indice del numero 4

 

 

 

 

Identità e rifiuto: appunti per un’antropologia del postmoderno

di Eleonora de Conciliis



Le riflessioni che seguono intendono mettere in evidenza ciò che nel termine ‘rifiuto’ rinvia, più o meno implicitamente, all’atto del rifiutare, concepito in due forme apparentemente opposte ma in realtà complementari: quella della negazione/esclusione e quella dell’incorporazione/sfruttamento, di cui il rifiuto costituisce il prodotto ultimo. A questo scopo, invece di partire dalla definizione di ciò che il rifiuto è, o ci appare, una volta divenuto tale, mi servirò di una metafora alimentare capace di illuminare il processo che produce il rifiuto (e con esso il rifiutante), la sua specifica materialità, il suo rapporto segreto con chi o con ciò che lo ha rifiutato. Si tratta di un movimento inferiore, basso, spesso oscuro e inconscio, oltre che ripugnante, che permette tuttavia di interrogare la relazione identitaria che esiste – nostro malgrado – tra il soggetto e l’oggetto del rifiutare, nel medio del metabolismo: una trasformazione inevitabile dell’altro nello stesso e poi nell’altro – una sorta di violenza circolare.

L’analisi antropologica, prima che sociologica, dell’incorporazione, costringe ad allontanarsi tanto dagli specialismi medico-sanitari della biopolitica (1), quanto dai recinti identitari classici, nei quali la filosofia ha iscritto l’esperienza soggettivo-coscienziale e il complementare statuto dell’oggetto; la metafora alimentare, a sua volta, consente di abbandonare la rigida distinzione tra me e non-me, tra corpo e psiche, tra uomo e animale, tra singolo e collettività, riportando il senso e il linguaggio della riflessione sui rifiuti in una sfera per così dire originaria, primordiale e tuttavia non priva di un’inquietante storicità. Infine, il movimento dell’incorporazione invita il pensiero a passare dalla (depurata, trascendentale) forma identitaria, alla sua più brutale (volgare, disgustosa) funzione, impedendo così quel comodo atteggiamento distaccato che di norma accompagna l’indagine filosofica e ne allontana gli oggetti “sconvenienti”.


Nel suo monumentale studio sul potere, la cui stesura ventennale (1940-1960) fu suscitata dalla mostruosità dell’esperienza totalitaria(2), Elias Canetti ha inteso dimostrare che tale esperienza, la quale ha legato in modo perverso i capi e le masse in un delirio di sopravvivenza dei primi e distruzione delle seconde (ridotte letteralmente a ‘rifiuti’ tra le ‘macerie’), non è affatto un portato specifico della civiltà occidentale; adducendo una straordinaria varietà di materiale documentario, raccolto senz’alcuna limitazione geografica o temporale, Canetti ha sostenuto che le dinamiche psichiche del potere non solo superano, o meglio mettono fuori uso ogni rigida distinzione tra individuale e collettivo, ma costituiscono una sorta di fiume carsico che scorre sotto la superficie liscia e apparentemente ordinata della civiltà umana, un fiume pronto a riemergere nella sua devastante violenza allorquando si determinano alcune configurazioni critiche. Non posso in questa sede inoltrarmi nella dialettica tra esperienze massive ed esperienze di potere svolta da Canetti nel poderoso volume; mi limiterò a ricordare che, secondo lo scrittore, il potente è colui che desidera sopravvivere ad una ‘massa’ di nemici uccisi, esperienza che costituisce allo stesso tempo l’acme del godimento ed il vertice della paura (paura della vendetta delle vittime nei confronti del sopravvissuto). In quanto ispirata dall’esperienza totalitaria, l’indagine canettiana fa in qualche modo pendant con quella della Arendt sulle Origini del totalitarismo, interrogandosi, più che sui presupposti economici, culturali e politici del fenomeno, sulla sua natura segreta; essa tratta il male radicale come un’esperienza universale e quasi inconscia del potere esercitato dall’uomo sull’uomo e su ogni forma vivente, un’esperienza altrettanto “banale”, in cui l’uomo perde – ma perché in fondo non l’ha mai definitivamente acquisita – ogni dignità specifica, ogni forma distintiva individuale ed ogni connotazione propriamente ‘umana’.

In una delle sezioni del volume dedicate agli organi del potere, Canetti scrive:


«Il vero e proprio atto d’incorporare la preda comincia dalla bocca. Là conduceva originariamente la via di tutto ciò che era commestibile; […] lungo è il cammino della preda attraverso il corpo. Durante tale viaggio, essa è lungamente sfruttata, e le viene sottratto tutto ciò che può essere utilizzato. Ne rimangono infine solo più rifiuti e puzzo.

Questo processo, con cui si conclude ogni conquista animale, è particolarmente istruttivo per conoscere l’essenza del potere. Chi vuole dominare sugli uomini cerca di svilirli, di sottrarre loro forza di resistenza e diritti […]. Il suo scopo resta sempre quello di ‘incorporarseli’ e di sfruttarli. Gli è indifferente ciò che resterà di loro.[…] E quando non presentano più nulla di sfruttabile, egli se ne libera di nascosto, come dei propri escrementi, preoccupandosi che non appestino l’aria della sua abitazione.

Egli non osa riconoscere dinanzi a sé questo processo in tutti i suoi stadi […]; siccome egli non fa macellare i suoi sudditi nei mattatoi e non li trasforma in vero e proprio cibo per il suo corpo, negherà di sfruttarli e di digerirli. Anzi: è lui che dà loro da mangiare [...].

Ma anche prescindendo dal potente […], il rapporto di ogni uomo con i suoi escrementi rientra nella sfera del potere. Nulla è appartenuto a un uomo più di ciò che si è trasformato in escremento […]. Si tratta di un processo così naturale, così spontaneo ed estraneo alla coscienza, che se ne sottovaluta l’importanza. Si tende a riconoscervi soltanto i molteplici scherzi del potere che accadono in questo mondo; ma tale aspetto è in realtà il meno importante. Così ogni giorno si digerisce e si torna a digerire. Qualcosa di estraneo viene afferrato, sminuzzato, incorporato, e assimilato dal’interno; si vive soltanto grazie a questo processo. Basta che esso si interrompa, e si è giunti alla fine […].

Gli escrementi, che rimangono al termine del processo, sono carichi del nostro reato. Da essi si può capire cosa noi abbiamo ucciso. Sono una concentrata raccolta di indizi contro di noi. Puzzano come i nostri peccati quotidiani, reiterati, interrotti, e gridano al cielo. Ci si libera dei propri in locali particolari, che servono solo a ciò; l’uomo è veramente solo soltanto con i suoi escrementi. E’ evidente che ci si vergogna dei propri.»(3)


Con questo passo siamo costretti ad abbandonare la pretesa, tipica del pensiero astratto, di concentrarsi esclusivamente sulla forma dell’oggetto, di sottrarlo alla sua funzione primaria allo stesso modo in cui la contemplazione estetica sottrae l’opera al suo originario valore d’uso. Siamo invece abbassati, per così dire, alla natura della funzione: l’oggetto non ci è indifferente, ma ci disgusta; e quanto più ci disgusta, tanto più ci appartiene – ci inter-essa, perché l’esse che abbiamo in comune con (inter) l’oggetto impedisce di considerarlo, appunto, semplicemente un oggetto(4).

Il distacco formale è così diventato impossibile, e ha lasciato il posto all’analisi simbolica (ma non troppo) della funzione dell’incorporazione. Oltre che dal valore simbolico assumibile, in sede psicoanalitica, dalle feci durante specifiche fasi dello sviluppo psico-sessuale, prescinderò per il momento dal fatto che l’isolamento dell’individuo nell’atto della deiezione presenta, nella società occidentale moderna, un significativo indice storico, in quanto frutto di un lungo processo di trasformazione della promiscuità premoderna in ciò che il sociologo Norbert Elias ha definito “la civiltà delle buone maniere”(5); cercherò invece di estrarre dal passo in questione alcuni elementi utili a comprendere la nostra segreta, ineludibile e vendicativa identità con l’escremento/rifiuto.

In primo luogo, Canetti istituisce un’equivalenza essenziale, addirittura pre-umana, oltre che pre-filosofica, tra incorporazione e potere: l’altro non è concepito ‘ancora’ e neutralizzato come Altro più o meno trascendente, oppure come un ego dotato di una soggettività analoga alla mia (secondo il noto modello husserliano dell’“appaiamento” del mio ego trascendentale con quello indirettamente “appercepito” attraverso il corpo vivente), e neppure, al limite, come corpo estraneo (“altrui”), bensì solo come preda o cibo, e in modo trasversale, ovvero animalesco, rispetto alla specie di appartenenza; l’identificazione primaria dell’altro è legata al suo poter essere afferrato, maciullato con i denti e incorporato, e proprio grazie a tale identificazione aggressiva si afferma il mio potere di vita (e di morte), cioè la mia stessa identità.

In secondo luogo, il processo dell’incorporazione viene indicato come extra- o infra-coscienziale, col che Canetti ribadisce il carattere originario della relazione di potere e quello soltanto superficiale e derivato della consapevolezza del processo medesimo, tradotto dalla ragione soggettiva in termini di ‘fame’, ‘volontà’ e ‘azione finalizzata’. Sul piano sociologico e comportamentale, la ragione può solo perimetrare e igienizzare, men che mai impedire, l’esperienza escrementizia: il raffinamento dei costumi prescrive all’individuo di isolarsi nel momento in cui il prodotto dell’attività inconscia di potere conferma, in modo brutale e nauseabondo, il carattere distruttivo e colpevole della vita. La ragione stessa, in questa ottica, appare un’istanza potente, frutto di un divoramento esclusivo, di uno svilimento della materialità del processo biologico: col suo disgusto per ciò che è basso, la ragione istituisce il primato della forma astratta, e pulita, sulla funzione corporea, finendo però col far assumere alla forma pura un ruolo incorporativo, e dunque dominante, assolutamente non neutrale, nei confronti dell’immondo processo funzionale.

Profondamente connesso a tale disprezzo gerarchico, è l’esempio dello ‘sfruttamento’ dei sudditi da parte del potente: i sudditi non vengono realmente ‘mangiati’, ma sono costretti ad occuparsi di ciò ch’è basso, ovvero di ciò che è stato rifiutato dal potente, diventando così essi stessi rifiuti. Canetti fluidifica la tradizionale distinzione tra materia e spirito, tra corpo e psiche, tra società e individuo, mostrando come la relazione di potere basata sul nutrimento sia immediatamente metaforizzabile, anche nel caso in cui l’incorporazione non avvenga realmente, ma appaia per così dire traslata nella sfera economica del dominio; in questo modo, da un lato si rivela sul piano collettivo il carattere predatorio della biopolitica, la sua capacità di nutrire mentre in realtà divora; dall’altro lato, sul piano individuale, si svela l’ambivalenza strutturale del cannibalismo psichico. Prendiamo ad esempio il caso dell’incorporazione erotica dell’altro: persino qui si può rintracciare un’affermazione di sé, compiuta attraverso la cancellazione dell’esistenza altrui come indipendente dalla mia: proprio come nel nutrimento biologico, l’identità di chi incorpora e rifiuta si produce attraverso lo stesso movimento di incorporare e poi rifiutare (ovvero svalorizzare) l’oggetto, nel medio – o con l’alibi coscienziale – dell’attrazione, cui inevitabilmente fa seguito la ripulsa.

La doppia metamorfosi dell’altro, dapprima in interno e poi in esterno schifoso (rifiuto, escremento), costituisce la colpa originaria e reiterata del processo di affermazione e mantenimento costante dell’identità psichica individuale, nonché della coesione sociale. La nostra stessa salute biologica e psichica, sembra suggerire Canetti, si fonda sulla vergogna della distruzione e della repulsione: l’uomo, in quanto essere uscito in modo irreversibile dalla sfera dell’istinto, metaforizza incessantemente questa colpa, e la rende tale. Il sentimento tutto umano della vergogna, sia esso consapevole o inconscio, rinvia a due fenomeni complementari: è impossibile identificarsi senza negare l’altro, in modo concreto o immaginario; negando l’altro dopo averlo ‘sfruttato’, esorcizziamo il fatto che per poter essere espulso l’altro è diventato parte di noi, è stato incorporato e interiormente assimilato: ciò che ora ci fa schifo, è stato, e dunque è sempre potenzialmente, la nostra stessa macchina identitaria. L’escremento ci si fa incontro come ciò che vorremmo completamente allontanare, ma che, pur trovandosi fuori di noi, è il fuori del nostro dentro. Allo stesso modo, la società produce incessantemente differenze gerarchiche tra coloro che incorporano e coloro che vengono rifiutati; questi ultimi ricordano ai primi, con la loro stessa esistenza, ciò che essi compiono per essere ciò che sono, e identificano disgustosamente l’inferiorità dalla quale essi sono emersi affermandosi come ‘soggetti’.

Il rifiuto, dunque, non si lascia confinare in un ‘fuori’, e nemmeno in un ‘sotto’, ma ricade sempre ‘dentro’, tanto dal punto di vista corporeo quanto da quello psichico. Il rifiuto è la prova oggettiva dell’impossibilità di tracciare un confine sicuro tra me e non-me, perché l’interno fuoriesce da me e si materializza come scarto. Il metabolismo – individuale e sociale – conduce inesorabilmente all’escremento, che come tale viene prodotto in isolamento e rimosso, in quanto prova della nostra colpa-capacità di distruggere e sfruttare ciò ch’è estraneo. In questa ottica, lungi dal poter essere confinata in una semplice fase dello sviluppo psico-sessuale, anche l’identificazione simbolica delle feci con il bambino e/o con il fallo rimanda all’identità affettiva, emozionale, con l’escremento, alla sua straordinaria e inquietante plasticità metaforica.

Prim’ancora di essere necessari alla costruzione consapevole dell’identità soggettiva secondo modelli condivisi, i processi di scarto e di rifiuto costituiscono tout court la forma attiva dell’identità: prim’ancora di scegliere, nella costruzione del sé, cosa acquisire e cosa scartare, siamo costretti a divorare per affermarci. Allo stesso modo, prim’ancora di sviluppare un piano di controllo, di sfruttamento e di esclusione di categorie considerate inferiori (una ‘testa’), i sistemi di potere si sono strutturati in maniera casuale (acefala) attraverso il divoramento sociale, economico e culturale di alcune forze vive, e le hanno trasformate in escremento maleodorante. Tuttavia, quanto più articolato e complesso diviene, nella storia di una civiltà, il bisogno di affermare la propria identità tanto sul piano individuale quanto su quello collettivo, tanto più grande diventa la massa di ciò che è stato rifiutato, ossia digerito, sfruttato ed espulso; in tal senso l’Occidente moderno ha prodotto, nel giro di alcuni secoli, una gigantesca mole di rifiuti interni ed esterni, geografici e psichici, localizzabili fisicamente eppure fantasmaticamente ritornanti. Man mano che l’identità occidentale è andata ‘costruendosi’ sia sul piano individuale che su quello collettivo, ha sentito la necessità di isolarsi nell’atto escrementizio e di isolare l’escremento(6), sottoponendosi ad un’attenta profilassi nei confronti del rifiuto, dello sporco, dell’inferiore; così facendo, però, non ha potuto evitare la crescita esponenziale del materiale rifiutato, nonché la necessità altrettanto fisiologica di consentire, di tanto in tanto, la contaminazione e/o il ritorno di ciò ch’era stato digerito, sfruttato ed espulso. Sarebbe fin troppo facile – ma, appunto, di pessimo gusto – trovare esempi di ciò nella storia europea e statunitense, ricorrendo magari alla descrizione olfattiva degli ebrei diffusa durante il nazismo, o alla ipocrisia multietnica del sogno americano, costruito in realtà su un privilegio razziale che in duecento anni si è semplicemente spostato dai bianchi ai neri per escludere, oggi, gli ispanici. L’Occidente si è a lungo esercitato nell’arte escrementizia per accrescere la propria potenza, non senza essere attratto da ciò che respingeva. Questa sorta di metafora storico-sociale conferma il principio generale, secondo cui “l’odio è contiguo all’amore” e, per affermarsi, il soggetto “priva l’oggetto di tutte le sue qualità, [fino a] ridurlo a un ramo secco o, se persona, disumanizzarla”(7). Detto ancora in altri termini, l’incorporazione identitaria è strutturalmente ambigua e storicamente variabile.

Da un lato, l’attrazione nei confronti del rifiuto (o meglio, del rifiutato) non è altro che la traccia del suo essere, originariamente, un oggetto desiderato e identificante; un’ambivalenza che si può esperire con particolare significatività nella sfera erotica(8), rispetto a ciò ch’è considerato basso, sporco e ripugnante (non è un caso che la sessualità femminile sia stata pensata dalla psicoanalisi attraverso la cosiddetta ‘teoria della cloaca’). D’altra parte, il rifiutato rivela l’inevitabile gerarchizzazione cui è stato sottoposto: l’azione implicita nel rifiutare, o nel rifiutarsi, a qualcuno, sottolinea la dimensione selettiva dell’atto, nel senso di scartare gli inferiori, i non idonei (inidonei ad agire ma anche semplicemente ad esistere). Infine, in una forma più subdola, ma conforme a questa seconda accezione, il rifiutato è colui che non sa rifiutare o rispondere al rifiuto; si prenda ad esempio la tendenza, presente in talune deboli forme di soggettivazione ‘postmoderna’, a vivere come insostenibile il rifiuto: sempre più spesso cadono vittima del disagio dei soggetti che non sanno dire ‘no’ agli altri (e che diventano perciò psichicamente onnivori, bulimici) e che parimenti non riescono a sopportare un ‘no’; in questa prospettiva, solo apparentemente rovesciata rispetto a quella finora delineata, la pratica del rifiuto sottintende una capacità di identificazione autonoma, che le società del consumo combattono sottilmente, producendo forme coattive ed effimere di identificazione, delle identità ‘spazzatura’ vissute come coacervo di esperienze.


E’ quindi possibile storicizzare l’analisi canettiana del nutrimento, e delineare una sorta di schematica stratificazione del rifiuto, articolando i diversi livelli fin qui emersi.

Il primo livello è quello biologico, elementare, del metabolismo individuale. La metamorfosi metabolica del nutrimento nel mio corpo e poi nel rifiutato, nega l’identità corporea come solidità, purezza e separazione. Viceversa, l’identità corporea individuale si rivela essere prodotta di continuo attraverso violenza, sfruttamento, sporcizia ed espulsione solo parzialmente controllabile. Questo primo livello non è positivamente metaforizzabile, ma costituisce il fondo opaco, l’in-sé (in termini sartriani) o l’essere (l’“il y a”, in termini lévinassiani) dell’identità umana.

Il secondo livello è quello psichico: incorporare l’altro equivale a rifiutarlo per identificarsi (si veda la contiguità di odio e amore). Colui (o colei) che è stato prima incorporato e poi rifiutato, ritorna come fantasma escrementizio, come parte di me resasi autonoma (altra, eppure a me familiare: unheimlich) che intende vendicarsi per il fatto di esser stata espulsa. L’unica alternativa a tale circolo vizioso è la metaforizzazione positiva del medesimo: invece di restare fermo al metabolismo escrementizio e al cannibalismo psichico, il soggetto può amare oppure odiare l’altro riuscendo a sopportarne l’alterità come un fuori, senza innescare il meccanismo dell’incorporazione e del rifiuto. La metamorfosi dell’altro nell’io deve’ssere metaforica, appunto, e non reale; virtuale e linguistica, non violenta e distruttiva. Se riesce ad avere queste caratteristiche, la metamorfosi diventa l’unico antidoto contro la sindrome del potere, e come tale è stata proposta da Canetti nell’opera sopracitata(9).

Il terzo, decisivo livello è quello storico-sociale, nel quale può essere tematizzata la questione del passaggio dalla modernità all’attuale fase del metabolismo identitario. La modernità ha infatti conferito al metabolismo psichico degli individui e delle masse una specifica forma storica, determinata da due fattori complementari: il principio (formale) dell’ordine e l’economia (astraente) del capitale. Nel corso di quattro secoli (dal XVI al XX), l’Occidente moderno ha costruito il proprio ordine culturale, politico ed economico (il proprio nomos planetario, per dirla con Carl Schmitt) grazie ad un complesso meccanismo di espulsione sempre più intensiva dei rifiuti, secondo l’ideale del “giardino” (un ideale che ha permeato sia l’igienismo borghese, che quello totalitario): proprio come l’interiorità dei soggetti privilegiati e ‘superiori’, l’interno della nostra civiltà, recintato e protetto, è stato coltivato e tenuto pulito, buttando ‘fuori’ le erbacce e la sporcizia – ovvero i resti scomodi dell’incorporazione/sfruttamento. Dal canto suo, l’economia ristretta del capitale ha dapprima accumulato e pianificato la ricchezza sociale eliminando il superfluo, lo spreco e il disordine premoderni, per farli poi ‘ritornare’ – si pensi al trentennio del “boom” seguito al secondo conflitto mondiale – sotto forma di benessere legato al consumo.

Con la globalizzazione, infine, l’illusione moderna di respingere i rifiuti fuori di noi o di riciclarli nelle forme seducenti del benessere e del godimento, si è esaurita, non solo a causa dell’annullamento del ‘fuori’, ma anche in virtù di una spaventosa incertezza e diseguaglianza riguardo al godimento: ci ritroviamo ad essere noi stessi, abitanti dell’Occidente, dei potenziali rifiuti – rifiutati, oltre che sommersi dalle scorie in eccedenza. L’economia capitalistica non è più in grado di gestire la globalizzazione secondo l’ideale del giardino: le forme ordinate del controllo e della pianificazoine hanno lasciato il posto al disordine, all’inquinamento, al divario economico abissale fra Nord e Sud del pianeta – ma soprattutto hanno fatto eplodere nell’immaginario collettivo il carattere ‘interno’, fantasmatico e insopportabile del rifiuto. Eppure, il vero e proprio ribrezzo generato dal rifiuto indica paradossalmente il fallimento della virtualità (della scorporeizzazione) promessa negli ultimi vent’anni dall’esperienza ‘globale’ del mondo: la materia, che avrebbe dovuto essere completamente esorcizzata dalla mondializzazione tecnologica e riassorbita nel paesaggio virtuale, ha fatto irruzione nell’esperienza individuale e collettiva incarnando in forme sempre più brutali l’arcaica metafora alimentare: esplosioni, epidemie, mutilazioni, rovine, smembramenti e liquami hanno invaso l’immaginario, sfruttando, anziché obbedirle, la straordinaria amplificazione del virtuale.

Un’antropologia postmoderna dovrebbe registrare questi mutamenti come modificazioni storiche del metabolismo psichico individuale e collettivo, come conseguenze della saturazione del modello occidentale moderno. I rifiuti mostrano di poter tornare come doppi negativi di coloro che li hanno rifiutati, come residui ostili del metabolismo economico globale. La reazione salutare della vergogna, che implica, oltre alla possibilità dell’isolamento, quella di distinguere tra noi e l’escremento, viene soffocata dalla percezione della nostra insopportabile identità col rifiuto. Se la cultura, in senso lato, equivale alla capacità inesauribile dell’uomo di metaforizzare la materia, la situazione attuale comporta una crescente difficoltà nel realizzare tale metamorfosi – ed una incombente impossibilità di isolamento, a causa della sovrappopolazione del pianeta(10). Non si tratta tanto, come sostiene il sociologo Zygmunt Bauman, della perdita della forma ‘solida’ della modernità e della sua trasformazione in ‘modernità liquida’ – col che si vuole comunque alludere alla incapacità di ordinare-governare la situazione e di indirizzarne i processi –, quanto piuttosto della vendetta di ciò ch’è stato rifiutato. Esso infatti, lungi dall’essere-semplicemente-materia, non solo è vittima di un’azione, ossia presuppone una colpa, ma è testimonianza di un’identificazione prodottasi solo grazie a questa colpa: come tale, il rifiutato è vivo, ed è l’identificazione stessa.


Anche in Italia il recente dibattito filosofico-politico si è impegnato nella definizione del rifiuto attivo, concepito ad esempio da Roberto Esposito(11) come difesa immunitaria: la nostra cultura, esattamente come un organismo vivente, si è costruita e rafforzata mettendo a distanza l’altro, allo stesso modo in cui l’amante, per non perdere i propri confini individuali, tende a incorporare l’amato, a nutrirsene trasformando il proprio desiderio in odio distruttivo; con ciò è stata più o meno esplicitata la necessità del metabolismo metamorfico da parte degli individui e delle culture, nonché la possibilità di rovesciare l’interno in esterno, e viceversa.

Si può tuttavia tentare – senza metafore vagamente spengleriane, ma anche senza residui ottimismi consolatori – di compiere un passo ulteriore nella definizione del processo identitario di rifiuto, portandola più chiaramente nell’orizzonte della nostra attuale esperienza, ovvero traducendone i termini nel mondo globalizzato. Nel linguaggio di Esposito, si configura la minaccia di una nuova impossibilità del rifiuto: se la comunicazione (la communitas) avviene di norma tra il soggetto (il sistema) e un ‘esterno’ (l’ambiente) che viene rifiutato/regolamentato – contro cui cioè ci si immunizza-comunicando –, cosa succede quando l’esterno non esiste più? Cosa diventa in tal caso la comunicazione, oltre a mera autoreferenzialità autodivorantesi, quando il sistema immunitario non ha più un fuori da cui difendersi perché lo ha completamente interiorizzato?

Nell’attuale fase identitaria, l’Occidente sembra mangiare se stesso: si immunizza distruggendosi come un cancro. Il rifiuto non è più esterno, ma implosivo, interno: autoregolamentandosi, il sistema produce l’altro e lo rifiuta come “proiezione di sé”. Forse per questo la cultura occidentale è affascinata da ciò che a sua volta la rifiuta, come dal proprio fantasma: rivelando l’inconsistenza di ogni presunto scontro di civiltà, Jean Baudrillard(12) ha concepito il rapporto tra l’Occidente e la minaccia terroristica islamica in termini inconsciamente auto-distruttivi. La violenza circolare del metabolismo implica, in ultima analisi, la trasformazione di ciò ch’è apparentemente passivo in attivo: il rifiuto del rifiutante – la negazione del soggetto.



1 Uso volutamente questo termine foucaultiano, per indicare l’insieme delle pratiche governamentali e dei dispositivi di normalizzazione con cui il potere si cura, o fa mostra di curarsi dell’esistenza in vita, nonché della qualità della vita, di popolazioni e individui. Per una disamina filosofica e genealogica del concetto foucaultiano di biopolitica e del suo reciproco (tanatopolitica), cfr. R. Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004.

2 Cfr. E. Canetti, Masse und Macht, Hamburg 1960, trad. it. Massa e potere, in Id., Opere, a cura di G. Cusatelli, Bompiani, Milano 1990, vol. I, pp. 981-1590.

3 E. Canetti, op. cit., pp.1226-1231.

4 Sul ruolo svolto dalla distanza estetica nel rapporto tra soggetto e oggetto di cultura, e dunque anche nei rapporti sociali, cfr. P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna 1983.

5 Cfr. N. Elias, Il processo di civilizzazione, Il Mulino, Bologna 1988.

6 Questa necessità di isolamento è tuttavia comparsa molto presto nella storia dell’umanità: ambienti preposti esclusivamente alla deiezione sono stati utilizzati tanto dalle civiltà mesopotamiche prebabilonesi (con annessi sistemi fognarii), quanto nelle antiche città micenee.

7 R. Bodei, Odio e amicizia, in AAVV, Philia, La Città del Sole, Napoli 2001, p.78.

8 Su ciò cfr. il fondamentale volume di G. Bataille, L’erotismo, Studio Editoriale, Milano 1991.

9 Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp.1316-1318 (L’immortalità) e 1550-1557 (Epilogo). Si tratta della creazione artistica, possibile solo a pochi: grazie ad essa, l’incorporazione assume caratteri benefici e addirittura promette l’immortalità a chi la pratica (ad esempio, lo scrittore).

10 In questo senso la biopolitica nasconde, secondo lo stesso Foucault, il suo rovescio: la tanatopolitica, per la quale ogni membro di una società smette di costituire un – peraltro illusorio – fine in sé (un valore) e diventa semplice materia annientabile in ogni momento: rifiuto.

11 Cfr. di R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002, ma anche il precedente Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998.

12 Cfr. J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo e Power Inferno, entrambi pubblicati in Italia da Raffaello Cortina, Milano, risp. 2002 e 2003.

 

 

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