Identità e rifiuto: appunti per un’antropologia 
          del postmoderno
        di Eleonora 
          de Conciliis
        
          
        
        Le riflessioni 
          che seguono intendono mettere in evidenza ciò che nel termine 
          ‘rifiuto’ rinvia, più o meno implicitamente, all’atto 
          del rifiutare, concepito in due forme apparentemente opposte ma in realtà 
          complementari: quella della negazione/esclusione e quella dell’incorporazione/sfruttamento, 
          di cui il rifiuto costituisce il prodotto ultimo. A questo scopo, invece 
          di partire dalla definizione di ciò che il rifiuto è, 
          o ci appare, una volta divenuto tale, mi servirò di una metafora 
          alimentare capace di illuminare il processo che produce il rifiuto 
          (e con esso il rifiutante), la sua specifica materialità, il 
          suo rapporto segreto con chi o con ciò che lo ha rifiutato. Si 
          tratta di un movimento inferiore, basso, spesso oscuro e inconscio, 
          oltre che ripugnante, che permette tuttavia di interrogare la relazione 
          identitaria che esiste – nostro malgrado – tra il soggetto 
          e l’oggetto del rifiutare, nel medio del metabolismo: una 
          trasformazione inevitabile dell’altro nello stesso e poi nell’altro 
          – una sorta di violenza circolare.  
        L’analisi 
          antropologica, prima che sociologica, dell’incorporazione, costringe 
          ad allontanarsi tanto dagli specialismi medico-sanitari della biopolitica
(1), 
          quanto dai recinti identitari classici, nei quali la filosofia ha iscritto 
          l’esperienza soggettivo-coscienziale e il complementare statuto 
          dell’oggetto; la metafora alimentare, a sua volta, consente di 
          abbandonare la rigida distinzione tra me e non-me, tra corpo e psiche, 
          tra uomo e animale, tra singolo e collettività, riportando il 
          senso e il linguaggio della riflessione sui rifiuti in una sfera per 
          così dire originaria, primordiale e tuttavia non priva di un’inquietante 
          storicità. Infine, il movimento dell’incorporazione invita 
          il pensiero a passare dalla (depurata, trascendentale) forma 
          identitaria, alla sua più brutale (volgare, disgustosa) funzione, 
          impedendo così quel comodo atteggiamento distaccato che di norma 
          accompagna l’indagine filosofica e ne allontana gli oggetti “sconvenienti”. 
           
        
        
        Nel suo monumentale studio sul potere, la cui stesura 
          ventennale (1940-1960) fu suscitata dalla mostruosità dell’esperienza 
          totalitaria(2), 
          Elias Canetti ha inteso dimostrare che tale esperienza, la quale ha 
          legato in modo perverso i capi e le masse in un delirio di sopravvivenza 
          dei primi e distruzione delle seconde (ridotte letteralmente a ‘rifiuti’ 
          tra le ‘macerie’), non è affatto un portato specifico 
          della civiltà occidentale; adducendo una straordinaria varietà 
          di materiale documentario, raccolto senz’alcuna limitazione geografica 
          o temporale, Canetti ha sostenuto che le dinamiche psichiche del potere 
          non solo superano, o meglio mettono fuori uso ogni rigida distinzione 
          tra individuale e collettivo, ma costituiscono una sorta di fiume carsico 
          che scorre sotto la superficie liscia e apparentemente ordinata della 
          civiltà umana, un fiume pronto a riemergere nella sua devastante 
          violenza allorquando si determinano alcune configurazioni critiche. 
          Non posso in questa sede inoltrarmi nella dialettica tra esperienze 
          massive ed esperienze di potere svolta da Canetti nel poderoso volume; 
          mi limiterò a ricordare che, secondo lo scrittore, il potente 
          è colui che desidera sopravvivere ad una ‘massa’ 
          di nemici uccisi, esperienza che costituisce allo stesso tempo l’acme 
          del godimento ed il vertice della paura (paura della vendetta delle 
          vittime nei confronti del sopravvissuto). In quanto ispirata dall’esperienza 
          totalitaria, l’indagine canettiana fa in qualche modo pendant 
          con quella della Arendt sulle Origini del totalitarismo, interrogandosi, 
          più che sui presupposti economici, culturali e politici del fenomeno, 
          sulla sua natura segreta; essa tratta il male radicale come un’esperienza 
          universale e quasi inconscia del potere esercitato dall’uomo sull’uomo 
          e su ogni forma vivente, un’esperienza altrettanto “banale”, 
          in cui l’uomo perde – ma perché in fondo non l’ha 
          mai definitivamente acquisita – ogni dignità specifica, 
          ogni forma distintiva individuale ed ogni connotazione propriamente 
          ‘umana’.  
        In una delle 
          sezioni del volume dedicate agli organi del potere, Canetti scrive: 
           
        
        
        «Il 
          vero e proprio atto d’incorporare la preda comincia dalla 
          bocca. Là conduceva originariamente la via di tutto ciò 
          che era commestibile; […] lungo è il cammino della preda 
          attraverso il corpo. Durante tale viaggio, essa è lungamente 
          sfruttata, e le viene sottratto tutto ciò che può essere 
          utilizzato. Ne rimangono infine solo più rifiuti e puzzo.  
        
        Questo 
          processo, con cui si conclude ogni conquista animale, è particolarmente 
          istruttivo per conoscere l’essenza del potere. Chi vuole dominare 
          sugli uomini cerca di svilirli, di sottrarre loro forza di resistenza 
          e diritti […]. Il suo scopo resta sempre quello di ‘incorporarseli’ 
          e di sfruttarli. Gli è indifferente ciò che resterà 
          di loro.[…] E quando non presentano più nulla di sfruttabile, 
          egli se ne libera di nascosto, come dei propri escrementi, preoccupandosi 
          che non appestino l’aria della sua abitazione.
        Egli 
          non osa riconoscere dinanzi a sé questo processo in tutti i suoi 
          stadi […]; siccome egli non fa macellare i suoi sudditi nei mattatoi 
          e non li trasforma in vero e proprio cibo per il suo corpo, negherà 
          di sfruttarli e di digerirli. Anzi: è lui che dà 
          loro da mangiare [...].
        Ma anche prescindendo 
          dal potente […], il rapporto di ogni uomo con i suoi escrementi 
          rientra nella sfera del potere. Nulla è appartenuto a un uomo 
          più di ciò che si è trasformato in escremento […]. 
          Si tratta di un processo così naturale, così spontaneo 
          ed estraneo alla coscienza, che se ne sottovaluta l’importanza. 
          Si tende a riconoscervi soltanto i molteplici scherzi del potere che 
          accadono in questo mondo; ma tale aspetto è in realtà 
          il meno importante. Così ogni giorno si digerisce e si torna 
          a digerire. Qualcosa di estraneo viene afferrato, sminuzzato, incorporato, 
          e assimilato dal’interno; si vive soltanto grazie a questo processo. 
          Basta che esso si interrompa, e si è giunti alla fine […]. 
           
        Gli escrementi, 
          che rimangono al termine del processo, sono carichi del nostro reato. 
          Da essi si può capire cosa noi abbiamo ucciso. Sono una concentrata 
          raccolta di indizi contro di noi. Puzzano come i nostri peccati quotidiani, 
          reiterati, interrotti, e gridano al cielo. Ci si libera dei propri in 
          locali particolari, che servono solo a ciò; l’uomo è 
          veramente solo soltanto con i suoi escrementi. E’ evidente che 
          ci si vergogna dei propri.»(3)
        
        
        Con 
          questo passo siamo costretti ad abbandonare la pretesa, tipica del pensiero 
          astratto, di concentrarsi esclusivamente sulla forma dell’oggetto, 
          di sottrarlo alla sua funzione primaria allo stesso modo in cui la contemplazione 
          estetica sottrae l’opera al suo originario valore d’uso. 
          Siamo invece abbassati, per così dire, alla natura della funzione: 
          l’oggetto non ci è indifferente, ma ci disgusta; e quanto 
          più ci disgusta, tanto più ci appartiene – ci inter-essa, 
          perché l’esse che abbiamo in comune con (inter) 
          l’oggetto impedisce di considerarlo, appunto, semplicemente un 
          oggetto(4).
        Il 
          distacco formale è così diventato impossibile, e ha lasciato 
          il posto all’analisi simbolica (ma non troppo) della funzione 
          dell’incorporazione. Oltre che dal valore simbolico assumibile, 
          in sede psicoanalitica, dalle feci durante specifiche fasi dello sviluppo 
          psico-sessuale, prescinderò per il momento dal fatto che l’isolamento 
          dell’individuo nell’atto della deiezione presenta, nella 
          società occidentale moderna, un significativo indice storico, 
          in quanto frutto di un lungo processo di trasformazione della promiscuità 
          premoderna in ciò che il sociologo Norbert Elias ha definito 
          “la civiltà delle buone maniere”(5); 
          cercherò invece di estrarre dal passo in questione alcuni elementi 
          utili a comprendere la nostra segreta, ineludibile e vendicativa identità 
          con l’escremento/rifiuto.  
        In 
          primo luogo, Canetti istituisce un’equivalenza essenziale, addirittura 
          pre-umana, oltre che pre-filosofica, tra incorporazione e potere: l’altro 
          non è concepito ‘ancora’ e neutralizzato come Altro 
          più o meno trascendente, oppure come un ego dotato di una soggettività 
          analoga alla mia (secondo il noto modello husserliano dell’“appaiamento” 
          del mio ego trascendentale con quello indirettamente “appercepito” 
          attraverso il corpo vivente), e neppure, al limite, come corpo estraneo 
          (“altrui”), bensì solo come preda o cibo, e in modo 
          trasversale, ovvero animalesco, rispetto alla specie di appartenenza; 
          l’identificazione primaria dell’altro è legata al 
          suo poter essere afferrato, maciullato con i denti e incorporato, e 
          proprio grazie a tale identificazione aggressiva si afferma il mio potere 
          di vita (e di morte), cioè la mia stessa identità.  
        
        In 
          secondo luogo, il processo dell’incorporazione viene indicato 
          come extra- o infra-coscienziale, col che Canetti ribadisce il carattere 
          originario della relazione di potere e quello soltanto superficiale 
          e derivato della consapevolezza del processo medesimo, tradotto dalla 
          ragione soggettiva in termini di ‘fame’, ‘volontà’ 
          e ‘azione finalizzata’. Sul piano sociologico e comportamentale, 
          la ragione può solo perimetrare e igienizzare, men che mai impedire, 
          l’esperienza escrementizia: il raffinamento dei costumi prescrive 
          all’individuo di isolarsi nel momento in cui il prodotto dell’attività 
          inconscia di potere conferma, in modo brutale e nauseabondo, il carattere 
          distruttivo e colpevole della vita. La ragione stessa, in questa ottica, 
          appare un’istanza potente, frutto di un divoramento esclusivo, 
          di uno svilimento della materialità del processo biologico: col 
          suo disgusto per ciò che è basso, la ragione istituisce 
          il primato della forma astratta, e pulita, sulla funzione 
          corporea, finendo però col far assumere alla forma pura un ruolo 
          incorporativo, e dunque dominante, assolutamente non neutrale, nei confronti 
          dell’immondo processo funzionale.  
        Profondamente 
          connesso a tale disprezzo gerarchico, è l’esempio dello 
          ‘sfruttamento’ dei sudditi da parte del potente: i sudditi 
          non vengono realmente ‘mangiati’, ma sono costretti ad occuparsi 
          di ciò ch’è basso, ovvero di ciò che è 
          stato rifiutato dal potente, diventando così essi stessi rifiuti. 
          Canetti fluidifica la tradizionale distinzione tra materia e spirito, 
          tra corpo e psiche, tra società e individuo, mostrando come la 
          relazione di potere basata sul nutrimento sia immediatamente metaforizzabile, 
          anche nel caso in cui l’incorporazione non avvenga realmente, 
          ma appaia per così dire traslata nella sfera economica del dominio; 
          in questo modo, da un lato si rivela sul piano collettivo il carattere 
          predatorio della biopolitica, la sua capacità di nutrire mentre 
          in realtà divora; dall’altro lato, sul piano individuale, 
          si svela l’ambivalenza strutturale del cannibalismo psichico. 
          Prendiamo ad esempio il caso dell’incorporazione erotica dell’altro: 
          persino qui si può rintracciare un’affermazione di sé, 
          compiuta attraverso la cancellazione dell’esistenza altrui come 
          indipendente dalla mia: proprio come nel nutrimento biologico, l’identità 
          di chi incorpora e rifiuta si produce attraverso lo stesso movimento 
          di incorporare e poi rifiutare (ovvero svalorizzare) l’oggetto, 
          nel medio – o con l’alibi coscienziale – dell’attrazione, 
          cui inevitabilmente fa seguito la ripulsa.  
        La doppia metamorfosi 
          dell’altro, dapprima in interno e poi in esterno schifoso (rifiuto, 
          escremento), costituisce la colpa originaria e reiterata del processo 
          di affermazione e mantenimento costante dell’identità psichica 
          individuale, nonché della coesione sociale. La nostra stessa 
          salute biologica e psichica, sembra suggerire Canetti, si fonda sulla 
          vergogna della distruzione e della repulsione: l’uomo, in quanto 
          essere uscito in modo irreversibile dalla sfera dell’istinto, 
          metaforizza incessantemente questa colpa, e la rende tale. Il sentimento 
          tutto umano della vergogna, sia esso consapevole o inconscio, rinvia 
          a due fenomeni complementari: è impossibile identificarsi senza 
          negare l’altro, in modo concreto o immaginario; negando l’altro 
          dopo averlo ‘sfruttato’, esorcizziamo il fatto che per poter 
          essere espulso l’altro è diventato parte di noi, è 
          stato incorporato e interiormente assimilato: ciò che ora ci 
          fa schifo, è stato, e dunque è sempre potenzialmente, 
          la nostra stessa macchina identitaria. L’escremento ci si fa incontro 
          come ciò che vorremmo completamente allontanare, ma che, pur 
          trovandosi fuori di noi, è il fuori del nostro dentro. Allo stesso 
          modo, la società produce incessantemente differenze gerarchiche 
          tra coloro che incorporano e coloro che vengono rifiutati; questi ultimi 
          ricordano ai primi, con la loro stessa esistenza, ciò che essi 
          compiono per essere ciò che sono, e identificano disgustosamente 
          l’inferiorità dalla quale essi sono emersi affermandosi 
          come ‘soggetti’.  
        Il 
          rifiuto, dunque, non si lascia confinare in un ‘fuori’, 
          e nemmeno in un ‘sotto’, ma ricade sempre ‘dentro’, 
          tanto dal punto di vista corporeo quanto da quello psichico. Il rifiuto 
          è la prova oggettiva dell’impossibilità di tracciare 
          un confine sicuro tra me e non-me, perché l’interno fuoriesce 
          da me e si materializza come scarto. Il metabolismo – individuale 
          e sociale – conduce inesorabilmente all’escremento, che 
          come tale viene prodotto in isolamento e rimosso, in quanto prova della 
          nostra colpa-capacità di distruggere e sfruttare ciò ch’è 
          estraneo. In questa ottica, lungi dal poter essere confinata in una 
          semplice fase dello sviluppo psico-sessuale, anche l’identificazione 
          simbolica delle feci con il bambino e/o con il fallo rimanda all’identità 
          affettiva, emozionale, con l’escremento, alla sua straordinaria 
          e inquietante plasticità metaforica.  
         
        Prim’ancora 
          di essere necessari alla costruzione consapevole dell’identità 
          soggettiva secondo modelli condivisi, i processi di scarto e di rifiuto 
          costituiscono tout court la forma attiva dell’identità: 
          prim’ancora di scegliere, nella costruzione del sé, cosa 
          acquisire e cosa scartare, siamo costretti a divorare per affermarci. 
          Allo stesso modo, prim’ancora di sviluppare un piano di controllo, 
          di sfruttamento e di esclusione di categorie considerate inferiori (una 
          ‘testa’), i sistemi di potere si sono strutturati in maniera 
          casuale (acefala) attraverso il divoramento sociale, economico e culturale 
          di alcune forze vive, e le hanno trasformate in escremento maleodorante. 
          Tuttavia, quanto più articolato e complesso diviene, nella storia 
          di una civiltà, il bisogno di affermare la propria identità 
          tanto sul piano individuale quanto su quello collettivo, tanto più 
          grande diventa la massa di ciò che è stato rifiutato, 
          ossia digerito, sfruttato ed espulso; in tal senso l’Occidente 
          moderno ha prodotto, nel giro di alcuni secoli, una gigantesca mole 
          di rifiuti interni ed esterni, geografici e psichici, localizzabili 
          fisicamente eppure fantasmaticamente ritornanti. Man mano che l’identità 
          occidentale è andata ‘costruendosi’ sia sul piano 
          individuale che su quello collettivo, ha sentito la necessità 
          di isolarsi nell’atto escrementizio e di isolare l’escremento(6), 
          sottoponendosi ad un’attenta profilassi nei confronti del rifiuto, 
          dello sporco, dell’inferiore; così facendo, però, 
          non ha potuto evitare la crescita esponenziale del materiale rifiutato, 
          nonché la necessità altrettanto fisiologica di consentire, 
          di tanto in tanto, la contaminazione e/o il ritorno di ciò ch’era 
          stato digerito, sfruttato ed espulso. Sarebbe fin troppo facile – 
          ma, appunto, di pessimo gusto – trovare esempi di ciò nella 
          storia europea e statunitense, ricorrendo magari alla descrizione olfattiva 
          degli ebrei diffusa durante il nazismo, o alla ipocrisia multietnica 
          del sogno americano, costruito in realtà su un privilegio razziale 
          che in duecento anni si è semplicemente spostato dai bianchi 
          ai neri per escludere, oggi, gli ispanici. L’Occidente si è 
          a lungo esercitato nell’arte escrementizia per accrescere la propria 
          potenza, non senza essere attratto da ciò che respingeva. Questa 
          sorta di metafora storico-sociale conferma il principio generale, secondo 
          cui “l’odio è contiguo all’amore” e, 
          per affermarsi, il soggetto “priva l’oggetto di tutte le 
          sue qualità, [fino a] ridurlo a un ramo secco o, se persona, 
          disumanizzarla”(7). 
          Detto ancora in altri termini, l’incorporazione identitaria è 
          strutturalmente ambigua e storicamente variabile.  
        Da un lato, l’attrazione 
          nei confronti del rifiuto (o meglio, del rifiutato) non è altro 
          che la traccia del suo essere, originariamente, un oggetto desiderato 
          e identificante; un’ambivalenza che si può esperire con 
          particolare significatività nella sfera erotica(8), 
          rispetto a ciò ch’è considerato basso, sporco e 
          ripugnante (non è un caso che la sessualità femminile 
          sia stata pensata dalla psicoanalisi attraverso la cosiddetta ‘teoria 
          della cloaca’). D’altra parte, il rifiutato rivela l’inevitabile 
          gerarchizzazione cui è stato sottoposto: l’azione implicita 
          nel rifiutare, o nel rifiutarsi, a qualcuno, sottolinea la dimensione 
          selettiva dell’atto, nel senso di scartare gli inferiori, i non 
          idonei (inidonei ad agire ma anche semplicemente ad esistere). Infine, 
          in una forma più subdola, ma conforme a questa seconda accezione, 
          il rifiutato è colui che non sa rifiutare o rispondere al rifiuto; 
          si prenda ad esempio la tendenza, presente in talune deboli forme di 
          soggettivazione ‘postmoderna’, a vivere come insostenibile 
          il rifiuto: sempre più spesso cadono vittima del disagio dei 
          soggetti che non sanno dire ‘no’ agli altri (e che diventano 
          perciò psichicamente onnivori, bulimici) e che parimenti non 
          riescono a sopportare un ‘no’; in questa prospettiva, solo 
          apparentemente rovesciata rispetto a quella finora delineata, la pratica 
          del rifiuto sottintende una capacità di identificazione autonoma, 
          che le società del consumo combattono sottilmente, producendo 
          forme coattive ed effimere di identificazione, delle identità 
          ‘spazzatura’ vissute come coacervo di esperienze.
        
        
        E’ quindi 
          possibile storicizzare l’analisi canettiana del nutrimento, e 
          delineare una sorta di schematica stratificazione del rifiuto, articolando 
          i diversi livelli fin qui emersi.  
        Il 
          primo livello è quello biologico, elementare, del metabolismo 
          individuale. La metamorfosi metabolica del nutrimento nel mio corpo 
          e poi nel rifiutato, nega l’identità corporea come solidità, 
          purezza e separazione. Viceversa, l’identità corporea individuale 
          si rivela essere prodotta di continuo attraverso violenza, sfruttamento, 
          sporcizia ed espulsione solo parzialmente controllabile. Questo primo 
          livello non è positivamente metaforizzabile, ma costituisce il 
          fondo opaco, l’in-sé (in termini sartriani) o l’essere 
          (l’“il y a”, in termini lévinassiani) 
          dell’identità umana.  
        Il 
          secondo livello è quello psichico: incorporare l’altro 
          equivale a rifiutarlo per identificarsi (si veda la contiguità 
          di odio e amore). Colui (o colei) che è stato prima incorporato 
          e poi rifiutato, ritorna come fantasma escrementizio, come parte di 
          me resasi autonoma (altra, eppure a me familiare: unheimlich) 
          che intende vendicarsi per il fatto di esser stata espulsa. L’unica 
          alternativa a tale circolo vizioso è la metaforizzazione positiva 
          del medesimo: invece di restare fermo al metabolismo escrementizio e 
          al cannibalismo psichico, il soggetto può amare oppure odiare 
          l’altro riuscendo a sopportarne l’alterità come un 
          fuori, senza innescare il meccanismo dell’incorporazione e del 
          rifiuto. La metamorfosi dell’altro nell’io deve’ssere 
          metaforica, appunto, e non reale; virtuale e linguistica, non violenta 
          e distruttiva. Se riesce ad avere queste caratteristiche, la metamorfosi 
          diventa l’unico antidoto contro la sindrome del potere, e come 
          tale è stata proposta da Canetti nell’opera sopracitata(9). 
           
        Il 
          terzo, decisivo livello è quello storico-sociale, nel quale può 
          essere tematizzata la questione del passaggio dalla modernità 
          all’attuale fase del metabolismo identitario. La modernità 
          ha infatti conferito al metabolismo psichico degli individui e delle 
          masse una specifica forma storica, determinata da due fattori complementari: 
          il principio (formale) dell’ordine e l’economia (astraente) 
          del capitale. Nel corso di quattro secoli (dal XVI al XX), l’Occidente 
          moderno ha costruito il proprio ordine culturale, politico ed economico 
          (il proprio nomos planetario, per dirla con Carl Schmitt) grazie 
          ad un complesso meccanismo di espulsione sempre più intensiva 
          dei rifiuti, secondo l’ideale del “giardino” (un ideale 
          che ha permeato sia l’igienismo borghese, che quello totalitario): 
          proprio come l’interiorità dei soggetti privilegiati e 
          ‘superiori’, l’interno della nostra civiltà, 
          recintato e protetto, è stato coltivato e tenuto pulito, buttando 
          ‘fuori’ le erbacce e la sporcizia – ovvero i resti 
          scomodi dell’incorporazione/sfruttamento. Dal canto suo, l’economia 
          ristretta del capitale ha dapprima accumulato e pianificato la ricchezza 
          sociale eliminando il superfluo, lo spreco e il disordine premoderni, 
          per farli poi ‘ritornare’ – si pensi al trentennio 
          del “boom” seguito al secondo conflitto mondiale – 
          sotto forma di benessere legato al consumo.  
        Con 
          la globalizzazione, infine, l’illusione moderna di respingere 
          i rifiuti fuori di noi o di riciclarli nelle forme seducenti del benessere 
          e del godimento, si è esaurita, non solo a causa dell’annullamento 
          del ‘fuori’, ma anche in virtù di una spaventosa 
          incertezza e diseguaglianza riguardo al godimento: ci ritroviamo ad 
          essere noi stessi, abitanti dell’Occidente, dei potenziali rifiuti 
          – rifiutati, oltre che sommersi dalle scorie in eccedenza. L’economia 
          capitalistica non è più in grado di gestire la globalizzazione 
          secondo l’ideale del giardino: le forme ordinate del controllo 
          e della pianificazoine hanno lasciato il posto al disordine, all’inquinamento, 
          al divario economico abissale fra Nord e Sud del pianeta – ma 
          soprattutto hanno fatto eplodere nell’immaginario collettivo il 
          carattere ‘interno’, fantasmatico e insopportabile del rifiuto. 
          Eppure, il vero e proprio ribrezzo generato dal rifiuto indica paradossalmente 
          il fallimento della virtualità (della scorporeizzazione) promessa 
          negli ultimi vent’anni dall’esperienza ‘globale’ 
          del mondo: la materia, che avrebbe dovuto essere completamente esorcizzata 
          dalla mondializzazione tecnologica e riassorbita nel paesaggio virtuale, 
          ha fatto irruzione nell’esperienza individuale e collettiva incarnando 
          in forme sempre più brutali l’arcaica metafora alimentare: 
          esplosioni, epidemie, mutilazioni, rovine, smembramenti e liquami hanno 
          invaso l’immaginario, sfruttando, anziché obbedirle, la 
          straordinaria amplificazione del virtuale.  
        Un’antropologia 
          postmoderna dovrebbe registrare questi mutamenti come modificazioni 
          storiche del metabolismo psichico individuale e collettivo, come conseguenze 
          della saturazione del modello occidentale moderno. I rifiuti mostrano 
          di poter tornare come doppi negativi di coloro che li hanno rifiutati, 
          come residui ostili del metabolismo economico globale. La reazione salutare 
          della vergogna, che implica, oltre alla possibilità dell’isolamento, 
          quella di distinguere tra noi e l’escremento, viene soffocata 
          dalla percezione della nostra insopportabile identità col rifiuto. 
          Se la cultura, in senso lato, equivale alla capacità inesauribile 
          dell’uomo di metaforizzare la materia, la situazione attuale comporta 
          una crescente difficoltà nel realizzare tale metamorfosi – 
          ed una incombente impossibilità di isolamento, a causa della 
          sovrappopolazione del pianeta(10). 
          Non si tratta tanto, come sostiene il sociologo Zygmunt Bauman, della 
          perdita della forma ‘solida’ della modernità e della 
          sua trasformazione in ‘modernità liquida’ – 
          col che si vuole comunque alludere alla incapacità di ordinare-governare 
          la situazione e di indirizzarne i processi –, quanto piuttosto 
          della vendetta di ciò ch’è stato rifiutato. Esso 
          infatti, lungi dall’essere-semplicemente-materia, non solo è 
          vittima di un’azione, ossia presuppone una colpa, ma è 
          testimonianza di un’identificazione prodottasi solo grazie a questa 
          colpa: come tale, il rifiutato è vivo, ed è l’identificazione 
          stessa.  
        
        
        Anche in Italia 
          il recente dibattito filosofico-politico si è impegnato nella 
          definizione del rifiuto attivo, concepito ad esempio da Roberto Esposito(11) 
          come difesa immunitaria: la nostra cultura, esattamente come un organismo 
          vivente, si è costruita e rafforzata mettendo a distanza l’altro, 
          allo stesso modo in cui l’amante, per non perdere i propri confini 
          individuali, tende a incorporare l’amato, a nutrirsene trasformando 
          il proprio desiderio in odio distruttivo; con ciò è stata 
          più o meno esplicitata la necessità del metabolismo metamorfico 
          da parte degli individui e delle culture, nonché la possibilità 
          di rovesciare l’interno in esterno, e viceversa.  
        Si può 
          tuttavia tentare – senza metafore vagamente spengleriane, ma anche 
          senza residui ottimismi consolatori – di compiere un passo ulteriore 
          nella definizione del processo identitario di rifiuto, portandola più 
          chiaramente nell’orizzonte della nostra attuale esperienza, ovvero 
          traducendone i termini nel mondo globalizzato. Nel linguaggio di Esposito, 
          si configura la minaccia di una nuova impossibilità del rifiuto: 
          se la comunicazione (la communitas) avviene di norma tra il soggetto 
          (il sistema) e un ‘esterno’ (l’ambiente) che viene 
          rifiutato/regolamentato – contro cui cioè ci si immunizza-comunicando 
          –, cosa succede quando l’esterno non esiste più? 
          Cosa diventa in tal caso la comunicazione, oltre a mera autoreferenzialità 
          autodivorantesi, quando il sistema immunitario non ha più un 
          fuori da cui difendersi perché lo ha completamente interiorizzato? 
           
        Nell’attuale 
          fase identitaria, l’Occidente sembra mangiare se stesso: si immunizza 
          distruggendosi come un cancro. Il rifiuto non è più esterno, 
          ma implosivo, interno: autoregolamentandosi, il sistema produce l’altro 
          e lo rifiuta come “proiezione di sé”. Forse per questo 
          la cultura occidentale è affascinata da ciò che a sua 
          volta la rifiuta, come dal proprio fantasma: rivelando l’inconsistenza 
          di ogni presunto scontro di civiltà, Jean Baudrillard(12) 
          ha concepito il rapporto tra l’Occidente e la minaccia terroristica 
          islamica in termini inconsciamente auto-distruttivi. La violenza circolare 
          del metabolismo implica, in ultima analisi, la trasformazione di ciò 
          ch’è apparentemente passivo in attivo: il rifiuto del rifiutante 
          – la negazione del soggetto.  
        
        
        
        
         
          1 
            Uso volutamente questo termine foucaultiano, per indicare l’insieme 
            delle pratiche governamentali e dei dispositivi di normalizzazione 
            con cui il potere si cura, o fa mostra di curarsi dell’esistenza 
            in vita, nonché della qualità della vita, di popolazioni 
            e individui. Per una disamina filosofica e genealogica del concetto 
            foucaultiano di biopolitica e del suo reciproco (tanatopolitica), 
            cfr. R. Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 
            2004. 
         
         
          2 
            Cfr. E. Canetti, Masse und Macht, Hamburg 1960, trad. it. Massa 
            e potere, in Id., Opere, a cura di G. Cusatelli, Bompiani, 
            Milano 1990, vol. I, pp. 981-1590. 
         
         
          3 
            E. Canetti, op. cit., pp.1226-1231.
         
         
          4 
            Sul ruolo svolto dalla distanza estetica nel rapporto tra soggetto 
            e oggetto di cultura, e dunque anche nei rapporti sociali, cfr. P. 
            Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, 
            Bologna 1983.
         
         
          5 
            Cfr. N. Elias, Il processo di civilizzazione, Il Mulino, Bologna 
            1988. 
         
         
          6 
            Questa necessità di isolamento è tuttavia comparsa molto 
            presto nella storia dell’umanità: ambienti preposti esclusivamente 
            alla deiezione sono stati utilizzati tanto dalle civiltà mesopotamiche 
            prebabilonesi (con annessi sistemi fognarii), quanto nelle antiche 
            città micenee. 
         
         
          7 
            R. Bodei, Odio e amicizia, in AAVV, Philia, La Città 
            del Sole, Napoli 2001, p.78. 
         
         
          8 
            Su ciò cfr. il fondamentale volume di G. Bataille, L’erotismo, 
            Studio Editoriale, Milano 1991.
         
         
          9 
            Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp.1316-1318 (L’immortalità) 
            e 1550-1557 (Epilogo). Si tratta della creazione artistica, 
            possibile solo a pochi: grazie ad essa, l’incorporazione assume 
            caratteri benefici e addirittura promette l’immortalità 
            a chi la pratica (ad esempio, lo scrittore). 
         
         
          10 
            In questo senso la biopolitica nasconde, secondo lo stesso Foucault, 
            il suo rovescio: la tanatopolitica, per la quale ogni membro di una 
            società smette di costituire un – peraltro illusorio 
            – fine in sé (un valore) e diventa semplice materia annientabile 
            in ogni momento: rifiuto. 
         
         
          11 
            Cfr. di R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, 
            Einaudi, Torino 2002, ma anche il precedente Communitas. Origine 
            e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998. 
         
         
          12 
            Cfr. J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo e Power Inferno, 
            entrambi pubblicati in Italia da Raffaello Cortina, Milano, risp. 
            2002 e 2003.