Rovine,
macerie, scarti, rifiuti.
Merdre!
Père Ubu
Stracci
e rifiuti…ma non per farne l’inventario,
bensì
per rendere loro giustizia nell’unico modo possibile: usandoli.
W.Benjamin
«Proprio
come un mucchio di rifiuti gettati a caso è il più bello
dei mondi»
Eraclito
Questo numero è
dedicato ad un tema quanto mai attuale, quello dei rifiuti.
Che
cos’è (un) rifiuto? In che cosa si differenzia dal semplice
“scarto”? Che cosa lo distingue dal concetto/fenomeno di
“maceria” e cosa da quello di “rovina”? Nel
quarto numero di Kainós cercheremo di individuare alcuni
percorsi di ricerca.
I
rifiuti non sono assimilabili alle rovine della storia. Le rovine,
infatti, mostrano qualcosa che si è “sottratto” alla
storia, qualcosa che la storia, nei suoi interrotti sentieri, ha perduto
e fatto rovinare - pensiamo alle cosiddette civiltà senza scrittura,
a quelle ormai remote, oppure alle civiltà che non hanno retto
al confronto/scontro con quella occidentale. Ancora, esse sono ciò
che non è stato in grado, o non ha voluto iscriversi nella storia,
rovinando e cadendo, appunto, fuori o sotto di essa – ad
esempio la rivoluzione, per usare qui un’unica parola-baule. Per
tale ragione, le rovine possono essere oggetto di cura attraverso
le strategie “antiquarie” della memoria, ma anche ricevere
un senso postumo attraverso quelle critico-rivoluzionarie della speranza.
Delle rovine, infine, possiamo “farci una ragione” attraverso
il “lavoro del lutto”. In ogni caso, sembra che vi sia un’utilità
delle rovine per la vita - avrebbe detto Nietzsche.
E
tuttavia, si danno rovine assolute, per così dire, che meglio
sarebbe chiamare macerie. Queste sono – come ha ben visto
Marc Augé – il prodotto di distruzioni irreparabili e spesso
improvvise; sono cancellature della storia, spazi vuoti indifferenti
alla strategie della memoria e della speranza, ma anche al lavoro del
lutto, perché non rinviano ad alcuna perdita, men che mai irreparabile.
Le macerie sono solo macerie; assolutamente prive di senso, in esse
si perde tutto (si potrebbe dire che in esse si perde e si cancella
la stessa categoria della perdita). Le macerie possono essere
solo il lato oscuro delle rovine (nelle rovine c’è sempre
qualcosa che si perde in senso assoluto); altre volte, sempre più
spesso nel nostro tempo, esse si presentano in quanto tali, macerie
e nient’altro. Il senso residuo delle macerie consiste allora
nel loro stesso darsi come punto zero della storia, come punto di non
ritorno. Esse sono cancellature, spazi bianchi da dimenticare, da “lasciar
perdere”, ricominciando a costruirvi al di sopra, al loro lato,
mai attraverso. Delle macerie non c’è possibile
riscatto se non – come tragicamente attesta l’angelo nuovo
benjaminiano – nello sguardo che le trasfigura in rovine.
I
rifiuti, a loro volta, non sono né rovine né macerie.
Eppure essi, forse anche più di quelle, invadono il nostro mondo.
Lo im-mondano. Ne sono una parte ineliminabile, ma una “parte”
che non smette di confondersi col “tutto”. I rifiuti, infatti,
per dirla con Zygmunt Bauman, tendono sempre allo “stato liquido”,
vale a dire che non conservano mai a lungo la propria forma, e tendono
a trasformarsi in ogni altra cosa, traboccano, si spargono e colano
senza sosta: quanto più tendono a fluidificarsi, tanto più
resistono ad essere smaltiti e/o riciclati.
Di
ciò ci accorgiamo anche perché le distruzioni, le guerre
degli ultimi decenni, hanno invaso lo spazio mediatico spettacolarizzando
un’enorme quantità di rifiuti umani, moltiplicandone letteralmente
i “pezzi” su scala planetaria. Dai corpi torturati dei prigionieri
nel carcere iraqeno di Abu Ghraib, ai bambini palestinesi che vagano
tra le macerie delle loro case distrutte dai bombardamenti israeliani,
ai poveri corpi degli ostaggi decapitati da Al Queda, fino ai corpi
dei terroristi kamikaze che si lasciano esplodere, dando la morte. Una
volta mutilati o esplosi o segnati, questi corpi appaiono attraverso
i media come la orrenda icona della guerra globale, e/o dei nuovi conflitti
che orizzontalmente attraversano tutti i mondi con l'insieme delle loro
civiltà e società.
I
rifiuti hanno inoltre una strana natura, che potremmo definire bifida.
Da un lato, infatti, vi sono gli scarti, i rifiuti-scarto.
Questi sono i rifiuti che risultano dai processi di scarto – processi
economici, sociali, bio-politici, culturali, semiotici. Sono i rifiuti
che traggono origine da atti più o meno consapevoli di rifiuto;
si rifiuta qualcosa e/o qualcuno perché si sceglie qualcun altro,
qualcosa d’altro. Per tale ragione, gli scarti hanno un
loro paradossale “senso”. Essi, infatti, sono tali solo
rispetto a criteri di scarto, cambiando i quali, potrebbero (ri)-trovare
una loro centralità di senso.
Dall’altra
parte, vi sono rifiuti che sembrano eccedere la categoria dello scarto.
Sono, per così dire, assoluti, perché rispetto
ad essi non è concepibile alcun riciclaggio, né
ecologico, né etico, né politico, né estetico.
Si tratta cioè di rifiuti che, esattamente come le macerie rispetto
alle rovine, appaiono come assolutamente privi di senso. Non solo: diversamente
dagli scarti, sempre riconducibili, come si diceva, a processi
di selezione consapevoli e/o inconsapevoli, tali rifiuti assoluti non
sembrano essere riconducibili a strategie soggettive, anche se indubbiamente
le attraversano. I rifiuti assoluti non sono semplicemente il
risultato della somma di soggettivi atti di rifiuto (siano essi consci
o inconsci); essi nascono, per così dire, da processi anonimi
che eccedono la dimensione della soggettività (e la mettono radicalmente
in discussione in tutti i sensi). Per tale ragione, essi sono paradossalmente
irrifiutabili, e in un duplice senso. Da un lato infatti, come
si è detto, non appaiono comprensibili a partire dalla dimensione
soggettiva del rifiuto. Dall’altro, tuttavia, si sottraggono a
qualsiasi strategia di “oblio creativo” – come può
accadere invece con le macerie segnalate (e perciò in
qualche misura superate) in quanto irredimibili.
Infine,
tutti i rifiuti, sia i rifiuti-scarto sia quelli che abbiamo chiamato
assoluti, si manifestano nella forma della fastidiosità
e della repellenza. I rifiuti c’infastidiscono. Vorremmo
evitare di averci a che fare. Vorremmo nasconderli, ma saltano sempre
di nuovo fuori. Non sappiamo dove metterli e vorremmo fare a meno di
doverci pensare. In sostanza, essi ci perseguitano, manifestando un
aspetto spettrale. E gli spettri ritornano sempre, come si sa,
fino a quando la loro richiesta non sia soddisfatta.
Ma
che cosa reclamano i rifiuti, continuando a tormentarci? Perché
sono così fastidiosi? Perché non la smettono di seccarci?
Avendo
distinto le due forme di rifiuti, la forma del rifiuto/scarto e quella
del rifiuto assoluto, possiamo sdoppiare la domanda: che cosa reclamano
gli scarti? che cosa, invece, i rifiuti (assoluti)?
Alla
prima domanda potremmo forse rispondere che gli scarti reclamano un
rivolgimento della storia in cui possano (ri)acquistare un loro senso.
In altre parole, gli scarti reclamano giustizia. Si potrebbe persino
pensare ad una dimensione escatologica e “messianica” in
cui tutti gli scarti, proprio in quanto tali, possano armonizzarsi tra
loro e rifulgere di un senso nuovo.
Il
problema consiste, piuttosto, nel trovare una plausibile risposta alla
seconda domanda: che cosa reclamano verso di noi, verso i soggetti,
i rifiuti che abbiamo chiamato assoluti, e che in quanto
tali sfuggono inesorabilmente al soggetto, si sciolgono dai lacci che
esso getta per catturarli, nasconderli e così neutralizzarli?
Perché la loro assoluta irriciclabilità e improduttività
(economica e di senso) continua a perseguitarci? Manifestano,
forse, il male radicale, la radicale alterità?
E, se così fosse, come elaborare una risposta filosofica (ma
non ‘soggettiva’) che sia finalmente in grado di non lasciare,
come sempre, l’ultima parola alla religione?
(9
settembre 2004)