi che si interrogano sulla digeribilità o meno dell’eucaristia o del medicinale; brani sullo ‘smaltimento’ di rifiuti eccellenti come i cadaveri, dove naturalmente troneggia Antigone tra i sopravvissuti, lei stessa considerata come un resto di sistema, inclassificabile ed impossibile nella sua resistenza ammirata, ma anche poco duttile alla Aufhebung e intesa da Derrida implicitamente attraverso le trame che la psicoanalisi e il femminismo hanno intrecciato tra Lacan e Irigaray.

E se l’inassimilabile, l’indigesto assoluto giocasse un ruolo fondamentale nel sistema”? (7) Quale riscatto teorico per ciò che resta? Si risponderà che l’escluso assicura uno spazio di possibilità ed organizza il terreno a cui non appartiene, risultando quindi come il vero trascendentale, non più reincorporabile, anzi come il trascendentale del trascendentale. (8) È il tempo che resta dopo il sapere assoluto, il tempo che avanza nonostante il sistema, quello stesso tempo che la dialettica aveva cercato di piegare alle sue leve, di annullare (tilgen) e superare facendo della triade un circolo, smussandone gli angoli, facendone un testo: un testo che resta e in cui fermenta lo spirito con le sue esalazioni, i suoi effluvi e fervori, nello scialo di un’economia non più ristretta solo alla circolazione e al computo, ma aperta allo spreco della perdita, à la Bataille. Il tempo in avanzo è quello che non si ha ma si dona, il tempo fuori tempo e a controtempo della sorpresa impensata, il tempo senza tempo dell’arte. Che cosa resta del testo? Dell’opera di un artista?


di Genet

Al cospetto delle sublimazioni sistematiche riprese a sinistra e che si concentrano su temi ‘alti’ quali per esempio la religione, sulla colonna di destra, che si presenta anche visivamente meno compatta e in carattere più grande, l’arte in opera risulta perlopiù orale, anale o fallica, quasi una regressione ad un degré zéro. Nel trionfo di secrezioni, escrementi ed erezioni di protagonisti che portano peraltro nomi santi e immacolati sembra vincere il corpo, non solo nella sua pesantezza più greve, ma anche nella sua insospettata volatilità: se indaghiamo davvero sul resto, che ne è di quel resto che neanche rimane perché letteralmente non si forma e perciò si sottrae con uno sberleffo ad ogni ontologia? Qual è lo statuto del peto, del rutto, dell’effluvio che emana la decomposizione, quella puzza di gas così vicino etimologicamente al Geist? Questioni assai poco futili, visto che si tratta di un’arte in odore di dissolutezza e dissoluzione.

Anche il corpo del linguaggio è indagato nei suoi effetti vischiosi retti da qualche meccanismo pulsionale che accorpa lettere, per esempio, nell’agglutinazione (il rimando alla combinazione G+L diventa allora il marchio stesso dell’operazione, oltre che un’altra possibile chiave del titolo), ma nell’associazione genera anche significati imprevisti, quasi fossero atti mancati di una lingua che lavora su di sé in maniera niente affatto insensata. (9)

Dei brani genetiani tagliati con le forbici della decostruzione e ricuciti con l’ago e il filo della disseminazione, dragati dalla matrice dentata della lettura derridiana, che stacca bocconi da noi ulteriormente sbocconcellati, restano stralci di grande effetto, il cui filo conduttore sembra essere sempre la custodia impossibile di una perdita. Come a sinistra restava, tra l’altro, Antigone/Cibele, così a destra resta, tra il resto, la madre, mascherata da tutti i personaggi-fiori dei testi genetiani ed impiastrata di tutte le secrezioni mucose cui frequentemente si allude e che rimandano in fondo sempre al teatro della nascita e della morte. Altrimenti che cos’altro resta?


del resto

Che cosa resta del ‘resto’ quando lo si mette così in pezzi?” (10) “lo scarto, come indica il nome, ritaglia il testo in quadrati o lo eleva al quadrato, lo divide in quarti più o meno regolari, lo esalta (al contrario o proprio per questo) o vi riverisce la carta, a meno che non lo distribuisca come carte da gioco. Che ne è del testo come resto – insieme di pezzetti che non procedono più dal tutto e non ne formeranno mai più uno?” (11)

Con la nostra antologia di Glas abbiamo distribuito le carte per una singolare caccia al tesoro che fruga, sì, nella spazzatura, come fanno i mendicanti, ma per cercare ancora le sorprese dell’inatteso e del futuro che albergano nella tradizione del pensiero e nelle sperimentazioni dell’arte. (12)



Note:


1) Maurizio FERRARIS, Introduzione a Derrida, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 41 (nota 23), 127 (Cronologia della vita e delle opere), 152 (Bibliografia). Mario VERGANI, Jacques Derrida, Milano, Bruno Mondadori, 2000, pp. 67-68. Matteo BONAZZI, Il libro e la scrittura. Tra Hegel e Derrida, Milano, Mimesis, 2004, non considera invece affatto Glas, concentrandosi soltanto sui saggi derridiani di argomento hegeliano tradotti in italiano.


2) Jacques DERRIDA, Glas, Paris, Galilée, 1974. Qualche anno più tardi ne è uscita un’edizione economica in due volumi, con paginazione diversa e diversa collocazione del materiale, visto che le due colonne di cui si compone il testo sono distribuite su pagine diverse e non si trovano sulla stessa pagina come nell’originale; la seconda edizione si caratterizza anche per l’aggiunta di un sottotitolo, cfr. Jacques DERRIDA, Glas. Que reste-t-il du savoir absolu?, Paris, Denoël/Gonthier, 1981. Nel novembre del 2004 Galilée ha ristampato l’edizione del 1974. Nel seguito si farà riferimento a questa edizione.


3) Un’indagine su Glas attenta all’aspetto letterario si trova in Geoffrey H. HARTMANN, Saving the Text. Literature/Derrida/Philosophy, Baltimore and London, John Hopkins University Press, 1981. Contemporaneamente alla traduzione in inglese di Glas (cfr. più sotto, nota 12) è uscito per i tipi della stessa casa editrice anche un ‘Glassario’ a cura del traduttore, con note, indici, glossari, oltre che saggi interpretativi e una prefazione dello stesso Jacques Derrida, cfr. John P. LEAVEY Jr. (a cura di), GLASsary, Lincoln and London, University of Nebraska Press, 1986 (al suo interno cfr. in particolare Jacques DERRIDA, “Proverb: ‘He that would pun…’”, ivi, pp. 17-20; John P. LEAVEY Jr., “This (then) will not have been a book...”, ivi, pp. 22-128; Gregory L. ULMER, “Sounding the Unconscious”, ivi, pp. 23-129; i due saggi di Leavey e Ulmer si intrecciano tra di loro come le due colonne del testo che tematizzano. Sia consentito rinviare anche ad alcuni miei studi: G. BAPTIST e H.-Ch. LUCAS, Wem schlägt die Stunde in Derridas “Glas”? Zur Hegelrezeption und -kritik Jacques Derridas (Per chi suona la campana in “Glas” di Derrida? Sull’interpretazione e la critica a Hegel in Jacques Derrida), “Hegel-Studien”, XXIII (1988), pp. 139-179; G. BAPTIST, La scrittura sfalsata. “Glas” e “La carte postale” di Jacques Derrida, “Intersezioni”, IX (1989), n. 2, pp. 305-324; EAD., Enantion tes philosophias poiou upokeimenou; peri tes antiparatheseos tou Derrida pros ton Hegel (Contro la filosofia di quale soggetto? Il confronto di Derrida con Hegel), in Georgia APOSTOLOPOULOU (a cura di), Istoria kai upokeimenikoteta ste philosophia tou Hegel (Storia e soggettività nella filosofia di Hegel), Ioannina, Panepistemio Ioanninon (Theodoride), 1995, pp. 191-209.


4) Jacques DERRIDA, Glas, cit., p. 53, a destra (nel seguito si indicherà con d. o s. se il testo in questione si trova sulla colonna di destra o di sinistra).


5) Cfr. ivi, p. 39 d.


6) Ivi, p. 7 d. e s. Cfr. Jean GENET, Ce qui est resté d’un Rembrandt déchiré en petits carrés bien réguliers, et foutu aux chiottes, in Œuvres complètes, vol. IV, Paris, Gallimard, 1968, pp. 19-31.


7) Jacques DERRIDA, Glas, cit., p. 171 s.


8) Cfr. ivi, p. 272 s.


9) Naturalmente è citato Fonagy e il suo Le basi pulsionali della fonazione, cfr. ivi, pp. 179-180 d.


10) Ivi, p. 253 s.


11) Ivi, p. 254 s.


12) La traduzione italiana è sempre stata confrontata con l’edizione inglese curata da John P. Leavey Jr. e Richard Rand per i tipi della University of Nebraska Press (Lincoln and London, 1986).

 

 

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