La 
          voce e gli scarti della trascendenza
         di 
          Vincenzo Cuomo
        
        
         
          Vocemi, 
          grafemi, rifiuti delle vertigini della trascendenza, pura immanenza 
          dell’universo con cui siamo alle prese.
        Paul 
          Zumthor
        
        
         
          [La 
          voce è] l’originarietà di una differenza […] 
          che non si limita a dividere o differire l’unità supposta 
          primaria […], ma che è essa stessa […] 
          esclusivamente il rinvio a sé, grazie al quale il sé 
          medesimo si sostiene, ma si sostiene in una condizione di deiscenza 
          o di scarto differenziale da sé.
        Jean-Luc 
          Nancy
        
        
        
        
        
        
        
          -  
            
Preambolo: 
              la voce come scarto e come deiscenza.
         
         
        
        Cominciamo 
          con una domanda. Quale rapporto c’è tra simbolico e scarto? 
          Quale relazione intercorre tra il simbolo – che per sua natura 
          “sta per … un altro simbolo” che sostituisce o a 
          cui si sovrappone nella catena simbolica – e lo scarto (inteso 
          qui sia come l’atto dello scartare sia come la risultanza di questo 
          stesso atto). Lo scarto è forse strutturale allo stesso 
          darsi del simbolico? Secondo percorsi diversi (ma comunicanti) sia Lacan 
          che Derrida – entrambi su ciò debitori di Hegel – 
          ci hanno mostrato proprio questo: l’impossibilità per il 
          simbolo di “dire” il reale (sempre catastrofico) 
          e la congiunta impossibilità di separarsi da esso, l’impossibilità 
          di lasciarlo alle spalle attraverso la realizzazione di una perfetta 
          autonomia e auto-trasparenza simbolica. Impossibilitato a dire il reale, 
          il simbolo ne è, tuttavia, continuamente affetto, mostrandosi 
          sempre anche come sintomo e come traccia. In entrambi 
          i casi (ma sono effettivamente due casi diversi?) il simbolo è, 
          contemporaneamente e paradossalmente, il suo stesso scarto e 
          il suo stesso rifiuto.  
        Che 
          cosa, allora, il simbolo produce come scarto – e da che cosa, 
          strutturalmente esso stesso continua ad essere affetto? Potremmo rispondere, 
          un po’ provocatoriamente, la presenza! La presenza bruta 
          dell’essere (e dello stesso “soggetto”). A patto di 
          concepire la presenza non come sinonimo di stabilità 
          e di permanenza – attributi su cui bisognerebbe riflettere 
          a lungo – bensì come evento, di volta in volta singolare, 
          che, in quanto tale, viene alla presenza (da una non-presenza 
          – sulla cui interpretazione non osiamo per ora prendere posizione). 
          Un evento che non si identificasse con il suo venire alla presenza non 
          sarebbe un evento. Ora, il darsi dell’evento implica, innanzitutto, 
          due cose: a) un improvviso e imprevisto sorgere di una singolarità 
          e un altrettanto improvviso e imprevisto perire di un’altra 
          singolarità (che, rispetto a quella che sorge può essere, 
          a posteriori, concepita come pre-individualità); b) la realtà 
          di tale brusca insorgenza. Ora, il simbolo, pur essendo necessariamente 
          traccia e sintomo di tale realtà e repentinità 
          dell’evento (sul fenomeno del “repentino” cfr. Masullo, 
          1995, pp.49 sgg.), altrettanto necessariamente resta segno esterno 
          ad esso. Il segno non può dire l’evento, ma tutt’al 
          più “ciò che resta del fuoco” (Derrida, 2000; 
          sul testo di Derrida, cfr. Moroncini, 1988). La potenza del segno – 
          come aveva già chiarito Hegel – è la sua stessa 
          impotenza. Il segno è condannato a dire altri segni, indefinitamente. 
          Ma il gioco dei segni non è “vuoto” – come 
          potrebbe apparire – non è puro e semplice gioco formale 
          (a meno che non si identifichi – suicidandosi come metalinguaggio 
          – con un suo possibile linguaggio-oggetto interamente formalizzato, 
          ma anche in tal caso sarebbe costretto a fare i conti con la strutturale 
          indecidibilità gödeliana). La lingua non è mai “pura” 
          – come ebbe ad accorgersi lo stesso Mallarmé. C’è 
          sempre un fuori che la “timbra” e che, attraverso 
          di essa, parla, per quanto attraverso la forma della mutezza. 
          Tuttavia, se il reale è il piano di eventi sempre catastrofici 
          (nel senso di “cambiamenti improvvisi”, pieghe di pieghe), 
          e se il resto di tale “fuoco” marca, timbra (sul 
          timbro vocale della parole cfr. Lyotard, 1991b, p. 24 e Nancy, 2004, 
          pp. 63 sgg.), l’impossibile purezza del simbolo, allora la voce 
          è necessario che sia. Nel senso che è necessario che si 
          dia un’apprensione del reale che sia, al contempo, un mostrare, 
          una esposizione di tale sentire. Dove? Lì, al limite della 
          parola, quindi, dentro e fuori di essa.
        
        La 
          voce (quel che qui chiamiamo voce) è un fenomeno paradossale, 
          un vero e proprio “a priori materiale” dell’esistente. 
          Essa ha una doppia caratterizzazione: è un sentire (è 
          pathos) ed è, nello stesso tempo, un mostrare. 
          Essa sente (sentendosi) e mostra, esponendo il suo sentire. 
          Essa è, nello stesso tempo, un (complesso) sentire e un 
          (complesso) mostrare (Cuomo, 1998). In quanto sentire la voce 
          è apprensione del reale, reale anch’essa. 
          In quanto mostrare essa è gesto che espone. Potremmo provvisoriamente 
          affermare che essa sia real-ideale. La voce è, cioè, 
          evento ed esposizione dell’evento (dell’evento 
          appreso e del “suo” stesso evento).  
        Jean-Luc 
          Nancy, riprendendo e radicalizzando alcuni motivi della famosa analisi 
          che Derrida svolse del fenomeno della voce (Derrida, 1968), ha scritto 
          di recente che la voce è originariamente differente, consistendo 
          nel rinvio a sé “grazie al quale il sé medesimo 
          si sostiene, ma si sostiene in una condizione di deiscenza e di scarto 
          differenziale da sé” (Nancy, 2004, p. 44). Per comprendere 
          questa tesi di Nancy, bisogna innanzitutto capire cosa significhi che 
          la voce è originariamente “rinvio a sé” e 
          solo dopo potremo accettare l’idea che la voce sia la sua stessa 
          deiscenza, che sia la sua stessa degradazione/impurità.  
        
        Rinvio 
          a sé è senza dubbio la voce intesa come apprensione-risposta 
          all’evento (al divenire, al mutamento) e contemporaneamente come 
          apprensione-risposta a quell’insorgenza che essa stessa 
          è. Utilizzando un’espressione di Carlo Sini (Sini, 1989, 
          p. 83), potremmo anche dire che la voce accade “nello stesso tempo 
          del suo accadere-dopo”. Che cosa vogliamo intendere? Che qualcosa 
          accade e, accadendo, produce accadimenti; tale catena 
          di accadimenti può, in determinate circostanze (che in genere 
          chiamiamo vita), produrre un accadimento che reagisce al suo stesso 
          accadere – reagendo ad una indefinita catena di accadimenti; questo 
          accadimento, allo stesso tempo pathos ed esposizione del 
          suo impersonale sentire, è la voce.  
        In 
          quanto pathos, la voce è l’immanenza assoluta. 
          In quanto gesto è il trascendimento di tale immanenza. 
          Ma la voce è, nello stesso tempo, pathos e gesto, 
          quindi, è, come ha ben visto Nancy, il suo stesso scarto, 
          la sua stessa deiscenza.
        
        
        
        
        
          -  
            
Pathos 
              vocale (il sentire della voce).
         
        
        Secondo 
          Derrida, la presenza a sé della coscienza implica sempre un rimando 
          di una traccia ad un al di là che non è mai presente. 
          Ma la voce è sentire, cioè pathos (sulla 
          teoria generale del patico un rimando imprescindibile è 
          a Masullo, 2003). Ora, il pathos non può non essere presente. 
          Il pathos, quindi, non è traccia. Le tracce non “sentono”, 
          non nascono né muoiono, anche se sono ciò che resta 
          del fuoco (sia nel senso della cenere che resta una volta che 
          la fiamma si sia spenta; sia nel senso del fuoco che, in qualche modo, 
          un pò resta, per citare ancora Derrida, 2000, pp. 55-56).  
        
        Nel 
          suo essere risposta, la voce non soltanto sente la catastrofe 
          dell’essere – che è sempre anche il sorgere degli 
          essenti – ma sente anche la singolarità del suo stesso 
          responsivo/reattivo sorgere. Qui riposa un fondamentale elemento di 
          indecidibilità tra umanità e animalità: 
          la separazione metafisica uomo/animale in base alla quale l’uomo 
          sarebbe un animale responsivo (cfr. Waldenfels, 2002) e l’animale 
          solo uno reattivo, trova nel fenomeno della voce una radicale 
          messa in crisi. La voce è “reazione” e “risposta” 
          al tempo stesso. Oppure, forse, come si dice in gergo filosofico, accade 
          prima di questa distinzione.  
        La 
          voce, nel sentire l’evento, sente il fuoco che distrugge 
          e vivifica ad un tempo. Essendo reazione/risposta che accade contemporaneamente 
          a questo fuoco, è questo fuoco stesso. Ma anche, nello 
          stesso tempo, il gesto che lo mostra. Gesto per forza di cose 
          duplice, perché mostra l’abisso del nulla da cui proviene 
          e il limite d’essere che gli è accaduto in sorte 
          (Cuomo, 1998, in particolare il capitolo terzo). D’altra parte, 
          lo stesso sentire è duplice perché è sentire 
          una mancanza e una potenza d’essere (anche su ciò 
          Cuomo, 1998, capitolo quinto).
        
        
          -  
            
Il 
              gesto vocale.
         
        
        Ogni 
          lingua, come ha mostrato Julia Kristeva (Kristeva, 1979), fondandosi 
          su di un sistema fonematico, strutturalmente esclude vaste gamme di 
          sonorità vocali e, quindi, si fonda su di uno scarto vocale. 
          Secondo la Kristeva, la vocalità è espressione 
          di una chora semiotica materna in cui l’infans sperimenta 
          creativamente tutte le possibili sonorità, per poi imparare ad 
          utilizzare un codice fonematico determinato che ne esclude la maggior 
          parte. Come scrive Lyotard (un pensatore, per la verità un po’ 
          distante dalla Kristeva) il bambino sin dalla nascita è immerso 
          in mille discorsi articolati tanto che ad un certo punto gli è 
          dato di fraseggiare in modo articolato (Lyotard, 1991a, p. 12 sgg.). 
          Il suo bisogno di comunicare lo spinge ad entrare in un sistema fonematico, 
          acquisendone progressivamente padronanza. La vocalità espansa 
          in cui l’infans è avvolto è così 
          abbandonata – ma potrà essere ripresa, ricorda Kristeva, 
          nel gioco glossolalico o nella poesia (Kristeva, Op. cit.; sulla 
          teoria kristeviana della chora materna cfr. ora Cavarero, 2003, 
          pp. 146-153). Il discorso articolato si fonda, quindi, sempre sullo 
          scarto della vocalità. Ed è su tale scarto che 
          ha lavorato la poesia sonora del novecento (vedi Cuomo, 2004, pp. 59-68).
        Concentrando 
          l’attenzione sulla vocalità, sulla chora semiotica, 
          si rischia tuttavia di perdere il fenomeno della voce, nel suo essere 
          gesto iniziale. La voce non può essere ridotta alla vocalità, 
          alla materia semiotica. La voce, se è correttamente 
          intesa, non è solo pathos ma è anche, contemporaneamente, 
          il gesto che espone la singolarità dell’esistere. 
          La voce espone es-clamando i limiti stessi dell’esistere. Es-clama 
          e non invoca (cfr. infra). Espone esclamando, nonostante (l’orecchio 
          del)l’altro.  
        In 
          tal senso accade sempre nonostante la parola; non si articola 
          con essa e in essa; con la parola, come ha ben visto Lyotard, la voce 
          può solo incontrarsi mancandosi ma non concatenandosi 
          (Lyotard, 1991a, p. 12). La voce, quindi, non può essere, concepita 
          semplicemente come scarto fonematico. Essa, piuttosto “scarta” 
          dalla parola. Anche perché accade prima e indipendentemente dalla 
          parola (che la parola debba, tuttavia, rammemorarne la mutezza è 
          certamente vero, è l’obbligo etico per eccellenza, ma è, 
          tuttavia, letteralmente, un altro discorso; su ciò vedi Cuomo, 
          1998, pp. 95-115). Ciò significa che il passaggio dalla voce 
          alla parola è inconcepibile e non trova mediazione possibile 
          nonostante la definizione dell’uomo come animale capace 
          di linguaggio. Non c’è Aufhebung dall’animale 
          all’uomo. L’uomo non ha mai “superato” l’animale, 
          nel senso che la faglia che il linguaggio produce nell’animale 
          “capace di linguaggio” non è dialetticamente superabile. 
          L’uomo è anche solo animale. E con l’animale 
          condivide la voce (reattivo/responsiva al tempo stesso).  
        Quando 
          Hegel, come ricorda Agamben (Hegel, 1976, p. 170; Agamben, 1982, pp.55 
          sgg.), afferma che nel grido di morte l’animale esprime il sé 
          [animale] “come sé tolto (als aufgehobenes Selbst)” 
          svela da un lato l’impossibilità del linguaggio di dire 
          (nel senso di significare) la realtà della 
          morte, dall’altro non riesce a rendere appieno ragione di quel 
          grido. Non riesce a cogliere il gesto della voce (che è 
          sempre in qualche modo voce animale), il suo gesto espositivo. 
          Nella prospettiva hegeliana la priorità della parola sulla voce 
          non dà la possibilità di cogliere la distinzione tra il 
          piano della significazione e quello che, almeno provvisoriamente, 
          si potrebbe chiamare il piano dell’esposizione. Il gesto 
          vocale non significa ma espone. Evidentemente non ha un “oggetto” 
          da esporre, né è concepibile come “soggetto” 
          esponente. Il gesto vocale è la sua stessa esposizione, è 
          il denudarsi stesso del vivente/esistente, è mostrare il sentirsi 
          che lo fa sé, è il dar a vedere la potenza 
          e l’impotenza che accadono col suo sentirsi (la 
          “sua” potenza e impotenza), è l’esibire la 
          mancanza e la completezza che lo fanno sofferenza e gioia, 
          desiderio e appagamento, stupore e angoscia. Il gesto 
          vocale espone i singolarissimi limiti della vivente esistenza. 
           
        Una 
          tale esposizione – per ricordare i termini con cui Lyotard 
          parla della phoné (Lyotard, 1991a, p. 6) – non è 
          rivolta ad un destinatario da un destinatore, non può entrare 
          in una “frase articolata”, secondo un asse “semantico-apofantico” 
          e un “asse pragmatico”. Non dice (non ha un referente) 
          né si rivolge a qualcuno (non ha un destinatario, ma neanche 
          un destinatore). Non c’è un “tu” cui essa si 
          rivolga. L’io e il tu, infatti, sono semplicemente ruoli concepibili 
          all’interno della comunicazione linguistica. Non c’è 
          qualcuno che espone qualcosa a qualcun altro. La voce non è un 
          “soggetto” ma un singolare ed impersonale esporsi, 
          è un accadimento di una “piega” dell’essere, 
          vale a dire è l’accadere di una ri-flessione, di 
          un auto-apprensione del sentire che produce il sé.
        Singolarità 
          impersonale es-clamante.  
        
        
        
        
        
          -  
            
Singolarità 
              impersonale.
         
        
        La 
          singolarità della voce è quella del di volta in volta. 
          La voce, cioè, accade sempre per così dire nonostante 
          se stessa. Come ha ben evidenziato a tal proposito Lyotard, essa non 
          sa nulla della “cronologia” (Lyotard, 1991b, p. 21), perché 
          è sempre ora, di volta in volta ora. Anche il sé 
          che la voce “produce” è, quindi, un sé del 
          di volta in volta (sul concetto di “essere di volta in 
          volta” cfr. Nancy, 2003, p. 130). È un sé senza 
          stessità. È un sé che non c’è 
          prima dell’evento che lo produce.
        Come 
          la singolarità del di volta in volta non è mai 
          la stessa, così il sé che essa fa accadere, di volta in 
          volta, non è mai lo stesso ma è, per così dire, 
          a topologia e ad intensità variabile.
        I 
          limiti sentiti, sono, di conseguenza, limiti variabili. Il sé 
          vocale non è un’identità stabile. La stabilità 
          è data dalla memoria che non crea, appunto, identità, 
          ma stabilità. Il sé, attraverso la memoria dei 
          sé, è quindi concepibile come una stabilità temporale, 
          sempre relativa e sempre esposta all’instabilità.  
        
        Solo 
          l’accesso al nome, come ha sempre saputo la filosofia, 
          “identifica”. È nel linguaggio che opera la logica 
          dell’identità. Tuttavia, sul piano reale in cui 
          si situano i fenomeni della voce e della memoria, non c’è 
          che instabilità e stabilità, mai “identità”.
        Adriana 
          Cavarero, nel suo A più voci (Cavarero, 2003), teorizza 
          la singolarità delle voci, ma continua a pensare la voce 
          nell’orizzonte della persona. Ciò le consente di 
          ricavare immediatamente dalla descrizione fenomenologica della singolarità 
          vocale un’etica e una politica delle voci. Tuttavia, a nostro 
          avviso, legando il concetto di singolarità a quello di persona, 
          da un lato ci si situa sul piano delle relazioni etiche elementari (o, 
          meglio, nella prospettiva della Cavarero, sul piano della relazione 
          etica elementare, vale a dire quella dell’io-tu tra madre e figlia/o) 
          e, quindi, già si è nell’etica che si vuol 
          fondare, dall’altro lato si finisce per perdere il fenomeno della 
          singolarità della voce che, per essere pensata in quanto 
          tale, non può che esserlo, per quanto argomentato, che come evento 
          impersonale. Se singolare “è ciò cui 
          manca la proprietà e/o il predicato di essere qualcosa di stabile, 
          unico e riconoscibile, qualcosa cioè cui manca l’essenza 
          e manca all’essenza” (Moroncini, 2001, pp. 73-74), allora 
          deve esser concepito come evento impersonale indifferente all’etica 
          (per quanto “elementare”) ma proprio per tale ragione “produttivo” 
          sia di legami etici (sempre “inessenziali”) sia della irreparabile 
          rottura degli stessi. Impersonale significa, inoltre, che tale evento 
          non può essere concepito come l’evento di un io 
          autonomo. Essendo la piega di un fuori, essendo l’internalizzazione 
          di un “esterno”, questa piega esprime una frattura 
          e una continuità d’essere, è cioè, al contempo, 
          trascendenza e immanenza. È al mondo ed 
          è il mondo – e ciò accade prima di 
          essere nel mondo. È tutte le dimensioni dell’essere 
          e il nulla di esse, essendo uno scarto, una eccezione (senza 
          che vi sia una regola), una eccentricità.  
        
        
          -  
            
La 
              piega del fuori.
         
        
        La 
          voce, in quanto evento singolare, accade come piega nell’indistinto 
          brusio sonoro dell’essere. Il brusio precede la voce ma 
          non è voce, mancando quella piegatura che produce l’ascolto 
          di sé. Tuttavia, essendo all’ascolto di sé, 
          la voce è fuori e dentro di sé (Nancy, 2004, p. 23). È 
          contemporaneamente il brusio del mondo (il fuori) e la ripiegatura che 
          la fa essere (dentro di sé).  
        Tra 
          brusio dell’essere (brusio del fuori) e voce c’è 
          sì – per così dire – univocità 
          sostanziale ma non indifferenzialità (su questo punto 
          ci discostiamo un po’ da Nancy, cit., p. 39). La voce, 
          come dicevamo, è gesto che “espone” il sentirsi 
          che di volta in volta il vivente è. In quanto gesto è 
          il trascendimento della sua immanenza, distaccandosi dal fuori 
          e ritrovandolo come dentro. La voce è pertanto nello stesso 
          tempo dentro e fuori di sé. È nello stesso tempo immanenza 
          e trascendenza. È i suoi stessi scarti, ambivalentemente ma senza 
          ambiguità. Ed è i suoi stessi scarti, attraverso il suo 
          scartare, attraverso la sua eccentricità ed eccezionalità. 
           
        
        Quando 
          i poeti elettroacustici affidano la loro voce al magnetofono, lasciano 
          che si producano spoglie sonore in cui la voce si estrania fino 
          a confondersi col paesaggio inorganico dei rumori/brusii (vedi Cuomo, 
          2004, capitolo quarto; cfr. anche Costa, 2001). Trasformate in puri 
          spettri sonori, le voci registrate (e manipolate elettroacusticamente) 
          lasciano l’ambito del vivente e rifluiscono nel silenzio “cageano” 
          della natura (in un silenzio che è rumore, brusio, mai assenza 
          di suono, ma che può essere assenza di voci; cfr. Manganelli, 
          1987), nel fuori assoluto. Ma in tale situazione estrema, in 
          cui la voce si stacca dal sentire vivente, trasformandosi definitivamente 
          in resto, essa paradossalmente non si perde del tutto. Essa “resta” 
          agli altri (anche se non propriamente per gli altri), e vi resta 
          come gesto morto, come scrittura sonora. Gesti e scritture, vocemi (per 
          dirla con Zumthor, 1990, p. 10) che, nonostante la loro essenziale mutezza, 
          sono pur sempre i resti di un’esposizione dell’inesponibile 
          (solo l’inesponibile può essere propriamente esposto). 
           
        I 
          risultati cui giungono questi poeti sono, tuttavia, ambivalenti. Il 
          rischio che continuamente corrono è quello che i resti 
          vocali divengano puro e semplice bruitage sonoro, pura scoria 
          sonora confusa nel brusio inorganico dell’essere.  
        Ben 
          altra strada è quella percorsa da chi ha compreso che la voce 
          paradossalmente può essere conservata solo nella dimensione della 
          parola, ma di una parola che si lascia consapevolmente “timbrare” 
          dall’assoluta contingenza della voce. È il caso di Carmelo 
          Bene. Ma su Bene è bene ritornarci in altro luogo, con più 
          calma.
        
        
        
          -  
            
Invocazione, 
              es-clamazione.
         
        
        
        Sia 
          Adriana Cavarero (Op. cit.) che David Michael Levin ( 
          Carbone – Levin, 2003) nei loro saggi dedicati alla voce insistono 
          sull’idea di un leghein vocale, di un legame vocale – 
          per Cavarero il legame materno, per Levin il legame carnale di 
          derivazione merleau-pontiana – che precede il simbolico e che, 
          se recuperato, fonderebbe un’etica nuova.
        Il 
          rischio di entrambi è quello di rielaborare/ripresentare l’antico 
          mito di un’armonia originaria – stavolta non del tutto perduta 
          – distrutta dal cattivo simbolico. Cavarero più correttamente 
          identifica tale legame con un’invocazione iniziale che 
          già il vagito della nascita conterrebbe (Cavarero, cit., 
          p. 185). Invocazione che produrrebbe/richiederebbe una prima risposta 
          (quella della madre).
        Lasciando 
          da parte le questioni: a) dell’eventuale grado di istintualità 
          delle espressioni d’aiuto, b) della mancanza di indirizzo 
          comunicativo dell’invocazione – su cui, attraverso Lyotard, 
          abbiamo già preso posizione – bisognerebbe domandarsi se 
          il concetto stesso di invocazione non rimandi a sua volta ad 
          una situazione di iniziale pericolo, ad una situazione di radicale angoscia 
          iniziale (senza per forza scomodare Freud) e che, quindi, non sia davvero 
          così elementare e “iniziale”. Quel che intendiamo 
          dire è che, innanzitutto, già nel suo concetto, l’invocazione 
          implicitamente rimanda ad uno stato iniziale di pericolo, di insicurezza, 
          di mancanza essenziale che la fonda, destituendola d’inizialità. 
          Tuttavia – e qui tocchiamo di nuovo l’ambivalenza iniziale 
          cui la voce dà voce – la stessa tesi che vede nell’invocazione 
          un primum etico produce, a ben guardare, una singolare rimozione, che 
          è quella dell’ambivalenza della voce che non espone solo 
          un pericolo iniziale ma anche un’iniziale potenza d’essere, 
          un’iniziale volontà d’esistere. Hiersein ist herrlich, 
          per dirla con Rilke (Rilke, 1995, p. 86) che, nelle sue Elegie, ha detto 
          cose in aggirabili circa l’iniziale ambivalenza del vivente/esistente. 
          Non solo, quindi, l’invocazione non è un fenomeno 
          etico iniziale bensì derivato, ma la riduzione del gesto 
          vocale all’invocazione all’altra/o produce la cancellazione 
          dell’altro aspetto della voce, vale a dire dell’esposizione 
          della potenza d’essere che la fa esistere.  
        “Forse 
          sotto questa luce – scrive Nancy, in un passo che ci sembra ora 
          la naturale continuazione e l’ulteriore chiarificazione di quanto 
          abbiamo fin qui tentato di dire – va visto un neonato col suo 
          primo grido, come se fosse egli stesso – il suo essere o la sua 
          soggettività – l’espansione improvvisa di una camera 
          d’eco, di una navata dove riecheggia, al contempo, ciò 
          che lo strappa e ciò che lo chiama, mettendo in vibrazione una 
          colonna d’aria, di carne, che suona alle proprie imboccature: 
          corpo e anima di un qualcuno nuovo, singolare. Uno che viene 
          a sé, sentendosi rivolgere la parola proprio come si 
          sente gridare […] o cantare, sempre ogni volta […] 
          es-clamandosi: come ha fatto venendo al mondo” (Nancy, 
          2004, pp. 28-29).  
        
        Esponendosi 
          la voce si es-clama.
        
        
        
          -  
            
Stimmung 
              e insensatezza.
         
         
        
        Diamo 
          ancora la parola a Nancy. Nel suo importante libro All’ascolto 
          ad un certo punto, citando Antoine Bonnet, afferma che il timbro 
          deve essere considerato il reale della musica (Nancy, cit., 
          p. 63). Nel timbro è il reale che mostra il suo senso 
          il quale “qui, è il rinvio, il rimbombo, il riverbero: 
          l’eco in un dato corpo – ossia il come di questo 
          dato corpo; o ancora, è come il dono a sé di questo 
          dato corpo” (p. 65). Nancy riprende qui il suo discorso teoretico 
          generale, secondo il quale, se non interpretiamo male, il “senso 
          del mondo” è tutto in quel che egli chiama la spartizione 
          dell’esistenza, singolare con altre singolarità, 
          in un caratteristico “singolare plurale: cosicché la singolarità 
          di ciascuno è indissociabile dal suo essere-con-tanti” 
          (Nancy, 2001, p. 47). Il senso dell’essere non è che la 
          spartizione singolare-plurale dell’esistere: “l’essere 
          non ha senso, ma l’essere stesso, il fenomeno dell’essere, 
          è il senso, che a sua volta è la circolazione di se stesso 
          – e noi siamo questa circolazione. Non c’è 
          senso se il senso non è spartito […] perché il 
          senso è esso stesso la spartizione dell’essere” 
          (Ivi, p. 6). Ora, ritornando a riflettere sul timbro, 
          Nancy trova in questo una potente metafora per approfondire il suo discorso 
          sul senso s-partito. Infatti, non c’è, in musica, 
          niente di più “singolare” del timbro, che differisce 
          in modo netto dagli altri parametri musicali “misurabili”, 
          come l’altezza, l’intensità, la durata. Inoltre, 
          sottolinea Nancy, esso non è univoco, nel senso che “è 
          l’unità per eccellenza di una diversità, che non 
          viene riassorbita dall’unità” (Ivi, p. 66). 
          Eppure, il timbro comunica, anche se non “trasmette”. 
          Comunica l’incomunicabile, dice Nancy, ma “a condizione 
          di capir bene che l’incomunicabile altro non è […] 
          che la comunicazione stessa, ciò attraverso cui un soggetto fa 
          eco a se stesso – a sé, all’altro è un tutt’uno 
          – un tutt’uno al plurale” (Ivi, p. 65). Il 
          timbro, potremmo concludere, per Nancy comunica es-ponendo, comunica 
          l’es-clamazione di quel che, fin qui, abbiamo chiamato voce. 
          Che l’ispirazione (non del tutto segreta) delle argomentazioni 
          di Nancy sia il fenomeno della voce lo attestano, a nostro avviso, molti 
          passaggi del suo testo. Non potendo riportarli tutti, limitiamoci ad 
          uno particolarmente denso che ci permetterà di evidenziare se 
          non un’aporia, almeno una polarizzazione interna alla sua interpretazione. 
          Scrive il filosofo francese: “il timbro può essere raffigurato 
          come la risonanza di una pelle tesa […] e come l’espansione 
          di questa risonanza nella colonna cava di un tamburo. Peraltro lo spazio 
          del corpo in ascolto non è, a sua volta, una simile colonna cava 
          sulla quale è tesa una pelle, ma dalla quale l’apertura 
          di una bocca può altresì riprendere e rilanciare la risonanza? 
          Percuotimento dall’esterno, clamore all’interno: questo 
          corpo sonoro, sonorizzato, si mette all’ascolto simultaneo di 
          un ‘sé’ e di un ‘mondo’, che sono l’uno 
          in risonanza dell’altro. Se ne angoscia (si rinserra) e ne gioisce 
          (si dilata). Si ascolta angosciarsi e gioire e s’angoscia di questo 
          stesso ascolto, dove ciò che è lontano risuona da più 
          vicino” (Ivi, p. 68).  
        Possiamo 
          ora chiarire i termini di quella polarizzazione che abbiamo detto ritrovarsi 
          a nostro avviso in Nancy e che è uno dei problemi teorici intorno 
          a cui ruota la sua ricerca filosofica. Schematicamente potremmo affermare 
          che, secondo il Nancy di All’ascolto, da un lato il senso 
          del mondo tende a ridursi al ri-suono del mondo stesso, alla 
          sua interna Stimmung – per usare una parola tedesca che 
          richiami sia l’accordo che la voce, richiamando 
          al contempo anche la grande utopia musicale agostiniana dell’armonia 
          del mondo (cfr. Spitzer, 1967) – dall’altro lato nelle sue 
          stesse analisi il senso-Stimmung inevitabilmente si scontra con 
          l’insensatezza della voce. Se il senso consistesse 
          unicamente nella s-partizione delle voci, nel loro accordo-discorde, 
          nella loro “compagnia” – beninteso sempre instabili 
          e ribaltabili in dis-armonia e “scompagnamento” – 
          se il “senso del mondo” si riducesse a questo, allora l’evento 
          della voce resterebbe incompreso perché senza senso, insensato, 
          e la gioia e l’angoscia, di cui lo stesso Nancy parla, accadrebbero 
          senza ragione, senza neanche quella ragione che il filosofo francese 
          chiama “senso” (spartizione singolare-plurale dell’essere). 
          Ma forse è proprio questo che Nancy, attraverso la sua stessa 
          “ontologia del senso”, vuol dire (o forse siamo noi che 
          vorremmo farglielo dire?): la voce è senza senso, è insensata, 
          assoluta impurità rispetto al senso, scarto incomprensibile, 
          contingenza impossibile.  
        
        
        
        
        
          -  
            
Scarti 
              della trascendenza: la contingenza assoluta
         
        
        
        Il 
          fenomeno della voce ci fa comprendere che non c’è che gli 
          scarti. Ci fa capire che il vivere/esistere (forse sarebbe meglio 
          dire: la “natura che esiste”) non consiste che nello scarto: 
          è singolarità, eccentricità, scarto assoluto, è 
          insensata e impersonale originalità (lo “scarto assoluto” 
          è inappropriabile al senso, in qualsiasi senso).  
        Scarto 
          dell’essere, la voce è anche, come abbiamo visto, scarto 
          da sé, gesto che si espone, trascendendo la sua propria 
          immanenza. È l’anima e il corpo, è 
          la mancanza e la pienezza (Cuomo, 1998, cap. quinto). Essa è 
          contingenza assoluta, cioè im-possibile, vale a dire che 
          non può essere concepita come un’attualizzazione di un 
          possibile (cfr. Masullo, 1995, p. 101 sgg.). Se il possibile, 
          come voleva Leibniz, è ciò che può essere concepito 
          senza contraddizione, allora la contingenza assoluta della voce implica 
          sempre contraddizione, impossibilità logica (il logos 
          propriamente manca sempre la voce).
        
        
        Un’ultima 
          cosa ancora, prima di concludere. La voce di cui abbiamo, nonostante 
          tutto, parlato (ascoltandone il “timbro”) non è un’esclusiva 
          dell’uomo, ma è la voce del vivente/esistente in quanto 
          tale, la voce della “natura-che-esiste” (lasciando volutamente 
          indeterminati i confini tra il vivere e l’esistere). Propriamente, 
          all’interno della “natura-che-esiste”, non c’è 
          solo l’organico ma anche l’inorganico, o meglio ci sono 
          tutte le dimensioni della natura. In fondo è indifferente a quanto 
          finora detto della voce che essa sia di un uomo, di un animale o di 
          una macchina.  
        
        
        C’è 
          voce laddove una piega dell’essere reagisce al suo stesso 
          accadere, sentendo ed esponendo l’insensatezza del suo accadere, 
          lo stupore e l’angoscia, la gioia e il dolore che la fanno scarto. 
           
        
        
        
        
        (novembre 
          2004)
         
          
        
         
          
        
         
          Bibliografia di riferimento
         
          
        
         
          [Agamben, 1982] – Giorgio Agamben, 
          Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, 
          terza edizione, Torino, Einaudi, 1982.
         
          [Carbone – Levin, 2003] – 
          Mauro Carbone, David Michael Levin, La carne e la voce. In dialogo 
          tra estetica ed etica, Milano, Mimesis, 2003.
         
          [Cavarero, 2003] – Adriana Cavarero, 
          A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Milano, 
          Feltrinelli, 2003.
         
          [Costa, 2001] – 
          Mario Costa, The Word of Poetry, Sounds of the Voice and Technology, 
          in Voicimage, a special issue of Visible Language, n° 
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          [Cuomo, 1998] – Vincenzo Cuomo, 
          Le parole della voce. Lineamenti di una filosofia  
         
          della phoné, Salerno, Edisud, 
          1998.
         
          [Cuomo, 2004] – Vincenzo Cuomo, 
          Del corpo impersonale. Saggi di estetica dei media e di filosofia 
          della tecnica, Napoli, Liguori, 2004.
         
          [Derrida, 1968] – Iacques Derrida, 
          La voce e il fenomeno, tr. it. di G.Dalmasso, Milano, Jaka Book, 
          1968.
         
          [Derrida, 2000] – Jacques Derrida, 
          Ciò che resta del fuoco, tr. it. di S.Agosti, Milano, 
          SE, 2000.
         
          [Hegel, 1976] – 
          G.W.F.Hegel, Jenaer Systementwürfe, II, unter Mitarb. Von 
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          [Kristeva, 1979] – Julia Kristeva, 
          La rivoluzione del linguaggio poetico, tr. it., Venezia, Marsilio, 
          1979.
         
          [Loraux, 2001] – Nicole Loraux, 
          La voce addolorata. Saggio sulla tragedia greca, tr. it. di M. 
          Guerra, Torino, Einaudi, 2001.
         
          [Lyotard, 1991a] – J.F.Lyotard, 
          L’inarticolato o io dissidio puro, tr. it. di P.Kobau, 
          in Filosofia ’90, a cura di G.Vattimo, Bari, Laterza, 1991, 
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          [Lyotard, 1991b] – J.F.Lyotard, 
          Le voci di una voce, tr. it. di F.Sossi, in aut aut, n° 
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          [Manganelli, 1987] – Giorgio Manganelli, 
          Rumori o voci, Milano, Rizzoli, 1987.  
         
          [Masullo, 1995] – Aldo Masullo, 
          Il tempo e la grazia. Per un’etica attiva della salvezza, 
          Roma, Donzelli, 1995.
         
          [Masullo, 2003] – Aldo Masullo, 
          Paticità e indifferenza, Genova, Il Melangolo, 2003.
         
          [Moroncini, 1988] – Bruno Moroncini, 
          Il discorso e la cenere. Dieci variazioni sulla responsabilità 
          filosofica, Napoli, Guida, 1988.
         
          [Moroncini, 2001] – Bruno Moroncini, 
          La comunità e l’invenzione, Napoli, Cronopio, 2001.
         
          [Nancy, 1995] – Jean-Luc Nancy, 
          Corpus, tr. it. a cura di A.Moscati, Napoli, Cronopio, 1995.
         
          [Nancy, 2001] – Jean-Luc Nancy, 
          Essere singolare plurale, tr. it. di D. Tarizzo, introduzione di 
          R. Esposito, Torino, Einaudi, 2001.
         
          [Nancy, 2004] – Jean-Luc Nancy, 
          All’ascolto, a cura di E.Lisciani Petrini, Milano, Raffaello 
          Cortina Editore, 2004.
         
          [Rilke, 1995] – R.M.Rilke, Poesie, 
          II (1908-1926), a cura di G.Baioni, Torino, Einaudi-Gallimard, 1995.
         
          [Sini, 1989] – Carlo Sini, Il 
          silenzio e la parola. Luoghi e confini per un uomo planetario, Genova. 
          Marietti, 1989.
         
          [Zumthor, 1990] – Paul Zumthor, 
          Poesia della spazio. Nuovi territori per una nuova oralità, 
          in La Taverna di Auerbach, n° 9-10, 1990, pp. 3-15.