indice del numero 4

 

 

 

 

Resti di umanità nel pensiero di Hannah Arendt

di Aldo Meccariello


Negro latte dell’alba noi lo beviamo la sera
Noi lo beviamo al meriggio come al mattino lo beviamo la notte
Noi beviamo e beviamo
Noi scaviamo una tomba nell’aria chi vi giace non sta stretto…
Paul Celan


Nel 1941, all'età di trentacinque anni, Hannah Arendt, esule ebrea perseguitata dal nazismo e brillante allieva di Heidegger e di Jaspers, sbarca a New York, proveniente da Lisbona dove tanti profughi attendevano per mesi un visto che significava la via verso la salvezza e la libertà. Qualche anno dopo, in un breve saggio Noi profughi Hannah racconta la sua condizione di profuga, senza casa, senza lavoro, senza lingua, senza parenti, determinata, però, a ricostruire, in terra americana, la "sua vita spezzata"(1).

Dal 1933 al 1951, anno in cui ottiene la cittadinanza americana, Hannah fu un’apolide, una persona cioè priva di diritti politici, priva di una casa, priva di un posto nel mondo.

Quella della profuga ebrea, nel cuore della tormentata storia europea, è un'identità senza radice, ancor più segnata drammaticamente sia dall'esclusione come destino riservato per secoli agli ebrei, sia dall'inclusione intesa come adesione ed assimilazione ad una nuova patria.

L'ebraismo diventa in tal modo cifra di una condizione esistenziale comune a tutti gli uomini, che nell'ebreo si fa radicale: quella di sentirsi nel contempo dentro e fuori del mondo sociale e storico di cui si è parte senza appartenervi. Quella dell’ebreo è un’identità errante, che Hannah non si stanca di tematizzare in maniera esplicita in più luoghi della sua opera. Nel 1959, intervenendo ad Amburgo a ritirare il prestigioso premio Lessing, ritorna sul suo ebraismo, analizzandolo come la dura rappresentazione dell’ umanità che è precipitata nei brechtiani “tempi oscuri” (2)

Alla domanda “chi sei”, ella confessa che per molti anni ha risposto sempre di essere “un’ebrea” alludendo “non a un genere speciale di essere umano come se il destino degli Ebrei fosse o rappresentativo o esemplare del destino genere umano…non mi riferivo neppure a una realtà investita o prospettata nella sua specificità nella Storia” (3) ma ad una determinata condizione politica che, nella fattispecie, era quella della persecuzione e dello sterminio. Per il Terzo Reich, sin dalle infauste leggi di Norimberga emesse nel settembre del 1935, “a protezione del sangue e dell’onore tedesco”, gli ebrei erano considerati non persone, privati della cittadinanza, umiliati e via via esclusi dalla vita sociale ed economica della Germania, oscuro presagio di quella “riduzione degli esseri umani a esseri superflui” cioè, resti di umanità, rifiuti della storia.

Molti anni più tardi, nel 1975, intervenendo a Copenaghen a ritirare il premio Sonning “per il suo contributo alla cultura europea”, Hannah Arendt ritorna sul suo essere ebrea “feminini generis(4), rievoca la sua storia personale, segnata dall’esilio ma ribadisce con molta forza che non ha mai voluto sviluppare “un desiderio di appartenenza, nemmeno in Germania” perché la sua ebraicità è semplicemente un dato di fatto indiscutibile, “è il sentirsi semplicemente una di loro” (5).

C’è una bella immagine nel suo memorabile libro su Rahel, l'intellettuale ebrea, animatrice dei salotti berlinesi alla fine del XVIII secolo, che può ritornare utile a schiarire questo suo modo di vivere l’ebraicità come resto:

Poiché Rahel, nonostante tutti i suoi sforzi, non trova un inserimento sociale, e le sue tendenze all’assimilazione si fermano in uno spazio vuoto d’aria e di persone, non le riesce di diventare un essere umano tra gli uomini”(6). Quasi identificandosi nel medesimo destino, dell'essere ebrea, dell'essere tedesca e dell'essere "straniera, Hannah, come Rahel, percepisce di vivere, in uno spazio vuoto…d’aria e di persone, in una sorta di limbo scosso dalle dure tempeste della storia. E come si sa, nella dimensione del vuoto non si può essere classificati, è vivere l’abisso come l’elemento naturale del proprio essere.

Ecco delineata la condizione del paria, dell’apolide, cioè resti di umanità privati per sempre di un posto nel mondo e di un posto tra gli altri uomini. Tuttavia, per l'Arendt, vi è stata una minoranza di ebrei che, nonostante i drammi e le sofferenze patite, hanno scelto la condizione di «pariah consapevoli» vissuta come pratica di resistenza e di liberta: tra questi, Heinrich Heine, Rahel Varnhagen, Bernard Lazare, Franz Kafka e Charlie Chaplin che con la loro opera e la loro vita incarnarono modalità di libertà possibili in un mondo di catastrofi.(7).

Quello del margine e della superfluità è il grande tema della riflessione politica arendtiana, dai saggi degli anni 1944-47 alle Origini del Totalitarismo, il discusso capolavoro del 1951, alla Banalità del male del 1963 fino agli ultimi scritti. Di questo vogliamo dar conto, provando a ricostruire un desolante scenario della modernità, sondando il drammatico ritmo di alcune pagine arendtiane, in specie delle Origini. Quella degli ebrei nel periodo compreso tra le due guerre mondiali diventa la metafora viva del rifiuto, destinata a caratterizzare tutto il Novecento sia sotto il profilo storico-politico, sia sotto il profilo di un’acuta riflessione sulla questione dei diritti umani. Rifiuti sono tutti quegli esseri umani che hanno conosciuto l’inferno “come qualcosa di reale, quanto le case, le pietre e gli alberi” (8) quando sono stati traditi dai loro amici e messi nei campi di concentramento dai loro nemici. In una drammatica e densissima pagina delle Origini del Totalitarismo, Hannah Arendt scrive:

La disgrazia degli individui senza status giuridico non consiste nell’essere privati della vita, della libertà, del perseguimento della felicità, dell’eguaglianza di fronte alla legge e della libertà di opinione…ma nel non appartenere più ad alcuna comunità di sorta, nel fatto che per essi non esiste più nessuna legge, che nessuno desidera più neppure opprimerli” (9).

Si tratta di una vicenda, quella degli apolidi o senza patria (stateless., Heimatlosen, apatrides), che comincia con la graduale privazione di ogni cosa, poi con l’isolamento e l’ammassamento nei ghetti, per concludersi, infine, tragicamente nelle camere a gas. Dei mucchi di cadaveri ritrovati nei campi di sterminio, Hannah Arendt ebbe notizia nel 1943 come racconta nella celebre intervista a Günter Gaus (10), per lei fu un vero trauma e subito Auschwitz le apparve come un evento senza precedenti nella storia dell’umanità “qualcosa con cui era impossibile venire a patti”.

In un saggio impressionante scritto nel gennaio del 1945, in concomitanza con la liberazione del campo di Auschwitz da parte dei soldati dell’Armata Rossa, “Colpa organizzata e responsabilità universale”, Hannah Arendt coglie un aspetto fondamentale del processo di sterminio cioè il suo lato industriale quando descrive “quell’enorme macchina amministrativa dell’assassinio di massa, al cui servizio potevano essere, e furono impiegate, non solo migliaia di persone e persino migliaia di assassini scelti, ma un intero popolo”(11). L’assassinio di massa sistematico, quindi, altera la capacità di pensare degli esseri umani e insieme scompagina le categorie conosciute del pensiero politico.

Auschwitz - raccontavano i sopravvissuti - era l’inferno sulla terra, aveva “estirpato dal mondo il concetto stesso di uomo”. Come era potuto accadere che milioni di uomini considerati “superflui” dalla terrificante propaganda nazista fossero stati cancellati completamente nei forni crematori ?

Era nata una nuova specie di uomini che non avevano diritto ad essere chiamati uomini perché erano semplicemente considerati ”superflui”, “resti o rifiuti di umanità”. Erano uomini senza storia e senza mondo. Hannah, per rendere conto a Rahel e a se stessa, vuole capire il fenomeno, ricostruirne le radici, scrutarne la complessa evoluzione anche per mettere in luce un paradosso della cittadinanza moderna e più in generale della modernità: il fatto che la conclamata dichiarazione dei Diritti dell’uomo alla fine del XVIII secolo riconosceva e sosteneva solo i diritti dei cittadini in quanto membri di una nazione e non i diritti di individui ovunque stranieri indesiderabili cioè privi di una cittadinanza nazionale cioè gli ebrei ma non solo essi. In un celebre capitolo delle Origini del Totalitarismo dal significativo titolo “Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani”(12), l’Arendt con lo sguardo della pensatrice politica delinea la vicenda dei senza-patria, collocandone l’elemento drammatico e di svolta, nel periodo fra le due guerre mondiali quando gruppi di profughi di diverse nazioni rimasero senza patria e furono condannati all’apolidicità.

La disgregazione violenta dei quattro imperi alla fine del 1918 a cui seguì la stipula dei Trattati di pace accelerò la formazione delle minoranze e creò schiere consistenti di masse di profughi (russi, ucraini, polacchi ed ebrei) nell’Europa orientale e meridionale. Se le minoranze tuttavia potevano ancora godere di una protezione supplementare e di speciali garanzie per godere di certi diritti, questo non fu possibile per il popolo disperso degli apolidi, gente che non poteva contare più in una patria o in una terra. “Di questa categoria - scrive l’Arendt - entrarono a far parte in ordine cronologico, milioni di russi, centinaia di migliaia di armeni, migliaia di ungheresi, centinaia di miglia di tedeschi e oltre mezzo milioni di spagnoli, per enumerare soltanto i gruppi più importanti” (13). Ovunque stranieri, anche a seguito delle vicende rivoluzionarie, moltissimi di loro, abbandonati dai governi europei, trovarono rifugio negli Stati Uniti, mentre altri furono costretti a mendicare di volta in volta un appoggio, una protezione.

Gli Heimatlosen, gli apatrides, le displaced persons sono i nomi che declinano il fenomeno dell’apolidicità di cui l’Arendt dà un ampio e drammatico resoconto, ricordando non senza una punta di ironia come l’atteggiamento dei governi europei nei confronti degli apolidi oscillasse a lungo fra l’idealismo e la rimozione cioè “fra gli sforzi di sinceri idealisti che insistono tenacemente a considerare ‘inalienabili’ diritti umani in realtà goduti soltanto dai cittadini dei paesi più prosperi e civili, e la situazione degli individui privi di diritti, che è costantemente peggiorata, sino a fare del campo di internamento…la soluzione corrente del problema della residenza delle ‘displaced persons’ (14). Ad aggravare la situazione fu il venir meno del diritto d’asilo, che da sempre considerato il simbolo dei diritti umani nella sfera delle relazioni internazionali veniva ridotto alla stregua di un puro anacronismo..

Evviva l’annientamento dell’individuo! Presso gli antichi greci, il pensiero era un segno di distinzione. Poi divenne una fortuna. Più tardi una malattia.oggi un delitto. La storia della civiltà è la storia dei dolori che l’hanno creata”. Così si esprime Marill, uno dei personaggi del celebre romanzo di Erich M.Remarque, Ama il prossimo tuo, pubblicato nel 1941 (15) che descrive in maniera esemplare le traversie di alcuni profughi, cacciati dalla Germania nazista. Un giudizio che Hannah Arendt avrebbe condiviso certamente, guardando retrospettivamente la sua esperienza di profuga nel campo di internamento di Gurs in Francia dove aveva meditato seriamente di togliersi la vita (16). Il campo di internamento diventava paradossalmente “l’unica patria che il mondo aveva da offrire all’apolide”(17) poiché i rimedi del rimpatrio e della naturalizzazione fallirono entrambi sia per la crescita tumultuosa dei profughi ad Est come ad Ovest che spiazzò i reticenti governi europei, non all’altezza del problema sia per la inadeguata e fuorviante legislazione dello stato nazionale. La conseguenza estrema fu che i governi sia quelli democratici che quelli totalitari demandarono l’intera faccenda alla polizia ”che venne autorizzata ad agire per conto proprio, a disporre direttamente delle persone…come un’autorità indipendente dal governo”(18).

Hannah Arendt descrive con una forte carica emotiva questo scempio dei diritti umani che relega il popolo degli apolidi in una sorta di limbo, oscuro vestibolo, che precede l’ingresso nelle camere a gas. Gli ebrei erano la maggioranza di questo volgo disperso che nome non ha e presto furono trattati come corpi estranei, pronti ad essere trasformati in cenere. Che poi fu la specialità della soluzione hitleriana.

In questo contesto, la riflessione arendtiana si sposta su un’analisi impietosa della Dichiarazione dei diritti umani e dei suoi vistosi limiti in relazione alla realtà concreta degli Stati nazionali.

Le incertezze dei diritti umani sono la grande aporia della cittadinanza moderna che si rivela drammaticamente attuale di fronte ad apolidi e migranti dei nostri giorni.

La Dichiarazione, frutto di una cultura emancipatrice e cosmopolita, si rivelò ben presto una pura illusione quando pretendeva di garantire i diritti di tutti, “una specie di cenerentola del pensiero politico del XIX secolo”, manipolata e umiliata dalle varie legislazioni degli stati nazionali.

La questione dei diritti umani –scrive Hannah Arendt- si intrecciò ben presto inestricabilmente con quella dell’emancipazione nazionale; solo la sovranità del popolo, del proprio popolo, sembrò capace di garantirli. Poiché, fin dai tempi della rivoluzione francese, l’umanità era concepita come una famiglia di nazioni, si stabilì a poco a poco che il popolo, e non l’individuo , era l’immagine dell’uomo”(19). Il passaggio arendtiano non è solo una dura critica dello Stato nazionale ma coglie l’ambiguità flagrante della nozione di sovranità (che è tale se solo è inerente allo stato nazionale che l’autrice svilupperà soprattutto nell’opera del 1963, Sulla Rivoluzione) e cioè che lo stato riconosceva come cittadini con tutti i diritti soltanto coloro che per origine e nascita appartenevano alla comunità nazionale e quindi i diritti umani de facto vennero garantiti soltanto come diritti nazionali. Ma la caratteristica ancora più drammatica questa volta intrinseca alla struttura medesima della Dichiarazione è quella di fondarsi sulla natura umana intesa astrattamente cioè indipendenti dalla Storia, essi furono inapplicabili anche perché non furono considerati diritti spettanti ai cittadini cioè ad uomini in quanto membri appartenenti comunque alla comunità umana.

Il punto decisivo è che tali diritti, e la dignità umana ad essi legata, dovrebbero rimanere validi e reali anche se un solo uomo esistesse sulla terra; essi sono indipendenti dalla pluralità umana e dovrebbero quindi conservare il loro valore anche se un individuo fosse espulso dalla società” (20).

Il diritto ad avere diritti - osserva l’Arendt - o il diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa (21). Che è poi il presupposto, per ogni individuo, dotato del potere di pensare e di parlare, del diritto alla relazione umana, del diritto all’opinione e all’azione politica.

Dunque, gli apolidi sono i rifiuti dell’umanità, considerati alla stregua di cose viventi la cui esistenza si può raccontare benjaminianamente come un indesiderabile ”mucchio di cocci”, come una sequenza ininterrotta di perdite. Ed è il tema della perdita, il filo conduttore che unifica le pagine arendtiane in un ritmo incalzante, senza sosta come in uno sconsolato dramma di naufraghi..

La prima perdita è stata quella della patria “cioè dell’ambiente circostante, del tessuto sociale in cui sono nati e in cui si sono creati un posto nel mondo” (22), un fenomeno comunque noto che ha caratterizzato nei secoli passati le migrazioni forzate di individui ed intere popolazioni. Quel che è senza precedenti- nota la Arendt- non è più la perdita di una patria, ma l’impossibiltà di trovarne una nuova. Poi c’è una seconda perdita che è stata quella della protezione del governo di appartenenza e ciò significa per queste persone la perdita dello status giuridico in tutti i paesi, e non soltanto nel proprio. Non senza un’amara ironia, l’Arendt sottolinea che i trattati internazionali ”hanno tessuto intorno alla terra una rete che consente al cittadino di qualsiasi paese di portare con sé il proprio status giuridico dovunque vada. Ma chi non è più avvolto da essa, è fuori della legalità…”(23). Quella degli apolidi è stata una sorte peggiore del soldato in guerra minacciato del suo diritto alla vita, del criminale privato del diritto alla libertà e perfino dello straniero nemico protetto dal suo governo perché la loro condizione è stata di totale privazione dei diritti umani e quindi della mancanza di un posto nel mondo. Ed è stata soprattutto la perdita di una comunità politica ad espropriare queste persone persino della loro dignità umana. La loro vera sventura estrema fu il campo di sterminio. In un passaggio inquietante dedicato alla struttura dei regimi totalitari, l’Arendt tematizza in maniera esplicita questo percorso che ha portato gli individui senza stato, senza patria, al bando della legge dritti nelle camere a gas: “La folle produzione in massa di cadaveri è preceduta dalla preparazione, storicamente e politicamente intelligibile, di cadaveri viventi…ciò è potuto avvenire perché i diritti dell’uomo, che non erano mai stati filosoficamente giustificati né politicamente garantiti, hanno perso ogni validità nella loro forma tradizionale” (24).

Non mancano echi kantiani in questa appassionata ricostruzione che Hannah Arendt fa della apolidicità assurta ad emblema della condizione umana moderna che è sempre più esposta potenzialmente al pericolo di una nuova e inedita barbarie. Se – come scriveva il suo amato Kant nella Pace Perpetua - “il diritto al possesso comune della superficie della terra, sulla quale, essendo sferica, gli uomini, non possono disperdersi all’infinito, ma devono da ultimo tollerarsi nel vicinato, nessuno avendo in origine maggior diritto di un altro ad una porzione determinata della terra”(25), non diventa un patrimonio comune di tutti e “una necessaria integrazione del codice non scritto”, il pericolo tremendo è che “una civiltà universale produca dei barbari dal suo seno costringendo, in un processo di decomposizione interna, milioni di persone a vivere in condizioni che, malgrado le apparenze, sono quelle delle tribù selvagge” (26).

E il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità è la grande utopia im(possibile) del pensiero arendtiano, un pensiero che cresce nel magma arroventato della storia novecentesca ma che fa sempre appello, cosa che non è mai scontata, all’umanità ”come un fatto inevitabile”.



Note

(1) H. Arendt, Ebraismo e Modernità, tr.it. di G. Bettini, Milano, Feltrinelli, 2001, p.36.

(2) Si tratta del discorso pronunciato dall’Arendt il 28 Settembre 1959, in occasione del conferimento del premio Lessing, prestigiosa istituzione della Libera Città Anseatica di Amburgo, tr.it. di L.Boella, L’umanità nei tempi oscuri. Riflessioni su Lessing, in La Società degli individui, Quadrimestrale di teoria sociale e storia delle idee, n.7, Anno III, 2000/1, Edizioni. Franco Angeli, pp. 5-30.

(3) Ibidem, pp.18-19.

(4) H. Arendt, Responsabilità e Giudizo, a cura di Jerome Kohn, tr.it. di D.Tarizzo, Torino, Biblioteca Einaudi, 2004, p.4. Responsabilità e giudizio è il titolo di una raccolta di saggi editi e inediti, curati da Jerome Kohn per anni suo assistente alla New School for Social Research di New York

(5) H. Arendt, Ebraismo e modernità, cit., pp.222-223. Si tratta di un passo dalla celebre lettera di risposta che l’autrice inviò a Gerhard Scholem il 24 Luglio del 1963 a seguito di una dura discussione che i due ebbero sul caso Eichmann. ”Non amo nessun popolo, o collettività - scriveva la Arendt - né il popolo tedesco, né quello francese, né quello americano, né la classe operaia, né nulla di questo genere. Io amo solo i miei amici e la sola specie d’amore che conosco e in cui credo è l’amore per le persone”.

(6) H. Arendt, Rahel Varnhagen. Storia di una donna ebrea, tr.it. e introd. di Lea Ritter Santini, Milano, Net, 2004, p.139.

(7) H. Arendt, Il futuro alle spalle, a cura di L.R.Santini, tr.it.di V.Bazzicalupo e S.Muscas, Bologna, Il Mulino, 1995.

(8) H. Arendt, Ebraismo e modernità, cit., p.36.

(9) H. Arendt, Le Origini del Totalitarismo, tr.it. di A. Guadagnin, Milano, Edizioni di Comunità, 1996, p.409.

(10) H. Arendt, Che cosa resta ? Resta la lingua. Una conversazione con Gunther Gaus in Archivio Arendt,1.1930-1948, a cura di Simona Forti, Milano, Feltrinelli, 2001, pp.48-49.

(11) H. Arendt, Ebraismo e modernità, cit. pp.68-69.

(12) H. Arendt, Le Origini, cit., p.372.

(13) Ibidem, p.386.

(14) Ibidem, p.388.

(15) E. M. Remarque, Ama il prossimo tuo, tr.it. di G.Isani, Milano, Oscar Mondadori, 1970.

(16) E. Young-Bruehl, H.Arendt.1906-1975. Per amore del mondo, tr.it. di D.Mezzacapa, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, pp.188-189. La sua biografa riporta una lettera di Hannah a Kurt Blumenfeld, datata , Agosto 1952, in cui Hannah rievoca i giorni di Gurs dove la questione di togliersi o meno la vita se l’era posta seriamente anche se poi dette una risposta da burla.

(17) H. Arendt, Le Origini, cit., p.394.

(18) Ibidem, p.399.

(19) Ibidem, p.404.

(20) Ibidem, p.412.

(21) Ibidem, p.413. Cfr. E. Young-Bruehl, H. Arendt.1906-1975. Per amore del mondo, cit., pp.289-290. La Young-Bruhel racconta che il secondo marito dell’Arendt, H.Blqcher, a cui è dedicato Le Origini, passava il suo tempo almanaccando sulla situazione mondiale e aveva pensato, alla fine degli anni ’40, a una Lega per i diritti dei Popoli e ne aveva scritto la dichiarazione programmatica, ma nessun gruppo riprese la sua idea di difendere il diritto di ciascun popolo «alla vita, alla libertà, e al perseguimento di un lavoro creativo».

(22) H. Arendt, Le Origini, cit., p.406.

(23) Ibidem, p.407.

(24) Ibidem, p.612.Cfr.Giorgio.Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita. Torino, Einaudi, 1995. In particolare si veda la Parte terza, Il campo come paradigma biopolitico del moderno, pp.129-170 E, inoltre, cfr. Ilaria Possenti, L’apolide e il paria. Lo straniero nella filosofia di Hannah Arendt, Roma, Carocci, 2002.

(25) I. Kant, Per la Pace Perpetua, tr.it. di Nicolao Merker, Roma, Editori Riuniti, 1992, p.23. Si veda, a tal proposito, il commento arendtiano a Per la Pace perpetua nell’ottava lezione delle Lectures in H.Arendt, Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla filosofia politica di Kant, tr.it. di P.P.Portinaro, Genova, Il Melangolo, 1990, pp.73-80.

(26) H. Arendt, Le Origini, cit., pp.418-419.


 

 

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