indice del numero 4

 

 

 

 

Wasteful Planet

di Zygmunt Bauman

 



[Aglaura e Leonia]1

La storia della modernità (come qualsiasi altra, se è per questo) si può raccontare in più di un modo.

Parlando di Aglaura, una delle città stravaganti eppure misteriosamente familiari descritte ne Le città invisibili, il Marco Polo di Italo Calvino diceva di riuscire a stento ad andare «oltre le cose che gli abitanti della città ripetono da sempre», malgrado i loro racconti discordassero da quanto egli stesso era persuaso di vedere. «Vorresti dire cos’è, ma tutto quello che s’è detto di Aglaura finora imprigiona le parole e ti obbliga a ridire anziché a dire». E così, saldamente installati tra le mura cittadine fatte delle storie sempre ripetute, alla maniera in cui i bastioni di certe città sono fatti di pietre, gli aglauriani abitano «un’Aglaura che cresce solo sul nome Aglaura e non si accorgono dell’Aglaura che cresce in terra». Come potrebbero comportarsi diversamente, infatti? Dopotutto, «la città che dicono ha molto di quel che ci vuole per esistere, mentre la città che esiste al suo posto, esiste meno».

Gli abitanti di Leonia, un’altra delle Città invisibili di Calvino, direbbero, se interrogati, che la loro passione è «il godere delle cose nuove diverse». In effetti, ogni mattina la popolazione di Leonia «indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall’ultimo modello d’apparecchio». Ogni mattina, però, «i resti della Leonia d’ieri aspettano il carro dello spazzaturaio», e uno straniero come Marco Polo, guardando per così dire attraverso le crepe dei racconti che cingono Leonia, si chiederebbe se la vera passione dei leoniani non sia invece «l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità». Altrimenti perché i netturbini sarebbero «accolti come angeli», sebbene il loro compito sia «circondato d’un rispettoso silenzio» e, comprensibilmente, «una volta buttata via la roba nessuno [voglia] più averci da pensare»? A mano a mano che i leoniani si distinguono nella loro ricerca delle novità, «una fortezza di rimasugli indistruttibili» circonda la città, «la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne».

Ci si potrebbe domandare se i leoniani vedono quelle montagne. Qualche volta sì, soprattutto quando un’inattesa folata di vento diffonde nelle loro linde case un tanfo che ricorda un cumulo d’immondizia piuttosto che le viscere dei negozi che espongono le novità, tutte freschezza, sfavillio e fragranza. Quando succede, non possono più distogliere lo sguardo; non possono fare altro che guardare nervosamente le montagne, con timore e tremore, e restare inorriditi da ciò che vedono. Probabilmente ne aborriranno la bruttezza e le odieranno perché imbrattano il paesaggio, perché sono sudice, disgustose, dannose e assolutamente ributtanti, perché covano pericoli a loro noti e pericoli diversi da quelli che conoscevano, perché accumulano i rischi visibili e quelli che loro non possono neppure ipotizzare. Ai leoniani non piacerà quello che avranno visto, e non vorranno guardarlo più. Odieranno i rimasugli delle loro fantasticherie di ieri con lo stesso fervore con cui un tempo amavano i loro vestiti nuovi di zecca e i loro giocattoli appena usciti. Cercheranno di esorcizzare le montagne, e vorranno che scompaiano: che siano fatte saltare con la dinamite, frantumate, polverizzate o dissolte. Reclameranno contro l’indolenza degli spazzini, la clemenza dei capisquadra e la compiacenza dei dirigenti.

Più degli avanzi stessi, i leoniani non sopporteranno l’idea della loro indistruttibilità. Saranno terrorizzati dalla notizia che le montagne che essi esorcizzano con tutte le loro forze sono restie a degradarsi, a deperire e a decomporsi da sé, oltre a essere resistenti (o meglio, immuni) ai solventi. Sperando nell’impossibile, non intenderanno la semplice verità che gli esecrabili cumuli di rifiuti possono non esistere solo se non sono stati prima creati (da loro, i leoniani stessi!). Rifiuteranno di accettare che (come afferma il resoconto di Marco Polo, che i Leoniani non ascolterebbero) «rinnovandosi ogni giorno la città conserva tutta se stessa nella sola forma definitiva: quella delle spazzature d’ieri che s’ammucchiano sulle spazzature dell’altroieri e di tutti i suoi giorni e anni e lustri». I leoniani non ascolteranno il messaggio di Marco Polo, perché ciò che esso rivelerebbe loro (se cioè fossero disposti ad ascoltarlo) sarebbe che, piuttosto che preservare ciò che essi affermano di amare e desiderare, essi riescono solo a perpetuare l’immondizia. Solo ciò che è inutile, sgradevole, repellente, velenoso e spaventoso è abbastanza resistente da conservarsi via via che il tempo passa.

Seguendo l’esempio degli aglauriani, i leoniani vivono quotidianamente in una Leonia che «cresce solo sul nome Leonia», beatamente ignari dell’altra Leonia che cresce in terra. Per lo meno, essi distolgono lo sguardo o chiudono gli occhi, facendo di tutto per non vederla. Esattamente come per gli aglauriani, la città che dicono «ha molto di quel che occorre loro per esistere». E ciò che più conta, essa contiene la storia della passione per le cose nuove, che essi continuano a ripetere giorno dopo giorno, tanto che la passione di cui parlano potrebbe sempre rinascere ed essere ricostituita, e la storia di quella passione potrebbe continuare ad essere raccontata, udita, avidamente ascoltata e devotamente creduta.

Ci vuole uno straniero come Marco Polo per chiedere: qual è in fin dei conti il prodotto principale dei leoniani? Gli incantevoli oggetti nuovi fiammanti, voluttuosamente freschi e pregni di un ammaliante arcano, finché vergini e non sperimentati, o piuttosto i cumuli di rifiuti che s’ingrossano incessantemente? Come spiegare, per esempio, la loro passione per la moda? Cosa implica quella moda, in verità? Attiene alla sostituzione di cose meno adorabili con cose più deliziose, o alla gioia che si prova quando le cose, dopo essere state spogliate del loro incantesimo e del loro fascino, vengono gettate in un cumulo d’immondizia? Gli oggetti vengono buttati a causa della loro bruttezza, o sono brutti in quanto sono stati destinati alla discarica?

Domande spinose, a dire il vero. Rispondere loro è un compito non meno arduo, però. Le risposte dipenderebbero da vicende che echeggiano tra le mura sorte dai ricordi delle storie raccontate, ripetute, ascoltate, ingerite e assorbite.

Se venissero rivolte a un leoniano, egli risponderebbe che si devono produrre sempre più cose sempre più nuove, per sostituire altre cose che sono meno accattivanti o utili, o che non servono più. Ma se s’interrogasse Marco Polo – un viaggiatore, uno straniero scettico, un estraneo non coinvolto, un perplesso nuovo arrivato – egli risponderebbe che a Leonia gli oggetti son dichiarati inutili e prontamente buttati via per il richiamo esercitato da altri oggetti del desiderio, nuovi e più progrediti; e quelli devono essere gettati via per fare spazio questi. Risponderebbe che, a Leonia, sono le novità di oggi ciò che rende le novità di ieri obsolete e destinate all’immondezzaio. Entrambe le risposte suonano vere; tutt’e due sembrano rappresentare la vita dei leoniani. Perciò la scelta, in definitiva, varia a seconda che un racconto venga ribadito a mo’ di cantilena, o che al contrario i pensieri vaghino liberamente nello spazio libero da narrazioni…


[Rifiuti umani]


Fin dal principio, la modernità ha sfornato e continuato a sfornare enormi quantità di esseri umani di scarto: rifiuti umani. La produzione di rifiuti umani è stata particolarmente copiosa in due branche dell’industria moderna, entrambe tuttora attive a pieno regime.

La funzione apparente della prima branca è stata la produzione e la riproduzione dell’ordine sociale. Qualsiasi modello d’ordine è discriminante e richiede di amputare, rifilare, segregare, differenziare ed eliminare quelle parti della materia prima umana che sono inadatte al nuovo ordine: incapaci di occupare una qualunque delle sue nicchie o non ammesse a farlo. Il compito attribuito a talune altre parti non è tanto chiaro come la trasparenza dell’ordine architettato esigerebbe; certe hanno affinità con più d’una nicchia, sicché si stendono attraverso confini che, per amore d’ordine, sarebbero dovuti essere univoci e impenetrabili. All’altro estremo del processo di costituzione dell’ordine, elementi di entrambe le categorie affiorano come “scarto”, intendendosi per tale qualcosa di distinto rispetto al prodotto «utile» (perché voluto). Bisogna smaltirle.

Il secondo settore dell’industria moderna noto per produrre a ciclo continuo vasti volumi di rifiuti umani è stato il progresso economico, che esige a sua volta la interdizione, lo smantellamento e infine l’annientamento di una certa quantità di modi e mezzi per campare: le occupazioni che non possono corrispondere e non corrisponderebbero a standard di redditività e produttività in costante aumento. Di solito è impossibile accogliere in massa nei nuovi assetti dell’attività economica, più snelli e brillanti, coloro che praticano le forme di vita svalutate. Viene a essi negato l’accesso ai mezzi di sussistenza che i nuovi sistemi hanno reso legittimi/obbligatori, mentre i mezzi convenzionali, ormai svalutati, non garantiscono più la sopravvivenza. Tutti costoro, o almeno alcuni, diventano in conseguenza di ciò degli «esuberi». Sono quindi i rifiuti del progresso economico.

La produzione degli esseri umani di scarto è stata un processo continuo e, in linea di principio, cumulativo. Le conseguenze potenzialmente disastrose dell’accumulo di rifiuti umani furono tuttavia, per gran parte della storia moderna, minimizzate, neutralizzate o almeno mitigate grazie a un’altra innovazione moderna: l’industria di smaltimento dei rifiuti. Tale industria ha prosperato grazie alla trasformazione di ampie zone del globo in discariche nelle quali l’umanità «eccedente» – i rifiuti umani prodotti nei settori del pianeta che si modernizzavano – poteva essere trasportata, mantenuta a distanza di sicurezza, riciclata e decontaminata, evitando in tal modo il rischio dell’autocombustione e dell’esplosione.

Sul nostro pianeta queste discariche adesso stanno venendo a mancare. Questa carenza è perlopiù dovuta al successo straordinario – alla diffusione mondiale – della forma di vita moderna (almeno dai tempi di Rosa Luxemburg, sulla modernità grava il sospetto di essere in definitiva suicida, «un serpente che morde la propria stessa coda» – il proprio stile, la propria tendenza – distruggendo le forme di vita dalle quali dipende la sua sopravvivenza). Mentre la produzione di rifiuti umani procede senza tregua (il volume semmai aumenta, sotto la spinta dei processi di globalizzazione), l’industria di smaltimento si è ritrovata in serie difficoltà. Quei metodi per trattare le scorie umane che si sono andati affermando come la tradizione moderna non sono più praticabili, e di nuovi non ne sono stati inventati (e tanto meno messi in funzione). Lungo le linee di faglia del disordine mondiale, stanno lievitando cumuli di rifiuti umani: i primi segni della tendenza all’autocombustione e i sintomi di un’imminente esplosione si moltiplicano.



[Oggi, il pianeta è pieno]

Oggi, il pianeta è pieno.

Mi spiego: quest’affermazione non appartiene al campo della fisica, né a quello della geografia umana. In termini di spazio fisico e di espansione della coabitazione umana, il pianeta è tutt’altro che colmo. Al contrario, l’estensione complessiva delle terre scarsamente popolate o spopolate sembra aumentare anziché diminuire. Il progresso tecnologico, a mano a mano che offre possibilità di sopravvivenza, o persino di esistenza agiata, in habitat che prima erano considerati inadatti all’insediamento umano, intacca anche la capacità di molti altri habitat di sostentare popolazioni che in precedenza vi erano ospitate e sfamate; il progresso economico, invece, rende impossibili, inattuabili o impraticabili modi di «procurarsi da vivere» un tempo efficaci, facendo in tal modo dilatare la superficie dei terreni inutilizzabili che giacciono incolti e/o abbandonati.

«Il pianeta è pieno» è un’asserzione afferente alla sociologia e alla scienza politica. Essa segnala la scomparsa delle «terre di nessuno»: dei territori definiti (o definibili) e trattati (o suscettibili di esser trattati) come «disabitati» e «vuoti» (ossia, senza un «proprietario sovrano» di cui occorre tenere conto) e pertanto aperti alla colonizzazione e al popolamento. Per la maggior parte della storia moderna tali territori, oggi perlopiù assenti, hanno rivestito il ruolo cruciale di discariche per rifiuti umani (le gaspillage, les déchets humains) che venivano sfornati, in quantità sempre crescenti, in altre parti del mondo: quelle in «modernizzazione» permanente.

La nuova «plenitudine del pianeta» (la portata mondiale della modernizzazione e quindi la diffusione planetaria del modo di vita moderno) ha due conseguenze indirette alle quali ho brevemente accennato all’inizio di questo articolo.

La prima conseguenza è l’occlusione degli sbocchi che, nel passato, permettevano di drenare e mondare le (relativamente scarse) enclave moderne del pianeta dalle loro scorie sovrabbondanti (cioè dell’eccedenza dei rifiuti rispetto alla capacità delle attrezzature di riciclaggio) che il modo di vita moderno non poteva desistere dal produrre su una scala sempre più vasta. Quando il modo di vivere moderno ha smesso di essere un privilegio riservato a terre elette, i territori «vuoti» o «di nessuno» (più precisamente, i territori che, in virtù della differenza di potere, potevano essere considerati e trattati come se fossero vuoti e adespoti), sfogo primario per lo smaltimento dei rifiuti umani, sono svaniti. Per quel che riguarda gli «esseri umani in esubero» generati nelle aree del pianeta che sono salite di recente a bordo del «TIR della modernità» (o che ne sono state travolte), questo genere di sbocchi non è mai esistito, poiché nelle società cosiddette «premoderne», prive del problema dei rifiuti (sia umani che non umani), non se ne è presentata la necessità.

A sua volta, l’esiziale mutamento sopra descritto fa sì che alcune società rivolgano contro se stesse l’affilatissima lama delle pratiche di esclusione. Quando si dà normalmente la possibilità che l’eccesso di popolazione (cioè chi non si presta a essere reintegrato in modelli di vita normali, né riconvertito in un membro «utile» della società) venga deportato al di là dei confini del recinto in cui vengono perseguiti equilibrio economico e stabilità sociale, le persone momentaneamente in esubero che sono sfuggite alla deportazione e restano dentro il recinto vengono destinate al riciclaggio. Esse sono «out», ma solo temporaneamente; il loro «stare fuori» è un’anomalia che impone e mobilita terapie: occorre aiutarli a «rientrare» quanto prima. Sono «l’esercito di riserva del lavoro» e vanno posti e mantenuti in una condizione tale che consenta loro di tornare al servizio attivo alla prima occasione. Tutto questo però muta quando i canali di drenaggio del surplus umano sono intasati. La linea che divide l’inabilitazione passeggera dalla consegna categorica e definitiva ai rifiuti è confusa e non più decifrabile. Giacché la «parte di scarto» dell’umanità ridondante presenta il problema più straziante e si sottrae agli strumenti d’intervento e agli stratagemmi abituali, è probabile che susciti le più vive attenzioni e preoccupazioni. Le nuove politiche, da escogitare alla svelta per reagire al nuovo problema, con ogni probabilità includeranno i metodi messi a punto per affrontare quello vecchio. Per maggiore sicurezza, saranno favorite le misure di emergenza dirette al problema delle «scorie interne» e, prima o poi, verrà data loro precedenza su tutte le altre forme di intervento sulla sovrabbondanza, temporanea o meno.

Tutti questi intoppi e queste avversità tendono a essere amplificati nelle parti del mondo che con il fenomeno (prima sconosciuto) della «popolazione in soprannumero» e con il problema del suo smaltimento devono vedersela in ritardo: quando il pianeta è già pieno, quando non restano terre «vuote» che fungano da siti di smaltimento rifiuti e quando ogni asimmetria dei confini volge a loro svantaggio. I territori circostanti difficilmente richiederanno le loro eccedenze, né è probabile che vengano costretti ad accettarle e accoglierle (mentre a suo tempo imposero ad altri di farlo). Questi «ritardatari» della modernità sono lasciati cuocere nel proprio brodo alla ricerca di soluzioni locali a problemi generati da dinamiche globali. Essendo stati indotti da forti pressioni a lasciare il proprio territorio aperto alla circolazione globale del capitale e delle merci, hanno minato la vitalità delle imprese familiari e comunitarie che un tempo erano capaci e desiderose di assorbire, occupare e nutrire tutti gli esseri umani che nascevano, e, nella maggior parte dei casi, assicurare la loro sopravvivenza. Solo adesso essi sperimentano quella separazione dell’economia dalle unità familiari che i pionieri della modernità conobbero centinaia di anni fa, con tutto il contorno di perturbazioni sociali e miseria umana che l’accompagna, ma anche godendo del lusso di soluzioni globali (cioè le abbondanti «terre di nessuno», «vuote» e agevolmente utilizzabili per depositarvi la popolazione in esubero che non viene più assorbita da un’economia affrancata dai vincoli familiari e comunitari) ai loro problemi generati localmente: un lusso che ai ritardatari non è dato.

Le guerre e i massacri tribali, la proliferazione di «eserciti guerriglieri» (spesso poco più che bande criminali leggermente camuffate) tutti presi a decimarsi a vicenda, ma che nel frattempo assorbono e annientano la «popolazione in esubero» (soprattutto persone «inoccupabili» in patria e giovani senza prospettive), rappresentano una di quelle «soluzioni locali a problemi globali» di cui i «ritardatari della modernità» sono costretti a servirsi. Centinaia di migliaia di persone vengono scacciate dalle proprie case, assassinate od obbligate a fuggire per mettersi in salvo fuori dai confini del proprio paese. Probabilmente, nelle terre dei ritardatari (subdolamente e ingannevolmente chiamati «paesi in via di sviluppo») l’unica industria è la produzione di massa di profughi. Sono i suoi sempre più numerosi frutti quelli che il primo ministro britannico propone di scaricare «vicino al loro paese d’origine», in campi stabilmente provvisori (subdolamente e ingannevolmente chiamati «zone protette»), aggravando – con il proposito di mantenere locali i «problemi locali» – i già ingovernabili problemi di «popolazione in esubero» dei paesi limitrofi che mandano avanti un’industria analoga, e bloccando così sul nascere ogni tentativo dei ritardatari di calcare le orme dei pionieri della modernità, ossia perseguire soluzioni globali (le uniche che funzionino) per problemi confezionati in loco. Mentre scrivo queste parole, la NATO, nell’ambito di un’altra variante di questo stesso tema, è stata sollecitata a mobilitare i propri eserciti per aiutare la Turchia a sigillare il suo confine con l’Iraq, in vista dell’imminente attacco contro questo paese. Parecchi statisti di paesi pionieri hanno avuto da eccepire, sollevando numerose riserve immaginarie; nessuno però ha pubblicamente accennato al fatto che il pericolo da cui la Turchia deve proteggersi è l’afflusso di profughi iracheni, freschi senzatetto, non l’aggressione delle malconce e sfibrate truppe irachene.2

Per quanto scrupolosi, gli sforzi per arginare la marea della «migrazione economica» non riescono al cento per cento (traguardo che probabilmente sarà impossibile raggiungere anche perfezionandoli). Un’indigenza prolungata crea milioni di disperati e, in un’epoca in cui tutto il mondo è zona di frontiera e il crimine è globalizzato, non ci si può di certo aspettare che scarseggino i servizi criminali entusiasti di raggranellare qualche soldo, o qualche miliardo, speculando sulla disperazione. Donde la seconda formidabile conseguenza dell’attuale grande trasformazione: milioni di migranti che vagano lungo i percorsi un tempo battuti dalla «popolazione in esubero» scaricata dai vivai della modernità; ma in direzione opposta, e senza essere (almeno finora) accompagnati e coadiuvati da eserciti di conquistadores, mercanti e missionari. Restano ancora da dipanare e constatare nella loro interezza le proporzioni che questa conseguenza e le sue ripercussioni assumeranno.

In un breve ma pungente scambio di opinioni, avvenuto verso la fine del 2001 in connessione con la guerra in Afghanistan, Garry Younge 3 rifletteva sulla situazione del pianeta un giorno prima dell’11 settembre, data che, per comune accordo, ha sconvolto il mondo e ha inaugurato una fase completamente diversa della storia mondiale. Younge ricordava come una «barcata di profughi afgani che fluttuava al largo della costa australiana» (benvista dal 90 per cento degli australiani) fosse stata infine abbandonata su un’isola deserta nel cuore dell’Oceano Pacifico:


Ora diventa interessante che fossero afgani, dato che l’Australia adesso è impegnata a fondo nella coalizione, ritiene che non ci sia niente di meglio di un Afghanistan liberato ed è pronta a mandare le proprie bombe per liberarlo […] È altresì interessante che il nostro attuale ministro degli Esteri paragoni l’Afghanistan ai nazisti, ma, quando faceva il ministro degli Interni e un gruppo di afgani approdò a Stanstead, disse che non c’erano da temere persecuzioni e li rispedì da dove erano venuti.


Younge conclude che il 10 settembre il mondo era «un luogo privo di leggi» del quale tanto i ricchi quanto i poveri sapevano che «la ragione [era] del più forte» (might is right), che il prepotente poteva ignorare e aggirare il diritto internazionale (o checché porti quel nome) tutte le volte che trovava scomode le sue disposizioni, e che la ricchezza e il potere non determinavano solo l’economia, ma anche la moralità e la politica dello spazio globale e – quanto a questo – ogni altro aspetto che toccasse le condizioni di vita sul pianeta.

La sovranità, secondo la cinica e memorabile definizione di Carl Schmitt, si fonda sul diritto all’eccezione. È questo che conferisce alla regola sostanza e sanzione. Potremmo dire che in tutta l’epoca moderna i poteri sovrani hanno esercitato quel diritto tracciando le linee che dividevano «noi» da «loro», la presenza legittima da quella illegittima, il diritto di soggiorno dalla condizione di «apolidia» 4 o dal destino dei sans papiers, ciò che è veramente e interamente umano da ciò che non lo è del tutto, la vita degna dalla unwertes Leben, il prodotto utile dello sforzo d’ordine dai rifiuti, l’economicamente vitale dall’economicamente superfluo.

A proposito della Déclaration des droits de l’homme et du citoyen, uno dei testi fondativi della società moderna, Giorgio Agamben ha osservato (con il vantaggio di un senno di poi lungo due secoli) che in essa «non è chiaro se i due termini [uomo e cittadino] nominino due realtà distinte» oppure se il primo termine debba ritenersi «già sempre contenuto nel secondo»; 5 in altre parole, se il titolare dei diritti sia l’uomo che è (o nella misura in cui è) anche un cittadino.

Questa mancanza di chiarezza, con tutte le sue sinistre conseguenze, era già stata notata da Hannah Arendt nel periodo immediatamente seguente alla Seconda guerra mondiale, in un mondo che si riempiva improvvisamente di «sfollati». La Arendt rievocava la vecchia e davvero profetica premonizione di Edmund Burke 6, secondo cui l’astratta nudità del «non essere altro che umana» costituiva il più grave pericolo per l’umanità. I «diritti umani», rilevava Burke, erano un’astrazione, e gli esseri umani non potevano sperare di riceverne una gran protezione, a meno che l’astrazione non fosse riempita con la polpa dei diritti di un inglese o di un francese. «Il mondo non ha visto nulla di sacro nell’astratta nudità della condizione di umano»: così la Arendt ha riassunto la storia degli anni che sono seguiti alle osservazioni di Burke. «I Diritti dell’Uomo, presunti inalienabili, si sono dimostrati inapplicabili […] ogni qual volta comparivano persone che non erano più cittadine di nessuno Stato sovrano». 7

Nei fatti, uomini e donne dotati di «diritti umani» ma privi di qualsiasi altro requisito (cioè spogliati di altri diritti, necessari a garantire e difendere quelli «umani», ma derivanti da istituzioni) risultavano introvabili e, a tutti gli effetti, inimmaginabili. Una potenza (puissance, power, Macht) 8 sociale, fin troppo sociale, era evidentemente necessaria per avallare l’umanità degli umani. E in tutta l’epoca moderna, questa potenza è consistita nella capacità di tracciare un confine tra umano e inumano che, nei tempi moderni, si camuffa da confine tra cittadini e stranieri. In un mondo suddiviso in possedimenti territoriali di Stati sovrani, chi è senza patria (home-less) è senza diritti. Non è che patisca perché non è uguale davanti alla legge, ma perché non esiste legge che gli si applichi, la cui protezione egli (o ella) possa invocare, o alla quale possa fare riferimento nel protestare contro un trattamento iniquo che abbia subìto.



[Profughi]

La maggior parte delle azioni belliche che si compiono oggi, e le più spietate e sanguinose tra esse, sono condotte da entità non statuali, che non sono soggette a leggi statali né a convenzioni internazionali. Sono al contempo esiti e (incisive) concause della continua erosione della sovranità statale. Gli antagonismi fra tribù irrompono sulla scena grazie all’indebolimento delle forze statali (o nel caso dei «nuovi Stati» che non hanno mai avuto il tempo di consolidarsi); una volta scatenati, essi rendono inapplicabili e in pratica nulle e inefficaci le leggi emanate dagli Stati, sia quelli affermati, sia quelli ai loro primi passi. La popolazione nel suo complesso si trova in una dimensione priva di leggi (lawless); la parte di popolazione che decide di abbandonare il campo di battaglia e riesce a scappare cade in un altro tipo di «alegalità» (lawlessness), quella delle terre di confine globali. Per di più, una volta fuoriuscite dai confini del loro paese natale, le persone si trovano prive dell’appoggio di un’autorità statale riconosciuta, che potrebbe prenderle sotto la propria protezione, rivendicare i loro diritti e intercedere in loro nome presso potenze straniere. I profughi sono apolidi (stateless), ma in un senso nuovo: la loro apolidia è elevata a un livello completamente inedito dalla inesistenza dello Stato al quale potrebbero fare capo. Essi sono, come scrive Michel Agier nella sua più penetrante ricerca sui rifugiati nell’epoca della globalizzazione, 9 hors du nomos: al di fuori del diritto; non del diritto di questo o quell’altro paese, ma del diritto in quanto tale. Sono reietti e fuorilegge di tipo nuovo, i prodotti della globalizzazione e la personificazione più compiuta del suo spirito da terra di frontiera. Per citare ancora Agier, essi sono stati gettati in una condizione di «migrazione liminare» (liminal drift), di cui non sanno né possono sapere se sia transitoria o permanente; anche se per un certo periodo stanno fermi, il loro movimento non è mai concluso, poiché la meta (arrivo o ritorno) resta sempre vaga, e una destinazione che potrebbero definire finale resta sempre inaccessibile. Non riescono mai a sbarazzarsi della tormentosa sensazione che ogni stanziamento sia caduco, indefinito e provvisorio.

La brutta situazione dei profughi palestinesi, molti dei quali non hanno mai vissuto fuori dei campi frettolosamente raffazzonati più di cinquant’anni fa, è stata documentata con dovizia di dettagli. A mano a mano che la globalizzazione impone il proprio tributo, tuttavia, intorno ai punti più caldi della conflagrazione sorgono come funghi nuovi campi (meno famosi e perlopiù inosservati o dimenticati), prefigurando il modello che, negli auspici di Tony Blair, l’Alto commissariato ONU per i rifugiati dovrebbe rendere obbligatorio. Per esempio, non vi sono indizi di chiusura imminente per i tre campi di Dabaab – la cui popolazione totale è pari a quella del resto della provincia keniota di Garissa, nella quale essi sono stati ubicati nel 1991-1992 – ma, a tutt’oggi, essi non figurano sulle mappe del Kenya. Lo stesso vale per i campi di Ilfo (aperto nel settembre 1991), Dagahaley (marzo 1992) o Hagadera (giugno 1992). 10

Mentre si dirigono nei campi, i futuri «ricoverati» vengono spogliati di ogni singolo pezzo delle loro identità, tranne uno: quello di profughi senza Stato, senza un posto e senza mansioni (stateless, placeless, functionless). All’interno del campo è rinchiusa una massa anonima, priva dell’accesso alle elementari strutture da cui le identità sono prodotte e dei fili che costituiscono il tessuto di qualsivoglia identità. Diventare un «profugo» significa perdere


i media su cui poggia l’esistenza sociale, ossia un insieme consueto di cose e persone che trasmettono significati: terra, casa, villaggio, città, genitori, proprietà, occupazioni e altri punti di riferimento quotidiani. Queste persone in fuga e in attesa non hanno nient’altro che la propria «nuda vita», il cui prolungamento dipende dall’assistenza umanitaria. 11


Riguardo all’ultimo punto, le inquietudini abbondano. La figura di chi presta aiuto umanitario, retribuito o volontario, non è essa stessa un importante anello della catena dell’esclusione? Sono stati sollevati dubbi circa il ruolo degli enti di assistenza: non sarà che, facendo del proprio meglio per togliere le persone dal pericolo, essi – senza accorgersene – finiscono con l’assistere proprio gli autori della «pulizia etnica»? Agier considera l’ipotesi che l’operatore umanitario possa essere un «agente di esclusione a minor costo» e (ancor più importante) un espediente messo a punto per alleviare e dissipare l’ansia del resto del mondo: assolvere i colpevoli e mitigare gli scrupoli, oltre che sedare l’impressione di urgenza e il timore di imprevisti. Mettere i profughi nelle mani di «operatori umanitari» (e dimenticare le scorte armate che stanno sullo sfondo) sembra proprio il modo ideale per conciliare l’inconciliabile: soddisfare la travolgente richiesta di smaltire fastidiosi rifiuti umani pur appagando un’acuta aspirazione alla rettitudine morale.

Forse la coscienza sporca provocata dall’amara situazione in cui versa la parte dannata dell’umanità può essere sanata.


Per ottenere questo risultato, basterà consentire di fare il proprio corso al processo di bio-segregazione (già in piena attività), alla repentina creazione e fissazione di identità macchiate da guerre, violenza, esodo, malattie, miseria e disuguaglianza. I portatori dello stigma sarebbero certamente tenuti a distanza nel nome della loro umanità minore, ossia della loro disumanizzazione tanto fisica quanto morale. 12


I profughi sono rifiuti umani, senza alcuna funzione utile da svolgere nella terra dove arrivano e (temporaneamente) soggiornano, e senza intenzione né realistica possibilità di essere mai assimilati o inseriti nel nuovo corpo sociale; dal luogo che occupano, la discarica, non vi è ritorno né sbocco ulteriore (se non verso luoghi ancor più remoti, come nel caso dei rifugiati afgani scortati dalle navi da guerra australiane in un’isola lontana da tutte le rotte battute). Il principale criterio con cui è decisa l’ubicazione dei campi temporanei-permanenti è quello della distanza, che dev’essere abbastanza grande da impedire che le esalazioni venefiche della decomposizione sociale raggiungano luoghi abitati dalla popolazione indigena. Fuori dai campi, i profughi sono un ostacolo e un disturbo; dentro, essi cadono nell’oblio. Nel tenerceli, sbarrandogli ogni possibile uscita, nel rendere definitivo e irreversibile il loro isolamento, «la compassione di alcuni e l’odio degli altri» concorrono a determinare il medesimo effetto: presa di distanza e mantenimento a distanza. 13

Non rimane null’altro che i muri, il filo spinato, i cancelli sorvegliati e le guardie armate. Entro il perimetro che formano, essi definiscono l’identità dei profughi, o meglio, sospendono il diritto di questi ultimi ad autodefinirla. Tutte le scorie, comprese quelle umane, tendono a essere ammucchiate indiscriminatamente nello stesso deposito di immondizia. L’atto di consegnare qualcosa alla spazzatura sopprime le differenze, le individualità e le idiosincrasie. Per i rifiuti non servono distinzioni precise e sottili sfumature, a meno che non siano destinati al riciclaggio; ma le prospettive di essere rimessi in circolazione come membri legittimi e riconosciuti della società umana sono, per i profughi, incerte e infinitamente remote (nel migliore dei casi). Sono stati presi tutti i provvedimenti per garantire che la loro esclusione sia permanente. Uomini e donne senza qualità sono stati depositati in territori senza nome, dove tutte le strade che riportano a luoghi investiti di un significato e a posti in cui possono essere (e sono) forgiati significati socialmente decifrabili, sono state bloccate per sempre.




[Iper-ghetti]

I rifiuti umani della terra-di-confine globale, i rifugiati, sono la personificazione stessa dell’emarginato (outsider), gli emarginati assoluti, che riescono estranei dovunque si trovino e fuori posto in ogni posto, tranne nei luoghi che sono essi stessi fuori luogo: i «non-luoghi» (nowhere places), quelli che non compaiono su nessuna mappa che le persone normali utilizzino nei propri spostamenti. Una volta che sei fuori, lo sei a tempo indeterminato; un recinto presidiato con torri di controllo è l’unico marchingegno necessario a fare sì che la «indefinitezza» della esclusione regga per sempre.

Per quel che riguarda gli esseri umani in esubero che sono già «dentro», la cui esclusione territoriale è impedita dalla saturazione del pianeta, il discorso è diverso. Data l’assenza di posti vuoti nei quali essi potrebbero esser deportati, o verso i quali potrebbero dirigersi di propria iniziativa in cerca di sostentamento, i siti di smaltimento devono essere allestiti presso le località che hanno reso quegli individui «eccedenti». Tali siti spuntano in tutte le città, o almeno nelle più grandi. Si tratta di ghetti urbani, o – per rifarci al parere di Loïc Wacquant 14 – di «iper-ghetti».

I ghetti, vengano chiamati o meno con il loro nome, sono istituzioni antiche. Essi servono allo scopo della «stratificazione composita», cioè a far coincidere le distinzioni di classe o di casta con la suddivisione territoriale. I ghetti possono essere volontari o imposti (benché solo questi ultimi, di solito, ne portino il nome e il marchio infamante); la principale differenza tra i due tipi riguarda il lato dal quale si presenta il «confine asimmetrico», ossia gli ostacoli ammassati, rispettivamente, all’ingresso o all’uscita dal territorio del ghetto. Anche nel caso dei «ghetti involontari», tuttavia, oltre alle decisive forze che «spingono» nel ghetto, hanno un piccolo ruolo anche quelle che «attirano» (o trattengono) al suo interno. Tali ghetti solevano essere «mini-società» che riproducevano in miniatura tutte le principali istituzioni che provvedevano alle necessità quotidiane e coadiuvavano nelle attività comuni della vita fuori dal ghetto. Essi offrivano anche ai loro abitanti un certo livello di sicurezza e almeno una parvenza del sentimento di appartenenza al luogo, cosa che fuori dal ghetto non avrebbero potuto trovare. Riprendendo la descrizione del modello dominante nei ghetti afroamericani dell’ultimo secolo effettuata da Wacquant,


la forza economica della borghesia di colore (medici, avvocati, insegnanti, uomini d’affari) si fondava sulla fornitura di merci e servizi ai loro fratelli di classe inferiore; e tutti gli abitanti neri della città erano uniti nel comune rifiuto della subordinazione di casta e nel durevole interesse a «promuovere la razza» […] Di conseguenza, il ghetto postbellico era integrato sia dal punto di vista sociale, sia da quello strutturale; persino i gaglioffi che si guadagnavano da vivere con traffici illeciti come il «numbers game», 15 lo spaccio di alcolici, la prostituzione e altri svaghi scabrosi, erano collegati con le diverse classi. 16


I ghetti tradizionali potevano pure essere dei recinti circondati da barriere (fisiche e sociali) insormontabili, ancorché invisibili, e in cui le poche vie d’uscita residue erano estremamente difficili da percorrere. Ammettiamo anche che fossero strumento di una segregazione classista e castale, che apponeva sui propri abitanti il marchio disonorevole dell’inferiorità e del rifiuto sociale. Però non erano (a differenza degli «iper-ghetti» che da essi si sono evoluti e ne hanno preso il posto verso la fine del Novecento) delle discariche in cui gettare la popolazione eccedente, superflua, inoccupabile e priva di qualunque funzione. Diversamente dal suo predecessore classico, il ghetto nuovo, a detta di Wacquant, «non funge da bacino di riserva di forza lavoro industriale al quale attingere, ma è un puro sito per la raccolta di rifiuti, cui sono destinati coloro dei quali la società circostante non ha, economicamente o politicamente, bisogno». Abbandonati dalla classe media della loro etnia, che non conta più solo sulla clientela nera e ha preferito comprarsi l’accesso alla maggiore sicurezza offerta dai ghetti volontari delle «comunità fortezza» (gated communities), gli abitanti del ghetto non sono in grado di inventare, da soli, funzioni economiche e politiche per cui e con cui riuscire utili, in alternativa a quelle che la società che li circonda ha loro negato. In definitiva,


mentre il ghetto nella sua forma tradizionale fungeva in parte da scudo protettivo contro la brutale esclusione razziale, l’iper-ghetto ha perduto il ruolo positivo di tampone collettivo, riducendosi a micidiale apparato di nuda segregazione sociale.


Detto altrimenti, il ghetto nero americano si è trasformato in una pura e semplice discarica per lo smaltimento dei rifiuti, che non ha di fatto alcuno altro scopo. «È regredito a marchingegno unidimensionale di semplice segregazione, un deposito umano nel quale sono abbandonati quei settori della società urbana ritenuti loschi, derelitti e pericolosi». Wacquant fa rilevare parecchi processi sociali, paralleli e tra loro coordinati, che riportano i ghetti neri americani sempre più vicino al modello para-carcerario delle «istituzioni totali» alla Goffman: la «carcerizzazione» dell’edilizia popolare, che rievoca con sempre maggiore insistenza le case di detenzione (i nuovi «progetti» sono delimitati da recinti, e il loro perimetro è sottoposto a pattugliamenti di sicurezza più serrati e a controlli autoritari; si hanno «perquisizioni casuali, segregazioni, coprifuochi e conteggi dei residenti: tutte procedure abituali di una efficiente gestione carceraria», 17 come ha osservato Jerome G. Miller); oppure, la trasformazione delle scuole statali in «istituzioni di confinamento» il cui fine primario non è di istruire, ma di assicurare «custodia e controllo»:


in realtà, sembra che lo scopo principale di queste scuole sia semplicemente quello di «neutralizzare» dei giovani ritenuti abietti e turbolenti tenendoli sotto chiave per la giornata in modo che almeno si astengano dai crimini di strada.


È in atto anche un cambiamento nella direzione opposta, che modifica la natura delle prigioni americane, le loro funzioni latenti e manifeste, i loro scopi espliciti e taciti, le loro strutture fisiche e le loro abitudini; sicché i ghetti urbani e le carceri si incontrano a metà strada, convergendo appunto nella discarica dei rifiuti umani… Per citare nuovamente Wacquant:


la «Grande Casa», che incarnava l’ideale correzionale di un trattamento volto al recupero dei detenuti e al loro reinserimento nella comunità, ha lasciato il posto a un «deposito» lacerato da divisioni razziali e funestato dalla violenza, orientato esclusivamente a neutralizzare dei rifiuti sociali confiscandoli fisicamente alla società.


Per quanto concerne i ghetti urbani, e in particolare quelli che spuntano come funghi nelle città europee con una consistente popolazione immigrata, questa trasformazione non è completa. A differenza dei neri americani, gli immigrati recenti (o relativamente recenti) che ci abitano non sono rifiuti umani prodotti in loco; sono «scorie importate» da altri paesi, con una vaga speranza di riciclarsi. La questione se tale riciclaggio sia o meno possibile, e quindi se il verdetto di destinazione alla spazzatura sia definitivo e totalmente vincolante, resta aperta. Questi ghetti urbani restano – potremmo dire – «mezze locande» o «strade a doppio senso». È a causa di questa natura provvisoria, irrisolta e non del tutto definita che essi rappresentano fonti e bersagli di un’acuta tensione, che sfocia quotidianamente in scaramucce di esplorazione e scontri di confine.

Forse quest’ambiguità, che differenzia i ghetti a popolazione immigrata e mista delle città europee dagli «iper-ghetti» americani, non è tuttavia destinata a durare. Come ha rilevato Philippe Robert, 18 i ghetti urbani francesi, che in origine funzionavano come stazioni di «transito» o di «passaggio» per nuovi immigrati di cui si prevedeva che sarebbero stati presto assimilati e assorbiti dalle strutture urbane consolidate, non appena l’occupazione non regolamentata è diventata precaria e volatile, e si è diffusa la disoccupazione di lungo periodo, si sono trasformati in «spazi di confinamento». È allora che il risentimento e l’animosità della popolazione nazionale crebbero fino a diventare un muro che relegava i «nuovi-arrivati-trasformati-in-emarginati» in un recinto invisibile, eppure praticamente impenetrabile. I quartiers, già socialmente degradati e tagliati fuori dalla comunicazione con le altre zone delle città, divennero a quel punto «i soli luoghi in cui [gli immigrati] potessero sentirsi chez soi, al riparo dagli sguardi ostili del resto della popolazione». Hughes Lagrange e Thierry Pech 19 19 osservano inoltre che quando lo Stato, avendo abdicato alla gran parte delle proprie funzioni economiche e sociali, ha scelto la «politica di sicurezza» (e, più concretamente, di incolumità personale) come perno della sua strategia – mirante a recuperare la propria autorità decaduta e a ripristinare la propria funzione protettiva agli occhi della cittadinanza – l’afflusso di nuovi arrivati ha cominciato a essere apertamente od obliquamente additato come responsabile dell’inquietudine e dei diffusi timori che scaturivano dalla precarizzazione sempre più forte del mercato del lavoro. I quartiers degli immigrati venivano rappresentati come fucine di microcriminalità, mendicità e prostituzione, a loro volta accusate di essere tra le cause primarie della crescente ansietà dei «cittadini comuni». Acclamato dai suoi cittadini alla disperata ricerca di fonti cui far risalire la propria ansia, lo Stato esibì di fronte a tutti i suoi muscoli. Flaccidi e indolenti in tutti gli altri campi, essi si mostrarono turgidi e implacabili nel criminalizzare le frange della popolazione più deboli e dall’esistenza più precaria, e nel mettere a punto politiche sempre più dure e inflessibili, e spettacolari campagne anti-crimine, dirette precisamente ai rifiuti umani di origine straniera ammassati nei sobborghi delle città francesi.

Loïc Wacquant sottolinea un paradosso: 20


Le stesse persone che ieri hanno combattuto con evidente successo la battaglia per «meno Stato», per togliere vincoli al capitale e al modo in cui esso impiega la forza lavoro, oggi hanno l’ardire di richiedere «più Stato» per arginare e occultare le conseguenze sociali deleterie della deregolamentazione delle condizioni di impiego e del deterioramento della protezione sociale per le fasce più basse dello spazio sociale.


Naturalmente, ciò è tutto meno che un paradosso. L’apparente mutamento di atteggiamento è strettamente conforme alla logica del passaggio dal riciclaggio allo smaltimento dei rifiuti umani. Tale metamorfosi è stata abbastanza rivoluzionaria da richiedere una collaborazione intensa e risoluta del potere statale, e lo Stato si è prestato. Anzitutto, smantellando l’assicurazione collettiva contro la fuoriuscita individuale (supposta temporanea) dal tran tran produttivo, cioè quel genere di protezione che tanto la sinistra quanto la destra dello schieramento politico hanno trovato ovviamente giusta fintanto che lo scivolone (e quindi la collocazione tra i rifiuti della produzione) era ritenuto transitorio ed era visto come uno stadio di riciclaggio breve e propedeutico alla «riabilitazione» e al ritorno al servizio attivo nella forza industriale; la popolarità bipartizan di quelle tutele, tuttavia, si dileguò velocemente quando le prospettive di recupero cominciarono a sembrare remote e incerte, e le strutture di riciclaggio ordinarie si rivelarono sempre più incapaci di accogliere tutti quelli che erano scivolati o erano rimasti fuori fin dal principio. In secondo luogo, progettando e costruendo nuovi e ben fortificati siti di smaltimento rifiuti, azione con cui si era certi di procurarsi un appoggio popolare sempre crescente, a mano a mano che svanivano le speranze di riuscire nell’opera di riciclaggio, diventava inservibile il metodo tradizionale di smaltimento dei rifiuti umani (cioè esportare la forza lavoro eccedente), si diffondeva e si intensificava la diffidenza verso una incondizionata «smaltibilità», di pari passo con l’orrore evocato dalla vista dei «rifiuti umani». L’immediata vicinanza di agglomerati di rifiuti umani, estesi e in crescita, destinati probabilmente a durare parecchio o per sempre, richiede politiche segregazioniste più rigorose e misure di sicurezza straordinarie, onde evitare che siano messi a rischio la «salute della società» e il «normale funzionamento» del sistema sociale. Le famose funzioni parsoniane di «gestione della tensione» e «mantenimento della struttura», che ogni sistema deve assolvere per poter sopravvivere, oggigiorno si riducono quasi interamente alla separazione stagna dei «rifiuti umani» dal resto della società, alla sospensione (nei loro confronti) del quadro giuridico in cui si svolgono le attività del resto della società, e alla «neutralizzazione» dei rifiuti stessi. Le «scorie umane» non si possono più dislocare in siti di smaltimento lontani e situati ben al di fuori dei limiti della «vita normale». Occorre quindi che siano sigillati in contenitori chiusi ermeticamente.

Il sistema penale offre contenitori del genere. Secondo il puntuale e conciso riassunto dell’attuale trasformazione redatto da David Garland, le prigioni che – nell’epoca in cui la detenzione mirava al recupero – «funzionavano come termine estremo del settore correzionale», oggi sono «concepite in modo assai più esplicito come un meccanismo di esclusione e di controllo». Sono i muri, e non ciò che accade tra quei muri, a «esser visti oggi come l’elemento più importante e più prezioso dell’istituzione». 21 Nel migliore dei casi, l’intento di «riabilitare», di «riformare», di «rieducare» e di riportare la pecorella smarrita all’ovile è soltanto un impegno verbale di circostanza; e, quando viene pronunciato, gli fa da contraltare un coro inferocito di ululati assetati di sangue, in cui i giornali popolari più seguiti interpretano il ruolo del direttore, e i politici di primo piano cantano le parti da solista. Lo scopo principale e forse unico delle prigioni è dichiaratamente quello di smaltire i rifiuti umani, e di farlo in modo definitivo e irreversibile. Scartati una volta, scartati per sempre. Per un ex detenuto libero sulla parola o in libertà vigilata, il rientro nella società è quasi impossibile, e quello in carcere è quasi certo. Anziché facilitare e guidare il percorso di reinserimento nella comunità dei detenuti che hanno scontato il periodo di pena, la funzione degli assistenti sociali che supervisionano chi usufruisce della sospensione condizionale è quella di mantenere la comunità al riparo dal pericolo costante momentaneamente a piede libero. «Gli interessi dei colpevoli condannati, ammesso che siano presi in considerazione, sono ritenuti fondamentalmente opposti a quelli del pubblico». 22

Anzi, i rei tendono a essere visti come «intrinsecamente malvagi e depravati», non «sono come noi», le eventuali somiglianze sono puramente accidentali…


Tra «noi» e «loro» non possono esservi né reciproca comprensione, né canali di intesa, né un’effettiva comunicazione […]

Che l’indole del reo sia frutto di tare genetiche o dell’esser cresciuto in una cultura antisociale, il risultato è il medesimo: una persona oltre i limiti accettabili, incorreggibile ed estranea alla comunità civile…

Coloro che non si inseriscono o non sono capaci di adattarsi devono essere scomunicati e scacciati con la forza. 23


In breve, le prigioni, come tante altre istituzioni sociali, sono passate dalla fase del riciclaggio a quella dello smaltimento dei rifiuti. La nuova destinazione che è stata loro assegnata è sulla prima linea nella battaglia per venire a capo della crisi in cui l’industria di smaltimento dei rifiuti è caduta a seguito del trionfo planetario della modernità e della recente saturazione del mondo. Tutte le scorie sono potenzialmente tossiche, o almeno, essendo definite scorie, rischiano di contaminare e turbare il corretto ordine delle cose. Se il riciclaggio non è più redditizio e le possibilità di attuarlo (almeno nell’odierno contesto) non sono più realistiche, la maniera giusta di trattare i rifiuti è accelerarne la degradazione e la decomposizione, mentre li si isola nel modo più sicuro possibile dall’ambiente umano normale.


Il lavoro, l’assistenza sociale e l’aiuto della famiglia erano i mezzi abituali tramite cui gli ex galeotti venivano reintegrati nella società convenzionale. Con il declino di queste risorse, la reclusione si è tramutata in un bando a più lunga scadenza, da cui gli individui hanno poche probabilità di ritornare a una libertà non sottoposta a sorveglianza…


Oggi la prigione è usata come una specie di riserva, una zona di quarantena nella quale, in nome della sicurezza pubblica, vengono confinati individui dichiarati pericolosi. 24

La costruzione di nuove prigioni, l’estensione della gamma delle trasgressioni punibili con la detenzione, la politica della «tolleranza zero» e le condanne più dure e severe sono frammenti dell’opera di riorganizzazione dell’industria di smaltimento dei rifiuti (vacillante e sulla via del fallimento) su basi più consone alla nuova condizione del mondo globalizzato.

*

In che misura le nowhereville dei profughi sono «assaggi» del mondo che verrà, e i loro detenuti sono gettati/spinti/costretti nel ruolo di suoi esploratori pionieristici? A domande come queste si può (se si può) rispondere solo con il senno di poi.

Per esempio, possiamo ora constatare (con il beneficio dell’ottica retrospettiva) che gli ebrei che abbandonarono i ghetti nel XIX secolo furono i primi a sperimentare e intendere appieno l’incongruenza del progetto di assimilazione e l’aporia dell’allora dominante precetto dell’autoaffermazione, in seguito confermate da tutti coloro che si inserivano nella modernità emergente. E cominciamo ad accorgerci adesso – sempre con il beneficio dell’esperienza – che l’intellighenzia multietnica postcoloniale (come Ralph Singh in Mimic Men di Naipaul, il quale non poteva dimenticare di aver offerto una mela al suo insegnante preferito, come ci si attendeva che tutti i bambini inglesi bene educati facessero, benché sapesse perfettamente che sull’isola caraibica dove si trovava la scuola non ci fossero mele) fu la prima a saggiare e appurare le crepe micidiali, l’incoerenza e la friabilità della dottrina della costruzione dell’identità, che poco dopo sarebbero state sperimentate dal resto degli abitanti del mondo liquido-moderno.

Verrà forse un tempo in cui scopriremo il ruolo di avanguardia degli odierni rifugiati nel sondare cosa significhi vivere in dei non-luoghi (nowherevilles) e nel saggiare l’ostinata permanenza della transitorietà, che potrebbero diventare l’habitat comune dei cittadini di questo nostro pianeta globalizzato e gremito.

 

(traduzione dall’inglese di Massenzio Taborelli)

 

Note

1 [I titoli dei paragrafi sono redazionali in quanto il testo inviatoci dall’Autore è una composizione di parti di conferenze non pubblicate o articoli già pubblicati in inglese negli ultimi anni].

2 All’epoca della guerra del Golfo, «quando Saddam Hussein scatenò i suoi elicotteri da combattimento sui curdi iracheni, questi tentarono di fuggire a nord verso la Turchia, per le montagne, ma i Turchi si rifiutarono di farli entrare. Li respinsero fisicamente indietro agli attraversamenti del confine. Ho udito un funzionario turco affermare che “noi odiamo questa gente. Sono dei fottuti porci”. I curdi rimasero quindi bloccati sulle montagne a dieci gradi sotto zero, provvisti spesso solo dei vestiti che indossavano al momento della fuga. I bambini patirono più di tutti: dissenteria, tifo, denutrizione […]». (Si veda Maggie O’Kane, “The most pitiful sights I have ever seen”, The Guardian, 14 febbraio 2003, pp. 6-11.

3 Garry Younge, “A world full of strangers”, Soundings, inverno 2001-2, pp. 18-22.

4 L’originale «statelessness» è convenzionalmente tradotto con «apolidia», ma qui (e nel seguito del testo) l’autore utilizzerà stateless e statelessness per indicare più in generale la condizione di chi è (anche provvisoriamente) sprovvisto di una cittadinanza per così dire esercitabile; o, meglio ancora, di chi – abbia o meno cittadinanza formale – è privo della capacità di far valere i diritti che essa teoricamente dovrebbe implicare, ossia è una sorta di apolide «di fatto». (N.d.T.)

5 Giorgio Agamben, Mezzi senza fine, Bollati Boringhieri, Torino, 1996.

6 Edmund Burke, Riflessioni sulla rivoluzione francese, Cappelli, Bologna, 1930.

7 Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1967.

8 Si veda la nota del traduttore [dell’edizione in inglese, N.d.T.]: Means without Ends; Notes on Politics, University of Minnesota Press, 2000, p. 143.

9 Si veda Michel Agier, Aux bords du monde, les réfugiés, Flammarion 2002, p.55-6.

10 Ibid. p. 86.

11 Ibid. p. 94.

12 Ibid. p. 117.

13 Ibid. p. 120.

14 Si veda Loïc Wacquant, “Urban outcasts: stigma and division in the black American ghetto and the French urban periphery”, International Journal of Urban and Regional Research, 3/1993, pp.365-83; “A black city within the white; Revising America’s black ghetto”, Black Renaissance Fall/Winter 1998, pp.142-51.

15 Gioco d’azzardo illegale basato sulla comparsa di combinazioni di numeri in giornali. (N.d.T.)

16 Si veda Loïc Wacquant, “Deadly symbiosis: When ghetto and prison meet and mesh”, Punishment and Society 1/2002, pp.95-134.

17 Jerome G.Miller, Search and Destroy: African-American males in the criminal justice system, Cambridge UP 1997, p.101.

18 Si veda “Une généalogie de l’insécurité conteporaine”, intervista con Philippe Robert, Esprit December 2002, pp.35-58.

19 Si veda Hughes Lagrange & Thierry Pech, “Délinquance: les rendez-vous de l’tat social”, Esprit December 2002, pp.71-85.

20Comment la ‘tolérance zéro’ vint à l’Europe, p.40.

21 The Culture of Control, pp. 177-78.

22 Ibid. p. 180.

23 Ibid. pp. 184, 185.

24 Ibid. p. 178.

 

 

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