indice del numero 4

 

 

 

 

Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo,
Torino, Bollati Boringhieri, 2004, pp. 139, ISBN 88-339-1516-6, Euro 9,50



Le macerie accumulate dalla storia recente e le rovine nate dal passato non si assomigliano. Vi è un grande scarto fra il tempo storico della distruzione, che rivela la follia della storia (le vie di Kabul o di Beirut), e il tempo puro, il tempo in rovina, le rovine del tempo che ha perduto la storia o che la storia ha perduto” (p. 135).

Questa raccolta di scritti di Marc Augé, che ha come titolo originale Le temps en ruines, si muove tra le due quasi-metafore delle rovine e delle macerie.

A dire il vero, la maggior parte delle pagine sono dedicate alla proposta di un’antropologia delle rovine e a quella, alla prima intersecata, di una fenomenologia del tempo in rovina o, come egli scrive, del tempo puro. La questione della differenza tra rovina e maceria, affiora invece di tanto in tanto, ma essenziale e urgente come solo l’attualità è capace di essere. Ed il fenomeno delle macerie appare come la prefigurazione di un mondo senza rovine, di un mondo in cui il tempo sarà azzerato e che, per tale ragione, non avrà più storia. Infatti, secondo Augé, “abbiamo bisogno di ritrovare il tempo per credere alla storia” (p. 43). E il tempo, il “tempo puro”, ce lo donano le rovine.

Che cosa intende Augé con l’espressione “tempo puro”? Egli intende un tempo sottratto alla storia, ridotto alla sua pura durata, potremmo dire, ma a una durata che non è quella della coscienza bensì quella che manifestano le cose prodotte dall’uomo nel momento in cui, in quanto rovine, si situano in una zona di indiscernibilità tra natura e storia. “Contemplare rovine – egli scrive – non equivale a fare un viaggio nella storia, ma a fare esperienza del tempo, del tempo puro. Riguardo al passato, la storia è troppo ricca, troppo molteplice e troppo profonda per ridursi al segno di pietra che ne è emerso. […] Riguardo al presente, l’emozione è di ordine estetico, ma lo spettacolo della natura vi si combina con quello delle vestigia” (p. 36). Il senso delle rovine non è storico né estetico, ma puramente temporale. È la durata nel senso della presenza “qui ed ora” di un frammento del passato. Il tempo puro che le rovine manifestano è, per utilizzare un famoso termine di Walter Benjamin – che stranamente Augé non menziona – l’aura delle cose, l’apparizione di una lontananza in una vicinanza. Augé comprende bene che l’aura non ha niente a che fare con la storia, ma con una esperienza “rovinosa” del tempo in cui è come se il passato cadesse nel presente sottraendosi alla storia, ma senza abolirsi in quanto tempo. L’esperienza delle rovine, se interpretiamo correttamente quanto scrive Augé, produce questo oblio della storia, aprendola ad un possibile nuovo e inedito inizio. Ciò non accade quando resta solo la natura. In questo caso, come accade anche nell’esperienza delle macerie prodotte da eventi catastrofici storici o naturali, il tempo verrebbe abolito e con esso la possibilità della storia umana. Si direbbe che, nell’oblio della storia, che l’esperienza delle rovine impone, si sovrappongano inestricabilmente tutte e tre le forme dell’oblio già studiate da Augé qualche anno fa, vale a dire il ritorno, la sospensione e l’inizio (M. Augé, Le forme dell’oblio, tr. it. di R. Salvadori, Milano, Il Saggiatore, 2000). L’oblio, nella forma del ritorno, implica la dimenticanza del presente e del passato prossimo; l’oblio nella forma della sospensione necessita la dimenticanza del passato e del futuro; l’oblio nella forma dell’inizio comporta, niccianamente, la dimenticanza del passato e l’inaugurazione di un tempo nuovo, di un tempo aperto a possibilità inattese. Ebbene, l’esperienza delle rovine comporta la sovrapposizione di tutte e tre le forme dell’oblio (della storia). E tutto ciò, come dicevamo, senza essere il “ricordo di nessuno”. Esse sono, appunto, il tempo in rovina, anche nel senso del tempo che rovina su se stesso, del tempo rovinoso in cui non si dà più alcuna possibilità di stabile orientamento tra passato, presente e futuro, che catastrofizzano in una durata pura sottrattasi alla storia senza, tuttavia, abolirsi nella natura. Le rovine “non sono il ricordo di nessuno, ma si presentano a chi le percorre come un passato che egli avrebbe perduto di vista, dimenticato, e che tuttavia gli direbbe ancora qualcosa. Un passato al quale egli sopravvive” (p. 74) e che, potremmo aggiungere, continua a sopravvivergli.

Oggi, tuttavia, le rovine sono oggetto del consumo turistico globalizzato. Questo Augé lo sa bene, dal momento che l’unica cosa che l’antropologia ha da sempre studiato (credendo magari di fare altro) sono stati i processi di globalizzazione del mondo. “L’attuale globalizzazione […] – egli scrive – non dovrebbe sorprendere l’antropologo: egli ha trascorso gran parte della sua vita a osservarne l’avanzata; le deve la sua stessa esistenza” (p. 13). Da tale punto di vista l’antropologia non è stata che una scienza delle rovine. Infatti, “che cosa avevano sotto gli occhi? Un campo di rovine, al cui disordine essi davano il loro contributo pretendendo di ricostruirne l’ordinamento, e un cantiere del quale non capitavo molto” (p. 14). Quindi, l’antropologo si è sempre trovato di fronte a due tipi di rovine: da un lato quelle derivanti dalla distruzione delle culture (delle tradizioni) dall’altro quelle relative ai “cantieri” aperti del nuovo. Questo è un punto importane per comprendere la prospettiva interpretativa di Augé. Egli è consapevole del fatto che questi due tipi di rovina sono due aspetti dello stesso ambivalente processo rovinoso. La rovina è distruzione del vecchio e, nel medesimo tempo (di nuovo la rovina del tempo), manifestazione del nuovo. Ad un certo punto egli afferma: “le rovine sono, come l’arte, un invito a sentire il tempo” (p. 97). Come l’arte (non tutta, per la verità), potremmo forse aggiungere che le rovine fanno il vuoto (della storia) intorno a sé, ma mostrando il tempo puro, cioè il tempo che rovina.

Tuttavia, se ci deve essere storia c’è bisogno che siano le rovine, che ci sia il tempo della rovina (e il tempo in rovina). Senza le rovine non potrebbe esserci più storia possibile. Ed è quanto accade col fenomeno delle macerie.

Le macerie pongono subito dei problemi di gestione: come sbarazzarsene? Che cosa ricostruire?” (p. 96). In ogni caso “siamo lontani dal tempo puro [delle rovine] che si insinua fra molteplici passati […] La storia futura non produrrà più rovine” (pp. 96-137).

Eppure, la prospettiva di Augé non indulge, per questo al pessimismo. “Sulle macerie nate dagli scontri che inevitabilmente [la storia futura] susciterà, si apriranno nondimeno dei cantieri, e insieme ad essi, chissà, una possibilità di costruire qualche altra cosa, di ritrovare il senso del tempo” (p. 137). Nei non luoghi tipici della sur-modernità (aeroporti, stazioni ferroviarie, ipermercati ecc.), nei luoghi di dispersione e di transito, in quei luoghi sempre troppo pieni (di folla) e troppo vuoti (di abitanti), in questi non luoghi, che possono solo diventare macerie e non più rovine, potrà forse un giorno ritrovarsi “una umanità senza frontiere” (p. 139), scrive Augé. Un’umanità, forse, sopravvissuta alle macerie della storia? Augé lo lascia intendere. E lascia intendere che i non luoghi non siano solo luoghi di estraniazione ma anche spazi in cui le singolarità a venire potranno al fine riconoscersi, ma in quanto straniere. E lascia intendere che in essi il tempo continuerà a rovinare, ma forse solo attraverso le rovine delle “identità”.


Vincenzo Cuomo

 


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