indice del numero 4

 

 

 

 

(Ar)resto dell'immagine.
Pratiche del rifiuto nel cinema.

di Daniele Dottorini

 


“Fuori campo” è il titolo 1 di uno dei saggi più densi e straordinari di Sergej M. Ejzenstejn; un saggio che è anche una delle tappe iniziali di una riflessione sempre più radicale e complessa che il regista-teorico sovietico dedicherà al cinema inteso come forma estrema di montaggio, concretizzazione cioè di un principio intellettuale prima ancora che tecnico, legato, da una parte, alla percezione del movimento del mondo, di cui il cinema costituisce l’ultimo e il più sofisticato strumento di decodificazione, (proprio perché basato sul conflitto, sulla insanabile – perché dialettica – contrapposizione generata dal montaggio); e, dall’altra, legato al pensiero come costruzione, elaborazione di concetti (anch’essi necessariamente “conflittuali”). È l’inizio, appunto del percorso ejzenstejniano che si snoderà lungo le difficili ma affascinanti strade del “montaggio intellettuale”, del principio compositivo creatore di forma e pensiero (2.

Nel saggio, utilizzando alcune delle sue famose digressioni, Ejzenstejn si concentra sull’elemento cinematografico presente nella cultura estetica giapponese, mostrando come la forma del montaggio sia un principio multiforme e dinamico. Soffermandosi sul ruolo dell’inquadratura come “cellula” del montaggio – utilizzando, cioè, la metafora biologica dello sdoppiamento, e la formula dialettica “dell’uno che diventa due” – Ejzenstejn, rifiutando l’idea della concatenazione meccanica delle inquadrature nel montaggio, paragona l’inquadratura ad un oganismo elementare, ma sottoposto, in quanto organismo, alle leggi della crescita e del cambiamento: la cellula appunto. L’inquadratura non è statica, ma cresce al suo interno, proiettando le proprie linee di fuga verso l’esterno, verso un “fuori” che è situato al di là dei confini del quadro: “Il conflitto all’interno dell’inquadratura: è il montaggio potenziale, che crescendo d’intensità fa esplodere la sua gabbia quadrangolare e si propaga in forma di impulsi di montaggio tra pezzi di montaggio (…). Se proprio dobbiamo confrontare il montaggio con qualcosa, allora può essere opportuno paragonare la serie dei pezzi di montaggio – “le inquadrature” – con la serie delle esplosioni di un motore a scoppio che si moltiplicano in senso dinamico e si convertono negli “impulsi” che danno il movimento a un’automobile o a un trattore” (3. La visione dinamica dell’inquadratura, il suo movimento, rende possibile in Ejzenstejn il montaggio, il rapporto conflittuale che nasce all’interno della “cellula di montaggio” per poi esplodere ulteriormente nel rapporto con la nuova “cellula”, la nuova inquadratura. Le tensioni si proiettano dunque “oltre l’inquadratura”, “fuori campo” per poi trovare un necessario aggancio con una nuova cellula, una nuova tensione dinamica pronta ad esplodere.

Affinché il percorso funzioni, naturalmente, c’è bisogno di uno spazio, di un fuori campo appunto, escluso dai bordi dell’inquadratura, verso cui l’inquadratura naturalmente tende; uno spazio vuoto, negativo, rimasto invisibile, uno scarto che non può rimanere tale, non può essere “inquadrato”, ma che si deve tentare di colmare, attraverso un nuovo montaggio (ma che evidentemente non sarà mai colmato fino in fondo).

Dunque, nella prospettiva ejzenstejniana, perché ci sia la possibilità del montaggio (beninteso, un montaggio “organico”, basato sulle leggi dialettiche della crescita e del conflitto (4), ci deve essere uno scarto, una zona esterna all’inquadratura, verso cui gli elementi dell’inquadratura tendono sino allo spasimo.

È proprio nella zona messa in luce da Ejzenstejn, che si colloca uno delle riflessioni più acute di Deleuze sul cinema. In una conversazone pubblicata nei “Cahiers du cinéma” nel 1976, in occasione dell’uscita di Six fois deux, progetto televisivo di Jeal-Luc Godard, Deleuze riapre il problema concettuale del montaggio: “Godard n’est pas un dialecticien. Ce qui compte chez lui, ce n’est pas 2 ou 3, ou n’importe combien, c’est ET, la conjonction ET. L’usage du ET chez Godard, c’est l’essentiel. C’est important parce que toute notre pensée est plutôt modelèe sur le verbe être, EST. La philosophie est encombrèe de discussions sur le jugement d’attribution (le ciel est bleu) et le jugement d’existence (Dieu est), leur réductions possibles ou leur irréductibilité. Mais c’est toujours le verbe être (…). Le ET n’est même plus une conjonction ou une relation particulièrs, il entraîne toutes les relations, il y a autant de relations que de ET, le ET ne fait pas soulement basculer toutes les relations, il fait basculer l’être, le verbe…etc. Le ET, “et…et…et…”, c’est exactement le bégaiement créateur, l’usage ètranger de la langue, par opposition à son usage conforme et dominant fondé sur le verbe être” (5. Ma se, seguendo il ragionamento di Deleuze, ci troviamo di fronte a un percorso di accostamento paritetico secondo la logica dell’ “E” (quindi negando il montaggio come crescita spiraliforme che procede di elemento in elemento), che cosa porta di realmente nuovo questo montaggio per accostamento potenzialmente infinito che Deleuze fa risalire a Godard? “Je croix que c’est la force de Godard, de vivre et de penser, et de montrer le ET d’une manière tres nouvelle, et de le faire opérer activement. Le ET, ce n’est ni l’un ni l’autre, c’est toujours entre les deux, c’est la frontière, il y a toujours une frontière, une ligne de fuite ou de flux, seulement on ne la voit pas, parce qu’elle est le moins perceptible” (6.

Dunque è la frontiera, l’interruzione o la separazione tra i segmenti di montaggio a determinare il senso del rovesciamento rilevato da Deleuze. Riprendendo diversi anni dopo queste riflessioni, Deleuze aggiunge: “Data un’immagine, si tratta di scegliere un’altra immagine che indurrà tra le due un interstizio. Non è un’operazione di associazione, ma di differenziazione, come dicono i matematici, o di “disparazione”, come dicono i fisici” (7. L’accostamento, dice Deleuze, produce un mutamento nell’indice di valore delle immagini, costringendo lo spettatore a porre attenzione proprio a quello che nel saggio di Ejzenstejn costituiva il “fuori” verso cui l’immagine tende: “è il metodo del TRA, “tra due immagini”, che scongiura ogni cinema dell’Uno. È il metodo del E, “questo e poi quello”, che scongiura tutto il cinema dell’Essere=è” (8.

Ejzenstejn e Deleuze si ritrovano allora in questo: il montaggio non può esistere senza una zona di scarto, un “fuori” dell’immagine, senza cui il cinema (il montaggio) non potrebbe esistere. Cambia l’accentuazione (il movimento interno dell’inquadratura in Ejzenstejn, l’interstizio tra due inquadrature in Deleuze), ma il processo ha sempre a che fare con qualcosa che, pur scartato dalla zona di visibilità dell’inquadratura, la fonda e la rende possibile.




Montaggio e scarto


È da questa considerazione che il nostro percorso può svilupparsi, a partire cioè da un elemento costitutivo del cinema che altro non è se non uno scarto, qualcosa che si colloca – all’interno del processo di montaggio – fuori dalla zona di visibilità dell’immagine ma che non smette per questo di operare. Un elemento costitutivo che il cinema non ha mai smesso di indagare e tematizzare, attraverso forme molteplici ed eterogenee, e che cercheremo di sintetizzare tramite esempi concreti, in un percorso trasversale teso ad evidenziare ciò che produce e non smette di produrre fratture ed interstizi nell’apparente fluidità dell’immagine-movimento. Riprendendo l’opposizione (o, per meglio dire, il duplice approccio) esemplificata da Ejzenstejn e Deleuze, se nel primo l’accento è posto sulla possibilità di un montaggio che utilizzi il fuori e lo superi per costruire (o ri-costruire) una superiore e organica unità, nel secondo l’accento è posto proprio sul “fuori”, sull’interstizio, ciò che sta “tra” le immagini, ciò che costituisce il vero nucleo produttivo del montaggio.

Si tratta, in pratica, del riconoscimento di uno stesso processo – la selezione, qualunque ne sia il criterio, dei pezzi di montaggio porta sempre ad uno scarto, ad una eliminazione del superfluo – ma visto da una duplice prospettiva. Il rapporto tra questi due punti di vista è stato analizzato recentemente da Roberto De Gaetano: “Ejzenstejn incarna nel modo più forte il pensiero di una problematizzazione interna alle forme senza che queste ultime si dissolvano, di un’estasi della rappresentazione che comunque va rappresentata, di un’organicità dell’opera che comunque rimane il fondamento ultimo del suo modo di concepirla” (9. La prima prospettiva è quindi quella dell’indagine delle forme, del loro movimento interno e delle loro tensioni, nel tentativo, però, di mantenere intatta la possibilità di comporre in modo organico, secondo le leggi dell’unità della rappresentazione. “Diverso è il discorso per Deleuze. Il centro del suo lavoro sul cinema, nonchè del suo pensiero filosofico in genere, è riassumibile […] nell’idea del superamento della forma della rappresentazione e del principio di identità che la sostiene: il cinema è quella macchina capace di far “affondare” le forme “umane”, psicologiche, selettive, nel grande magma della materia-flusso, o di far emergere le forze pure del tempo, saltando ogni mediazione del movimento (o comunque rendendo quest’ultimo “aberrante”)” (10.

Mantenimento della forma, attraverso l’analisi e il controllo delle sue forze interne, oppure liberazione, dissoluzione della forma (organica) attraverso il riconoscimento delle “forze” che tendono a dissolverne l’unità e la chiusura. È all’interno di questo doppio movimento (doppio paradigma) che un pensiero dello scarto, del rifiuto nel cinema può aver luogo, è ha effettivamente avuto luogo, permettendo quindi una trasversale e debordante analisi di quel cinema che ha pensato l’eccesso, l’eccedente, lo scarto sia dal punto di vista della forma e delle sue tensioni che la portano ed esplodere estaticamente, ad andare al di la di se stessa (Ejzenstejn), sia dal punto di vista di quel cinema che ha lavorato sulla dissoluzione totale della forma, a favore di uno scarto, invisibile, irrappresentabile, ma unico senso possibile del cinema (Deleuze).

Ecco dunque i vari livelli attraverso cui un pensiero dello scarto nel cinema ha avuto (può avere) luogo.




Primo livello del rifiuto: l’osceno come eccedenza

Il primo livello del rifiuto, dello scarto come elemento fondante il movimento stesso del cinema, avviene tutto all’interno del paradigma ejzenstejniano; riguarda cioé l’ossessione scopica del vedere l’irrappresentabile, ciò che esce fuori dai confini della messa in scena, della scena vera e propria, l’osceno appunto.

Nella riflessione baziniana sul cinema, l’oscenità riguarda un doppio interdetto che il cinema – ontologicamente – ha la possibilità di non osservare: quello riguardante la possibilità di rappresentare l’amore e la morte: “L’uno e l’altro sono alla loro maniera la negazione assoluta del tempo oggettivo: l’istante qualitativo allo stato puro. Come la morte, l’amore si vive e non si rappresenta – non è senza ragione che lo si chiama la piccola morte – o almeno non lo si rappresenta senza violazione della sua natura. Questa violazione si chiama oscenità. La rappresentazione della morte reale è anch’essa un’oscenità, non più morale come nell’amore, ma metafisica. Non si muore due volte […]. Prima del cinema si conosceva solo la profanazione dei cadaveri e la violazione delle tombe. Grazie al film, si può violare oggi ed esporre a volontà il solo nostro bene temporalmente inalienabile. Morti senza requiem, eterni ri-morti del cinema!” (11.

Grazie alla ripetizione (12 del cinema, l’oscenità è divenuta possibile, entra di fatto nelle pratiche estetiche del Novecento. Ciò che non era possibile mostrare, ciò che era necessario scartare ora è parte integrante dell’immagine. Ben presto, l’orizzonte entro il quale si muoveva la lettura fenomenologica di Bazin si mostrerà più ampio e sfaccettato: l’osceno divenerà uno dei territori più costantemente – anche se in modo sotterraneo – tentati dal cinema (e non solo o non tanto nel cinema pornografico, dove sono in gioco altri movimenti), nel momento in cui si comincerà a considerare l’osceno come ciò che sta “fuori dalla scena”, apparentemente relegabile nell’ambito del privato e in realtà parte integrante del flusso delle immagini della contemporaneità.

Infatti, ciò che faceva dire a Bazin che il cinema inaugurava una pratica dell’oscenità era la posizione ambigua del cinema nell’ambito della rappresentazione estetica, la morte (reale e ripetibile) al cinema non è evocata, ma ripetuta meccanicamente, esibita con la visione degli stessi corpi che l’hanno vissuta. Oscena è anzitutto l’esibizione dei corpi privi di quella distanza rappresentativa tipica della pittura, della scultura e finanche del teatro. Oscena, si potrebbe dire estremizzando le conseguenze dell’affermazione baziniana, è anzitutto l’esibizione del corpo reale.

Il corpo, la sua “oscena” verità, attraversa trasversalmente la storia del cinema, proprio come enigma, realtà che eccede la rappresentazione. In Freaks di Todd Browning (1932), gli artisti del circo, i “fenomeni della natura”, sono interpretati da veri “freak”, nani, gemelle siamesi, donne senza braccia, uomini ridotti a una testa e un tronco. La loro esibizione sullo schermo rompe il patto implicito della rappresentazione, quello che ha bisogno di un attore che “reciti” il suo ruolo, ma che non “sia” il suo ruolo. Il massimo della finzione immateriale (il cinema non è che percezione di immagini proiettate da un fascio di luce), si coniuga con lo “scandalo” della “realtà” di quei corpi.

Ecco dunque la dialettica sottile che attraversa in forma sotterranea il cinema: l’eccedenza del corpo, il ritorno di ciò che viene in un primo momento rifiutato, di quel residuo ineliminabile che è parte integrante del meccanismo cinematografico, riemerge con forza a tratti, spesso trasformando il cinema, portandolo verso nuove direzioni. Il Neorealismo (oltre che verso una situazione ottica pura, secondo la definizione di Deleuze), e in particolare Rossellini, ha esplorato questo territorio, immettendo il corpo nell’immagine, come scandalo e oscenità. Tutto il cinema di Rossellini, in fondo, può essere visto come esplorazione di ciò che ferisce l’occhio (13, di ciò che fuoriesce dai canoni comuni della rappresentazione. In Stromboli (1949), mentre Ingrid Bergman guarda divertita il fondo del mare, il guardiano del faro le mostra – mettendolo davanti ai sui occhi – un polpo appena pescato dal mare. La visione improvvisa fa perdere l’equilibrio a Karin/Bergman che cade in acqua. La scena, insieme a molte altre, non è che l’anticipazione di quello scandalo della visione che è la mattanza dei tonni, quando Karin è sconvolta dal rituale antico e crudele dei tonni imprigionati nelle reti, arpionati e issate sulle barche dai pescatori che cantano all’unisono.

L’improvviso emergere del corpo reale fa letteralmente “perdere l’equilibrio”, porta l’immagine a vibrare della sua costitutiva ambiguità. A Rossellini (e a questo film in particolare) l’allora giovane critico Eric Rohmer, dedica più di una pagina sui “Cahiers du cinéma”: Rohmer riconosce a Rossellini il merito di aver offerto una possibilità in più allo sguardo attraverso il cinema: “è successo durante i primi minuti di proiezione, mi sono reso pienamente conto dei limiti di quel realismo sartiano in cui credevo che il film avrebbe finito per rinchiudersi. Ho detestato lo sguardo che mi invitava a posare sul mondo, prima di capire che mi invitava anche a superarlo. E allora ho avuto la conversione. È questo che è straordinario in Stromboli, questa è stata la mia via di Damasco. A metà film ero già convertito. E ho cambiato ottica” (14.

Ciò che Rohmer sottolinea qui è l’importanza di un movimento, quello dello sguardo: il cambiare ottica è qui inteso come movimento, spostamento dello sguardo; è ciò che permette al soggetto di oltrepassare la percezione consueta del reale, proprio grazie alla visione di quel rimosso che riemerge all’improvviso, spesso attraverso un gesto inconsulto, rapido ed imprevisto. Più di cinquant’anni dopo, lo stesso Rohmer si ricorderà di quel tremore che aveva fatto perdere l’equilibrio a Karin, ripetendolo ne La nobildonna e il duca (2000), nel momento in cui la nobildonna inglese attraversa le vie di Parigi in fermento e un popolano le mostra all’improvviso la testa di una nobile appena decapitata. Anche qui lo sguardo fa perdere l’equilibrio, modificando però il quadro di riferimento. Se, infatti, Stromboli si poneva come superamento dei limiti del Neorealismo, facendo del reale il mistero più assoluto, in cui rossellinianamente convivono immanenza e trascendenza, La nobildonna e il duca, al contrario, si svolge in un ambiente, in un paesaggio totalmente ricreato in post-produzione, esistente solamente sullo schermo. I personaggi del film – ambientato durante la Rivoluzione francese – si muovono in uno scenario virtuale, con fondali disegnati o ricreati al computer. Non è un caso che proprio qui Rohmer recuperi il gesto rosselliniano: l’emergere del rimosso ha un significato completamente diverso in un film dove è la Storia stessa (la rivoluzione francese vista attraverso gli occhi della nobile scozzese Grace Elliott) a diventare costruzione soggettiva, finzione che si pretende vera.

Il paragone Rossellini/Rohmer ci introduce ad una idea complessa del rapporto tra il residuo ineliminabile con cui il cinema ha sempre a che fare (il reale, la materia) e il montaggio come costruzione di un flusso che è sempre finzionale. La complessità risiede soprattutto nel fatto che si tratta di un rapporto delicato e ambiguo, che può rovesciarsi all’improvviso da una parte o dall’altra.

L’ambiguità del rapporto emerge con un’evidenza assoluta quando il cinema pretende di anestetizzare, estetizzare l’irrompere dell’inatteso, dell’irrappresentabile. Quando ciò accade, quella che è in gioco è la moralità dello sguardo e del cinema. A questo proposito rimane famosa una frase di Godard: “les travellings sont affaire de morale” (i movimenti di macchina sono una questione di morale); frase che, con la sinteticità paradossale tipica del linguaggio godardiano, indica un aspetto fondamentale: una scelta estetica non è mai neutra, ma implica una posizione precisa dello sguardo, una posizione che è prima di tutto morale e poi politica. Nel 1961, sulle pagine dei “Cahiers du cinéma” uscì, a firma di Jacques Rivette (all’epoca redattore della rivista), un articolo dal titolo De l’abjection: l’articolo era una recensione del film Kapò di Gillo Pontecorvo, film ambientato all’interno di un campo di concentramento nazista durante la seconda guerra mondiale. In una scena centrale del film, una prigioniera, interpretata da Emmanuelle Riva, si getta contro il filo spinato elettrificato che circonda il campo, seguita dalla macchina da presa che, immobile, la mostra prima di spalle mentre si avvia verso il filo spinato e poi lateralmente, mentre si avvia verso la morte. Nel momento della morte, l’inquadratura cambia punto di vista, e la macchina da presa è piazzata dall’altra parte del reticolato. Il corpo di Emmanuelle Riva è immobile, ancora attaccato al filo spinato. La macchina da presa si sposta in avanti ed inquadra in primo piano il volto della prigioniera morta.

È questa scena che è al centro dell’articolo di Rivette: “vedete dunque in Kapò, il piano dove Riva si suicida, gettandosi contro il filo elettrificato: l’uomo che decide, in quel momento, di fare un carrello avanti per inquadrare il cadavere dal basso verso l’alto, avendo cura di inserire la mano rimasta in alto esattamente in un angolo dell’inquadratura, quest’uomo non ha diritto che al più profondo disprezzo” (15.

Filmare è prendere posizione, scegliere cosa mostrare e cosa scartare, e perché. Mostrare, dunque, o non mostrare, si rivela essere un problema morale, un problema che riguarda, ancora una volta, la dialettica sempre aperta del montaggio come scarto e selezione.

Anche qui, come in Bazin, la morte (la sua rappresentazione, la sua ripetizione, la sua estetizzazione) diventa il luogo d’indagine delle possibilità espressive del cinema. Ma l’accento, al contrario che in Bazin, qui è posto sulla costruzione artificiale dello sguardo, sul cinema come voyeur, come sguardo che “oscenamente” mette in scena tutto.

Da questo primo livello, da questo primo (e lacunoso, ovviamente) excursus, ciò che è emerso riguardava soprattutto le potenzialità del cinema in quanto dispositivo di selezione (montaggio), di scarto del superfluo (atto che pone il problema morale ed estetico insieme di cosa debba considerarsi superfluo), di selezione ed eliminazione (16 del fuori campo, di ciò che, per motivi di economia narrativa, di teoria del montaggio o di moralità della visione deve rimanere non visibile. Ma c’è un secondo livello del rifiuto, che riguarda la possibilità di “ripetere” ciò che è già stato visto, già passato e condannato magari ad essere dimenticato. È la possibilità per l’immagine di uscire dal circuito del consumo e di essere – in molteplici sensi – ripresa.




Secondo livello del rifiuto: pratiche del riciclaggio.


“Ripetere” l’immagine, o riprenderla, trasformare lo scarto in nuova immagine, concentrare l’attenzione su ciò che sta “tra” le immagini; questo secondo livello del rifiuto si colloca all’interno del paradigma deleuziano e costituisce un percorso quanto mai complesso all’interno del cinema contemporaneo. Il primo gesto significativo in questa direzione lo ha forse compiuto Andy Warhol, esasperando la propensione all’osservazione del reale (che è uno degli aspetti fondanti del cinema), fino a raggiungere livelli di totale astrazione: “Il cinema di Warhol nasce proprio da una propensione quasi maniacale all’osservazione. Osservare la realtà (o una parte di essa) in maniera ostinata e persistente può portare a uno svuotamento della realtà stessa e dei suoi contenuti. Lo sguardo fisso, prolungato, ostinato, della macchina da presa produce una serie di mutazioni progressive nella percezione dell’oggetto osservato, che da reale si trasforma in iperreale, sfuma lentamente nel surreale e, in taluni casi, finisce addirittura col diventare astratto” (17. Il movimento messo in atto nel cinema di Warhol – stiamo pensando soprattutto al periodo del cinema muto (o silenzioso) dell’artista newyorkese, quello che va dal 1963 al 1965 – è un movimento automatico, determinato sostanzialmente dal dispositivo filmico inteso come dispositivo privo di sguardo, privo cioè del soggetto che ne orienta il punto di vista e il movimento.

Per dirlo in altre parole, le otto ore che costituiscono Empire (1964), sono possibili perché l’atto che dà origine al film è semplicemente quello di posizionare la macchina da presa sul tetto di un grattacielo adiacente all’Empire State Building. Il risultato non dipende tanto dal controllo di Warhol della ripresa (il regista scendeva dal tetto e tornava solo ogni tanto a cambiare la bobina, lasciando perciò andare il dispositivo di ripresa), ma dalla fissità di uno sguardo inconsapevole (a parte, lo si è detto, nel momento di posizionare la macchina da presa), fissità che nega il montaggio, anzi, lo annulla come principio filmico: “L’osservazione prolungata di un soggetto o di un’azione a macchina fissa cancella in un colpo solo tutta la struttura sintattica e “grammaticale” faticosamente sviluppatasi in sessanta o settanta anni di cinema. Niente drammatizzazioni né sviluppi cronologici. Niente tagli o montaggi. Una ripresa cinematografica che, ancora una volta, trova i suoi principali significati non tanto in se stessa, quanto nell’idea che l’ha generata…” (18

Il lavoro di Warhol nel cinema costituisce una straordinaria indagine “in negativo” sul suo linguaggio. La “negazione”, risiede nella possibilità di analizzare un linguaggio negandone o annullandone i principi sintattici e grammaticali (19. In particolare, ciò che viene annullato nella warholiana ripresa fissa ed ipperreale, è la possibilità dello stacco di montaggio, vale a dire appunto dello scarto come possibilità di organizzazione narrativa dell’immagine, la sua concatenazione con un’altra immagine nel flusso del montaggio. La negazione dello stacco (dello scarto) nega totalmente il linguaggio del cinema come organizzazione del materiale filmato da parte di un soggetto consapevole. La macchina da presa si rivela un dispositivo automatico, l’immagine un prodotto meccanico, un’immagine senza sguardo. Warhol rovescia il processo dall’esterno, usando un automatismo (quello dello sguardo senza soggetto della machina da presa), per annullarne un altro (i codici ormai automatici del linguaggio cinematografico).

In un certo senso, è proprio a partire dalla sua estraneità al cinema, che Warhol può arrivare ad indagarne così in profondità i meccanismi e i principi teorici. L’estraneità, la non-appartenenza alla storia del cinema sono allora l’unica possibilità di analisi teorica del cinema stesso? È questo forse il gesto che origina un’altra straordinaria riflessione sullo scarto e sul rifiuto che, se ci si permette il gioco di parole, non “appartiene” al cinema, ma “si tiene a parte” di esso: Verifica incerta, di Grifi/Baruchello (1963-1964).

Il progetto Verifica incerta nasce dall’incontro tra Gianfranco Baruchello, artista contemporaneo e Alberto Grifi, filmaker sperimentale. Venuti in possesso di una serie di pellicole in positivo, tutte appartenenti alla produzione media hollywoodiana e pronte al macero per il cattivo stato in cui erano ridotte, i due acquistano per pochi soldi il materiale e iniziano un lungo lavoro di smontaggio e rimontaggio del materiale, da cui emerge Verifica incerta, film che è e non è allo stesso tempo un film: “la Verifica è un film fatto di spezzoni di pellicola già esistente; non inventa uno script; non possiede una sceneggiatura. Questo film articola il problema del tempo e del movimento con quello dell’immagine secondo un sistema che non è interno alle scene, ma esterno: ovvero, è il procedimento stesso di selezione, scarto, ricomposizione del film che si fonda su una particolare concezione di tempo: come ritmo, come interruzione e ripresa, come attesa, come distanza, in quanto le immagini/fotogrammi della verifica sono immagini già fatte e quindi, prelevandole e riproponendole in un diverso ordine e montaggio, prendono le distanze da ciò che erano e da ciò che significavano per assumere altro senso e altro significato […]. Nella Verifica il tempo è ritmo, dispositivo che spezza la linearità della narrazione, del senso, dell’attesa che arriva a un esito, mettendo fuori gioco la stessa dimensione spaziale dell’immagine, la sua fisionomia, riassorbite in un vorticoso giustapporsi che non lasciava spazio alla singola riconoscibilità” (20.

Il corto circuito a cui il film prepara sta proprio nell’attesa dello spettatore che si (ri)trova di fronte a delle immagini potenzialmente già viste, ma riconcatenate secondo criteri che fuoriescono dalla pratica e dalla teoria canoniche del montaggio. Ancora una volta (come in Warhol, ma seguendo un altro tipo di percorso), la mise en abîme del cinema e del suo meccanismo ne svela la valenza costruttiva, quelli che seguendo la suggestiva analogia agambeniana, sono i trascendentali del cinema: l’arresto e la ripetizione.




Al di là del montaggio


Ecco dunque configurato, pur attraverso esempi minimi (che potrebbero moltiplicarsi sino ad abbracciare quasi tutta la storia del cinema), il doppio livello entro il quale il montaggio (carattere più proprio del cinema) si rovescia, mostrando il suo lato invisibile, lo scarto a partire dal quale il cinema stesso – come macchina del visibile – è reso possibile.

Proprio per quanto si è detto finora, il doppio paradigma (ejzenstejniano-deleuziano) si ripercuote dunque all’interno di una considerazione del cinema come dispositivo di pensiero, gesto filosofico. Lo scarto, l’arresto, la ripresa e la ripetizione, non sono semplicemente tecniche di montaggio, ma acquistano nuovi significati, nuove potenzialità di utilizzo.

È, in fondo ciò che è implicitamente contenuto nelle riflessioni di Agamben sul cinema, riflessioni che, come raramente accade da parte di filosofi che si interessano di cinema, non tendono a ritrovare una qualità filosofica nelle immagini (o peggio ancora, nei contenuti) di un film, ma riflettono sulla possibilità di utilizzare il cinema come dispositivo intrinsecamente filosofico, come macchina che “cinematizza” la filosofia. Parlando del cinema di Guy Debord, altro grande esploratore “in negativo” del cinema, Agamben riflette su alcuni degli elementi teorico-pratici del cinema su cui Debord (e con lui Godard, nonostante l’antica rivalità) ha lavorato, non inventandoli, ma semplicemente portandoli alla luce: “Che il carattere più proprio del cinema sia il montaggio è, ormai un luogo comune. Ma che cos’è il montaggio, o piuttosto, quali sono le condizioni di possibilità del montaggio? In filosofia da Kant in poi, le condizioni di possibilità di qualcosa si chiamano “trascendentali”. Quali sono allora i trascendentali del montaggio? Due e due soltanto: la ripetizione e l’arresto. […] Che cos’è una ripetizione? Ci sono nella modernità quattro grandi pensatori della ripetizione: Kierkegaard, Nietzsche, Heidegger e Gilles Deleuze. Tutti e quattro ci hanno mostrato che la ripetizione non è il ritorno dell’identico, lo stesso che fa ritorno come tale. La forza e la grazia della ripetizione, la novità che essa ci dona, è il ridiventar possibile di ciò che è stato. […]. Di qui la prossimità tra ripetizione e memoria. La memoria non può restituirci il passato semplicemente così come è stato, come un fatto inerte (questo sarebbe propriamente infernale). La memoria restituisce al passato la sua possibilità. […] La memoria è per così dire l’organo di moralizzazione del reale, che può trasformare il reale in possibile e il possibile in reale. Basta riflettere un secondo per rendersi conto che questa è anche la definizione del cinema. (…). Si capisce allora perché lavorare con le immagini può avere una tale importanza storica e messianica: perché è un modo di proiettare la potenza e la possibilità verso ciò che è per definizione impossibile, verso il passato” (21.

Agamben, ponendo l’attenzione sul rapporto tra ripetizione e memoria, evidenzia, ponendosi sulla linea di Deleuze e soprattutto di Bazin (ripensando alle riflessioni di quest’ultimo sulla ripetizione nel cinema), l’elemento destabilizzante e teorico del cinema, proprio nel momento in cui il dispositivo cinematografico inizia – consapevolmente – a lavorare su se stesso, ripetendosi, utilizzando le sue zone d’ombra (che sono anche, utilizzando la terminologia di Agamben, le sue condizioni di possibilità).

Ma il discorso di Agamben continua, perché: il “secondo elemento, la seconda condizione trascendentale del cinema, è l’arresto. È il potere d’interrompere, l’interruzione rivoluzionaria di cui parlava Benjamin. È molto importante, nel cinema, ma, ancora una volta, non solamente nel cinema. È ciò che distingue il cinema dalla narrazione, dalla prosa narrativa, con la quale si tende spesso a confonderlo. L’arresto ci mostra, al contrario, che il cinema è più vicino alla poesia che alla prosa. I teorici della letteratura hanno sempre incontrato difficoltà nel definire la differenza tra prosa e poesia. Molti degli elementi che sembrano caratterizzare la poesia possono in realtà trovarsi anche nella prosa […]. La sola cosa che si può fare nella poesia e non nella prosa, sono gli enjambements e le cesure. Il poeta può opporre un limite sonoro, metrico, a un limite sintattico e semantico. Non si tratta solo di una pausa, ma di una coincidenza, di una disgiunzione tra il suono e il senso. È per questo che Valery ha potuto dare una volta questa straordinaria definizione della prosa: “La poesia: un’esitazione prolungata tra il suono e il senso”[…]. Riprendendo la definizione di Valery, si potrebbe dire del cinema, almeno di un certo cinema, che esso è un’esitazione prolungata tra l’immagine e il senso. Anche qui non si tratta di una pausa, quanto di una potenza di arresto che lavora dall’interno dell’immagine stessa, la sottrae al contesto narrativo per esporla in quanto tale” (22.

In questa seconda parte del discorso, parlando dell’arresto come “trascendentale” del cinema, nelle parole di Agamben riecheggia l’idea ejzenstejniana dell’inquadratura come “cellula” di montaggio, il cui conflitto interno determina la necessaria fuoriuscita dai confini del “quadro” (Ejzenstejn), o la sua potenza di non, la possibilità della sua (inaspettata) conclusione (Agamben).

Il cinema lavora, mette in pratica concetti che attraversano ossessivamente il Novecento, e si mostra sempre più come macchina concettuale, automatica o legata ad un soggetto (che forse scopre così il suo automatismo). La ripetizione e l’arresto attraversano dunque tutta la storia del cinema (e della filosofia) come problemi teorici fondamentali, in cui l’elemento comune sta proprio nell’idea (e nella pratica) di un rimontaggio continuo (forse potenzialmente infinito), in cui nulla è mai veramente uno scarto.

1 Il titolo originale, Za Kadrom, significa letteralmente “oltre l’inquadratura”, ma il saggio, scritto nel 1929 come introduzione è stato così tradotto e pubblicato in S.M. Ejzenstejn, Il montaggio, Marsilio, Venezia 1986.

2 È, cioè, un periodo di forte ricerca e scambio teorico, iniziato alla fine degli anni Venti e culminato con la famosa “autocritica” del 1935.

3 S.M. Ejzenstejn, Fuori campo, in Il montaggio, cit., p. 12.

4 Tralasciamo qui, perché esula dai fini di questo lavoro, l’originale, e assolutamente eterodossa, lettura della dialettica materialistica da parte di Ejzenstejn.

5 G. Deleuze, Trois questions sur “Six fois deux”, in “Cahiers du cinéma”, n. 271, 1976, p, 11.

6 Ivi, p. 12.

7 G. Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milan 1989, p. 201.

8 Ibidem

9 R. De Gaetano, Teorie del cinema in Italia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, p. 106.

10 Ivi, p. 107.

11 A. Bazin, Morte ogni pomeriggio (1949-1951), in Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano, p. 32.

12 L’insistenza sulla valenza ripetitiva del cinema è solo uno degli elementi di raccordo tra Deleuze e Bazin, essendo ormai evidente (nei due libri sul cinema) l’influenza del secondo sul primo.

13 Basta pensare a tutto il lavoro di Rossellini con Ingrid Bergman, sublime “sguardo sconvolto” del cinema moderno, oppure al Rossellini televisivo, la cui apparente distanza pedagogica non impedisce allo spettatore di sentire Cartesio, Socrate, Agostino e Pascal, come “incarnazioni” cinematografiche, corpi del pensiero.

14 E. Rohmer, Roberto Rossellini: Stromboli, in Le gout de la beauté, éd. de L’Etoile, Paris 1984, pp. 135-138.

15 J. Rivette, De l’abjection, “Cahiers du cinéma”, n. 121, 1961.

16 Interessante il fatto che dal punto di vista linguistico, il montaggio mantenga a volte questo doppio significato di scarto e selezione; ad esempio in inglese, dove si distingue in cutting (taglio), e editing (selezione e articolazione del materiale scelto). Per montage, invece, si intende il concetto del montaggio dal punto di vista teorico.

17 A. Tedesco, Underground e trasgressione, il cinema dell’altra America in due generazioni, Castelvecchi, Roma 2000, p. 41.

18 Ivi, pp. 41-42.

19 Usiamo qui i termini “sintattici e grammaticali” per pura comodità d’esposizione, senza voler fare assolutamente del cinema una lingua dotata degli stessi elementi di una lingua parlata.

20 C. Subrizi, Verifica incerta. L’arte oltre i confini del cinema, DeriveApprodi, Roma 2004, p. 26.

21 G. Agamben, Il cinema di Guy Debord, in Guy Debord (contro) il cinema, a cura di E. Grezzi, R. Turigliatto, Il Castoro, Milano 2001, pp. 104-105.

22 Ivi, p. 106.

 

 

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