Le rovine di Benjamin
        
          
          di Bruno Moroncini
         
         
          
            Così immediate le rovine 
              Da assomigliare alla certezza dell'amore.
              Vladimir Holan 
          
        
        
        I)
        Per 
          il lettore esperto di filosofia e profondo conoscitore della produzione 
          benjaminiana il significato del titolo che ho scelto per questo contributo 
          sul tema più generale delle rovine risulta semplice e immediato: 
          ‘Le rovine di Benjamin’ indica e compendia il ruolo e la 
          presenza del concetto di rovina all’interno della riflessione 
          benjaminiana, la sua appartenenza ad una costellazione ideale di cui 
          fanno parte i concetti affini di reliquia, ricordo, torso, frammento, 
          scarto e rifiuto. Risponde alla domanda: che cosa ha pensato Benjamin 
          pensando la rovina(1 ?
        Per 
          il lettore ingenuo, invece, anche se non per questo meno acuto, un sintagma 
          come ‘Le rovine di Benjamin’ potrebbe risuonare alla stessa 
          stregua di un’espressione come ‘Le rovine di Pompei’, 
          oppure di una frase in cui si constati che quest’anno, a primavera, 
          ho fatto un viaggio in Grecia per andare a vedere le rovine dell’Acropoli 
          di Atene. In questo caso ‘Le rovine di Benjamin’ vorrebbe 
          dire: di Benjamin, della sua vita, nonché della sua opera, 
          restano rovine e riflettere su Benjamin, interpretarlo o più 
          semplicemente ricostruirne i tragitti esistenziali e/o le elaborazioni 
          concettuali, significa aggirarsi in mezzo ad un agglomerato di rovine. 
           
        Non 
          so se abbia forza di legge, ma sono egualmente convinto della verità 
          iscritta nella tesi secondo la quale per poter pensare la rovina, per 
          poter elevare questo concetto empirico al rango di una categoria, sia 
          necessario esporre se stessi ad un divenir-rovina, sottomettersi ad 
          un processo rovinoso, esperire infine su se stessi gli effetti malinconici 
          derivanti dallo scoprire che il proprio statuto soggettivo possiede 
          la consistenza di ciò che resta di una dissoluzione(2. 
          Questa tesi verrebbe confermata d’altronde dalla profonda revisione 
          che negli anni venti - gli stessi della formazione e della prima produzione 
          di Benjamin – viene condotta della dottrina delle categorie soprattutto 
          da Heidegger nel seminario sulle interpretazioni fenomenologiche di 
          Aristotele. Se, come dice Heidegger, le categorie il cui scopo è 
          quello di esprimere e interpretare la vita non sono né «una 
          distorsione dello spirito» o «una fantasticheria della vita 
          e del pensiero elevata a principio» e neppure «dei semplici 
          dati accidentali banalmente constatabili», ma «sono in vita 
          nella propria vita concreta», «in vita nella fatticità»(3, 
          se cioè le categorie prima di darsi nel e attraverso il pensiero, 
          si danno nella e attraverso la vita, da cui solo in un secondo momento 
          e a forza di riflessione vengono estratte ed isolate, allora anche la 
          rovina – che non lo si dimentichi è una delle categorie 
          individuate anche da Heidegger(4 
          - prima di essere un costrutto del pensiero è una forma-di-vita, 
          una forma certo a rischio costante dell’informe, ma pur sempre 
          una forma, ossia un modo originale, in carne ed ossa si potrebbe dire, 
          con cui la vita concreta, la vita nella sua fatticità, si articola 
          e diviene.  
        
        
        
        
        II)
        Di 
          quest’intuizione, presente già nel mio primo libro su Benjamin, 
          per la quale anche il testo di Benjamin è rovina, «fa parte 
          di quell’ammasso di macerie che nelle Tesi l’Angelo 
          trascina via con sé, mentre una tempesta lo travolge suo malgrado»(5, 
          ho trovato una conferma in un libro recente di Jean-Claude Milner dal 
          titolo inquietante e scandaloso, Les penchants criminels de l’Europe 
          démocratique. Non ricostruirò qui tutte le argomentazioni 
          di questo libro duro e sgradevole per una certa ideologia europeista 
          che contrappone il vecchio continente democratico, pacifista e solidarista 
          al nuovo dispotico-imperiale, bellicista e individualista. Per dirla 
          in breve, l’inclinazione criminale dell’Europa democratica 
          consisterebbe nella sua mai superata voglia di sterminio nei confronti 
          degli ebrei: il problema rappresentato dall’esistenza del nome 
          ebraico (il nome ‘ebreo’ e il nome di ‘ebreo’) 
          non sarebbe stato risolto dall’ecatombe dei campi di concentramento, 
          la ‘soluzione finale’ si sarebbe, ‘purtroppo’, 
          rivelata solo transitoria. Per l’Europa uscita dalla rivoluzione 
          francese e avviata da allora sul cammino del liberalismo e della democrazia, 
          la presenza, dentro i suoi confini, al di fuori sui suoi bordi interni/esterni, 
          e anche lontano nel mondo, degli ebrei, è un problema che deve 
          essere risolto ad ogni costo, anche delegandolo, se ciò fosse 
          necessario, a qualcun’altro, oggi per esempio agli arabi. Ma perché 
          per l’Europa il nome ebraico è qualcosa di talmente irricevibile 
          al punto da costituire, più che una domanda alla quale è 
          sufficiente trovare una risposta – come, secondo Milner, in Sartre 
          per il quale tutta la questione si risolve rispondendo al quesito: ‘come 
          è possibile un antisemita?’ –, un problema o, come 
          si direbbe oggi, un’emergenza, come l’aumento dei reati 
          contro il patrimonio o un’influenza particolarmente virulenta 
          o ancora una proliferazione d’insetti nocivi, i quali, una volta 
          che siano stati individuati, non possono che richiedere urgentemente 
          una soluzione, pena la messa a rischio del benessere di tutti? Proprio 
          per il fatto che l’Europa, da Aristotele in poi, pensa se stessa, 
          gli stati che di volta in volta la compongono, i popoli che la formano 
          e le società, i gruppi e le classi che ne costituiscono l’articolazione, 
          come delle totalità chiuse e compatte, come appunto dei ‘tutti’ 
          che non ammettono disseminazione e illimitatezza.  
        Detto 
          in altro modo, l’Europa conta se stessa, a qualunque livello di 
          complessità sociale e politica – società civili, 
          stati-nazione, Unione europea – avvenga la valutazione, sempre 
          come un’unità, come un tutto ordinato e gerarchizzato e 
          attribuisce di conseguenza alla sfera della politica il compito di porre 
          un limite a quello che le appare come il più grave attentato 
          alla consistenza dei popoli e delle società, appunto la disseminazione, 
          l’impossibilità di riunire in un insieme tutti gli elementi 
          fluttuanti, contraddittori e dispersi che ne fanno parte. Forte della 
          teoria degli insiemi di Georg Cantor che postula, accanto agli insiemi 
          consistenti che si contano per uno, quelli inconsistenti che sono illimitati 
          e della teoria lacaniana del pastout, del non tutto, che sulla 
          scia di Cantor serve a Lacan per determinare logicamente l’insieme 
          delle donne, Milner dimostra che gli ebrei sono da sempre un pastout, 
          una realtà disseminata, che nemmeno all’apice dell’assimilazione 
          è potuta diventare una ‘parte’ di un tutto ordinato 
          e limitato. Il nome ‘ebreo’ rappresenta dunque nella e per 
          la storia europea-occidentale uno scandalo insopprimibile e per ciò 
          stesso un problema da risolvere: l’esistenza dell’ebreo 
          è un attentato continuo all’identità europea. Per 
          questo va estirpata.
        Paradossalmente 
          il ‘problema’ ebraico si è acuito proprio con la 
          diffusione della forma di governo democratica per il fatto che quest’ultima 
          è l’opzione politica che più di ogni altra corrisponde 
          a delle società – civili si sarebbe detto una volta – 
          che, essendosi emancipate dalle relazioni di potere tradizionali, avendo 
          dissolto i corpi intermedi e distrutta ogni gerarchia sociale, politica 
          e culturale, essendo divenute insomma an-archiche, ossia prive di archè, 
          di un’origine temporale e di un principio d’ordine, sono 
          di fatto degli insiemi inconsistenti, delle realtà illimitate(6. 
          Da qui, secondo Milner, due declinazioni della democrazia: quella europea 
          che tenta di dividere e di scindere società e politica facendo 
          in modo che la seconda ponga limiti alla prima, e quella americana che, 
          al contrario, tende a dissolvere la politica nella società. Da 
          qui anche due posizioni differenti rispetto al nome ebraico, che per 
          l’Europa, nonostante la, o a causa della, gigantesca denegazione 
          susseguente allo sterminio, resta un problema da risolvere(7, 
          mentre per gli Stati Uniti, come d’altronde per il mondo arabo 
          per il quale l’antisemitismo è una merce d’importazione, 
          ovviamente europea, è soltanto uno degli elementi della politica 
          mondiale. Se ne deduce allora che fin quando l’Europa vedrà 
          con preoccupazione, se non con vera e propria angoscia, l’avanzare 
          dell’illimitato e tenterà di contrastarlo con una politica 
          dei limiti spacciata per democrazia, le sue tendenze criminali non solo 
          non subiranno alcun arretramento, ma anzi s'intensificheranno fino all’esplosione.
         
          è in questo contesto che 
          compare nell’argomentazione di Milner il riferimento alle Tesi 
          sul concetto di storia e in particolare alla IX, quella appunto 
          segnata dall’immagine dell’Angelo della storia davanti al 
          quale si accumula un immenso ammasso di macerie (Trümmer). 
          Chi è l’Angelo e che cosa sono queste macerie presso le 
          quali egli vorrebbe trattenersi per «destare i morti e riconnettere 
          i frantumi»(8? 
          Nell’Angelo, scrive Milner, «che contempla volto all’indietro 
          un ammasso di rovine», «si riconosce Benjamin rivolto verso 
          le rovine metonimiche di un solo oggetto, innominato: la persistenza 
          del nome ebraico, con lo studio per supporto»(9. 
          Per comprendere questo difficile enunciato, proviamo a partire dalla 
          fine: dal momento in cui uno stato ebraico cessò di esistere 
          definitivamente, si pose il problema del modo con cui un’identità 
          ebraica avrebbe potuto sopravvivere in una situazione caratterizzata, 
          non solo dalla perdita di un potere politico autonomo, ma anche dalla 
          dispersione territoriale, cioè dalla diaspora. La risposta che 
          risultò vincente fu quella farisaica consistente nella sostituzione, 
          nella metonimia appunto, dell’identità politica con quella 
          religioso-culturale, della sovranità politica con lo studio della 
          Torah. Il nome ebraico sarebbe sopravvissuto nascosto sotto lo 
          studio. Successivamente quando comincia il processo dell’emancipazione 
          che culmina nell’assimilazionismo allo studio farisaico della 
          Legge si sostituisce quello della cultura europea: il nome ebraico si 
          confonde con la tradizione umanistica e l’emancipazione politica 
          dell’ebreo fa tutt’uno, stando al Marx della Questione 
          ebraica, con l’emancipazione dell’uomo dal dominio borghese 
          del denaro. Alla fine sembra che l’ebreo non esista più: 
          si è dissolto nell’umanità generica che nel momento 
          in cui ne è la tomba ne è anche la resurrezione. Il vero 
          ebreo è il non più ebreo(10.
        Da 
          questo punto di vista, Benjamin sembra, almeno in parte, un perfetto 
          esempio di questo processo di rimozione, operato attraverso spostamento, 
          del proprio nome ebraico: politica rivoluzionaria e letteratura, impegno 
          e studio, Brecht e Scholem, Marx e Baudelaire, Unione Sovietica e Francia, 
          sono i termini di una sintesi che Benjamin ha incessantemente tentato 
          di raggiungere nel corso della sua vita e del suo lavoro intellettuale, 
          dovendone constatare a più riprese lo scacco fino al crollo rovinoso 
          testimoniato dalle Tesi. Contro una tesi storiografica ampiamente 
          accreditata che vede in Benjamin un conflitto non risolto fra teologia 
          (Scholem) e politica (Brecht), la posizione di Milner situa più 
          correttamente il dissidio fra le soluzioni immaginarie offerte dalla 
          politica e dallo studio filosofico-letterario e il reale di un nome: 
          il nome ebraico di Walter Benjamin(11. 
          La cui persistenza metonimica finisce per imporsi mandando in rovina 
          tutti i tentativi di occultarlo, farlo dimenticare, o definitivamente 
          estirparlo, che gli stessi ebrei, colti anche loro alle volte dalla 
          sindrome dell’antisemitismo(12, 
          hanno potuto mettere in atto lungo il corso della loro storia. In questo 
          senso il nome ebraico è una rovina per colui che lo porta, manda 
          in rovina le formazioni di compromesso, le metafore e le metonimie, 
          con cui si cerca di coniugare reale e immaginario, e infine è 
          esso stesso una rovina, un rifiuto della storia.
        A 
          trasformare definitivamente in rovine quelle costruzioni che agli occhi 
          dell’ebreo berlinese nato intorno al 1900 erano sembrate delle 
          nicchie perfette per proteggersi dal destino iscritto nel suo nome sono 
          due eventi di cui le Tesi rappresentano la registrazione e il 
          tentativo di risposta: il patto di non aggressione stipulato fra Stalin 
          e von Ribbentropp che sancisce il completo abbandono delle residue speranze 
          che un intellettuale comunista poteva riporre ancora alla fine degli 
          anni trenta nella Russia come patria dei soviet, la cui involuzione 
          era stata tuttavia denunciata da Benjamin già nel 1925 nel Diario 
          moscovita; e subito dopo, la sconfitta della Francia e la costituzione 
          del governo collaborazionista di Vichy che trasformano la patria di 
          Baudelaire e Proust, di Valery e dei surrealisti – il lato dello 
          studio - in un’appendice della Germania nazista, costringendo 
          il già esule Benjamin ad una nuova fuga bruscamente interrotta 
          su di un valico dei Pirenei dalla morte per suicidio. Quel che accadde 
          a Benjamin è ciò che colpì tutti gli ebrei europei, 
          nessuno escluso, dal 1933 in poi fino alla caduta del regime e alla 
          liberazione dai campi di concentramento dei pochi sopravvissuti: l’essere 
          apostrofato come ‘ebreo’, chiamato per e col nome, col suo 
          nome ebraico, indipendentemente da tutte le differenze, fossero esse 
          di ceto, di classe, di cultura, di sesso e professionali, che potevano 
          distinguere lui come ogni altro ebreo da tutti gli altri, ebrei e non 
          ebrei. Di più: di essere richiamato violentemente al suo essere 
          niente altro che un ebreo, solo un ebreo, niente di più che un 
          ebreo, anche e soprattutto quando egli si fosse del tutto dimenticato 
          di essere un ebreo, non andasse più al tempio, non santificasse 
          il sabato, e non solo si ritenesse in perfetta buona fede un tedesco, 
          un polacco, un francese e un italiano, ma anche professasse l’ateismo 
          o fosse divenuto semplicemente indifferente.  
        A 
          nulla è valso essere divenuti un professore universitario, un 
          medico importante, un banchiere di successo: si è solamente ebrei. 
          A nulla vale aver cambiato religione o non averne alcuna: si è 
          sempre e solo ebrei. Vale solo il nome, il nome ebraico(13. 
          Ma se vale solo il nome, ossia la brutale datità di nome e patronimico, 
          di nome e Nome-del-padre, ciò vuol dire che, facendo tutt’uno 
          con l’avere un nome ebraico, l’essere ebreo è solo 
          una faccenda generazionale, coincide con l’iscrizione in una catena 
          genealogica, con ciò che con Lacan (e con Levi-Strauss) chiameremo 
          le strutture elementari della parentela e che Milner chiama invece, 
          con un richiamo heideggeriano, la ‘quadruplicità’, 
          la quadratura cioè formata dalle coppie maschile/femminile e 
          genitori/figli. Un ebreo si definisce solamente per il fatto che discende 
          da genitori ebrei ed è l’effetto della differenza sessuale. 
          La persistenza del suo nome «non dice nient’altro, scrive 
          Milner, che la quadruplicità stessa»(14.
        Da 
          ciò l’odio antiebraico che la persistenza del nome rinfocola 
          e riproduce incessantemente. Giacché nulla è più 
          specifico dell’identità europea, formata da secoli di onto-teo-logia 
          greca, di cristianesimo, di liberalismo e socialismo(15, 
          vale a dire di idealismo, del tentativo, la cui origine affonda d’altronde 
          in una domanda immemoriale, antica quanto la stessa «umanità 
          parlante», di «disgiungere la perpetuazione della specie 
          umana e il contatto sessuale; affrancarla dalla costrizione dell’Altro 
          sesso per farne un puro passaggio dallo Stesso allo Stesso; togliere 
          ogni senso alla possibilità che il bambino possa nominare i propri 
          genitori; fare in modo che il padre non possa nominare fra le donne 
          quella che porta il bambino che egli ha generato; fare in modo che la 
          madre non possa nominare tra gli uomini quello di cui ella porta il 
          bambino, fare in modo che i nomi di padre e di madre perdano ogni senso 
          diverso da quello contrattuale, se non convenzionale»(16. 
          L’aspetto delirante della sindrome idealistica sta nella pretesa 
          di sostituire integralmente la provenienza bassa e materiale della specie 
          umana, quella che passa per il reale della differenza sessuale e per 
          il simbolico della catena delle generazioni, con l’origine alta 
          e spirituale, del tutto depurata dalle scorie dell’alterità 
          e della differenza. Il fatto che questa origine una e identica a sé 
          possa a sua volta definirsi come una forma di paternità ideale 
          e/o divina non smentisce ma semmai conferma il collasso che essa fa 
          subire alla funzione logico-esistenziale del Nome-del-padre. Giacché, 
          come hanno mostrato la psicoanalisi e Lacan, la paternità cosiddetta 
          ‘ideale’ è piuttosto quella costruita dal registro 
          immaginario per il quale l’edificazione di un dio amorevole e 
          provvidenziale cui si deve la creazione di tutto quel che esiste secondo 
          un disegno, non solo intelligente, ma soprattutto volto al bene, è 
          la premessa per la querimonia risentita, anticipo del vero e proprio 
          odio, con cui lo rimproveriamo di averci fatto male, di averci privato 
          di quella perfezione cui come suoi figli, fatti a immagine e somiglianza 
          sua, non potevamo non aver diritto(17. 
           
        Ben 
          diverso il ruolo della paternità simbolica, del Nome-del-padre 
          o, secondo la dizione del tardo Lacan, dei Nomi-del-padre(18. 
          Qualunque cosa si dica o si faccia in ‘Nome-del-padre’, 
          questa stessa formulazione contiene in modo implicito le tesi che 1) 
          il padre che s’invoca non lo si è, non lo si è mai 
          stato e neppure lo si sarà mai; 2) che in realtà egli 
          non è mai stato o, per dirla in altro modo, che è già 
          da sempre morto; 3) che un padre già da sempre morto non può 
          essere quell’uno o quel principio da cui tutto deriva e cui ogni 
          cosa viene ricondotta. In base all’argomentazione precedente sugli 
          insiemi inconsistenti, il Nome-del-padre è il significante del 
          pastout, dell’insieme cioè i cui elementi possono 
          solo essere contati uno per uno, come le donne, e mai per uno. ‘Di 
          generazione in generazione’ si srotola la storia degli ebrei, 
          di padre in figlio, per via di differenza sessuale: la persistenza del 
          nome ebraico non ha altra base materiale che la ‘quadruplicità’. 
          Basta d’altra parte aprire l’Antico testamento a 
          caso e leggere ad esempio una parte della genealogia di Adamo:  
        
        
        
        «E 
          Chenan visse settan’anni e generò Maalaleel, e dopo aver 
          generato Maalaleel, Chenan visse ancora ottecentotrent’anni e 
          generò figli e figlie. Così, tutto il tempo in cui visse 
          Chenan fu di novecentodieci anni, poi morì. E Maalaleel visse 
          sessantacinque anni e generò Iared, e dopo aver generato Iared 
          visse ancora ottocentotrent’anni e generò figli e figlie. 
          Così tutto il tempo in cui visse Malaaleel fu di ottocentonovantacinque, 
          poi morì. E Iared visse centossentadue anni e generò Enoc 
          e dopo aver generato Enoc visse ancora ottocento anni e generò 
          figli e figlie»(Genesi 5-6).
        
        
         
          Che 
          si voglia andare in su verso l’origine o ci si proietti a capofitto 
          verso l’avvenire, le generazioni si possono solo enumerare una 
          per una e una dopo l’altra e ogni generazione si autorizza a perpetuare 
          il proprio nome, ossia a generare a propria volta, solo in nome del 
          padre precedente, e così è ogni volta, qualunque sia il 
          segmento, in avanti o all’indietro, che si sceglie lungo la catena. 
          Se tutto questo è vero, che cosa può impedire allora che 
          questa concatenazione in linea di diritto illimitata che lega gli avi 
          ai pronipoti, che questa storia senza origine né fine dell’‘umanità 
          parlante’, non appaia, una volta cadute tutte le illusioni, nient’altro 
          che come «un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente 
          macerie su macerie»(19?
        
        
        
        
        III)
        Nel 
          saggio del 1936 intitolato allo scrittore russo Nikolaj Leskov e dedicato 
          alla crisi dell’arte della narrazione databile a partire dall’esperienza 
          inenarrabile della prima guerra mondiale, Benjamin cita un passo di 
          un racconto di Johann Peter Hebel, Insperato incontro, per far 
          vedere non solo come la morte, del tutto espulsa dallo spazio percettivo 
          dei moderni, sia la fonte da cui il narratore trae la propria autorità, 
          ma anche come essa, con il suo periodico ripresentarsi nella vita degli 
          uomini, il suo scandire l’ordine delle generazioni, faccia da 
          «storia naturale», ossia da sfondo strutturale, su cui situare 
          le singole storie che capitano agli uomini. Un giovane apprendista che 
          lavora nelle miniere di Falun – così inizia il racconto 
          di Hebel – si fidanza. Alla vigilia delle nozze è vittima 
          del crollo della miniera. La fidanzata gli resta fedele oltre la morte 
          e vive abbastanza per riconoscere un giorno, già vecchissima, 
          nel cadavere che viene riportato alla luce dalla galleria abbandonata, 
          e che, saturo di vetriolo, è rimasto intatto dalla disgregazione, 
          il corpo del fidanzato. Dopo il ritrovamento muore anch’essa. 
          A questo punto Hebel deve rendere palese la lunga serie degli anni trascorsi 
          e lo fa con queste frasi:  
        
        
         
          «Nel 
          frattempo la città di Lisbona fu distrutta da un terremoto, e 
          passò la guerra dei Sette Anni, e mori l'imperatore Francesco 
          I; fu soppresso l'ordine dei Gesuiti, e fu divisa la Polonia, e mori 
          l'imperatrice Maria Teresa, e fu giustiziato Struensee. L'America si 
          liberò, e la forza unita dei francesi e degli spagnoli non poté 
          occupare Gibilterra. I Turchi circondarono il generale Stein nella fossa 
          dei veterani in Ungheria, e mori anche l'imperatore Giuseppe. Il re 
          Gustavo di Svezia conquistò la Finlandia russa, e cominciò 
          la Rivoluzione francese e la lunga guerra, e anche l'imperatore Leopoldo 
          II scese nella tomba. Napoleone conquistò la Prussia, e gli inglesi 
          bombardarono Copenaghen, e i contadini seminarono e mieterono. Il mugnaio 
          macinò, i fabbri martellarono, e i minatori scavarono in cerca 
          di vene metallifere nella loro officina sotterranea. Ma quando i minatori 
          a Falun nell'anno 1809…»(20.
         
          
        
         
          è impressionante 
          la somiglianza ai limiti del plagio fra questa sequenza ‘storica’ 
          e quella ‘mitica’ e ‘favolosa’ delle genealogie 
          di Adamo: come la morte degli imperatori scandisce il corso degli eventi 
          storici, rende discreto il continuum temporale e permette di 
          ‘contare’ e quindi di ‘raccontare’ i fatti, 
          così quella dei patriarchi ritma il passare delle generazioni. 
          Lo ‘storico di professione’, lo storico forgiato dalla disciplina 
          della storiografia come scienza, attribuirà, non senza ragione, 
          questo accostamento alla confusione imperdonabile fra cronaca e ‘storia’. 
          Ma il punto è proprio lì: infatti, come scrive Benjamin, 
          «il cronista è il narratore della storia»(21. 
          In altri termini, mentre la cronaca è una delle forme del genere 
          epico, ossia dell’arte della narrazione, la storiografia rappresenta 
          «il punto d’indifferenza creativa di tutte le forme dell’epica. 
          In questo caso la storia scritta starebbe alle forme epiche come la 
          luce bianca ai colori dell’iride»(22. 
          La storiografia spiega, la cronaca racconta: allo storico spetta il 
          compito di «spiegare, in un modo o nell’altro, gli eventi 
          di cui si occupa», interpretare «il modo in cui s’inseriscono 
          nel grande e imperscrutabile corso del mondo», al cronista quello 
          di occuparsi della loro «esatta concatenazione» limitandosi 
          a «presentarli come esempi del corso del mondo»(23. 
          C’è una differenza sostanziale fra lo ‘spiegare’ 
          come gli eventi s'iscrivano nel corso del mondo e il narrare un evento 
          perché valga come esempio di come va il corso del mondo, cioè 
          di quale sia il suo schema costitutivo, la sua struttura di fondo. Da 
          questo punto di vista non ha alcuna importanza che l’idea complessiva 
          che si ha della storia umana sia di tipo provvidenziale come nel caso 
          della cultura medievale o profano come nella modernità: il cronista 
          medievale continuerà a raccontare gli eventi come esempi del 
          piano divino e il narratore moderno, almeno fino alla prima guerra mondiale, 
          di un piano immanente e mondano. Per essere più chiari: proprio 
          perché ponevano «alla base della loro narrazione storica 
          il piano imperscrutabile della salvezza», i cronisti medievali 
          erano «liberati in anticipo dell’onere di una spiegazione»(24.
         
          Nella caratterizzazione 
          dello storico come di colui che spiega, si vede delinearsi la critica 
          che nelle Tesi Benjamin farà dell’Historismus, 
          ossia dell’ideologia, intesa nel senso tutto marxiano di falsa 
          coscienza, della scienza storica, la quale infatti potrebbe, e secondo 
          Benjamin deve, essere presa in carico dal materialismo. L’errore 
          dello storicismo, che replica d’altronde la realtà fantasmagorica, 
          vale a dire feticistica, della società moderna, sta infatti nel 
          porre come scopo della storiografia la spiegazione del singolo fatto 
          storico così ‘come esso è autenticamente stato’, 
          senza curarsi del carattere complessivo del corso del mondo, un interesse 
          giudicato sorpassato e proprio di vecchie e decadute filosofie della 
          storia. Tale è anzi il disinteresse dello storicismo per il ‘corso 
          del mondo’ che esso viene ridotto a mero continuum temporale, 
          ad una forma del tempo omogenea e vuota fatta di istanti tutti uguali 
          fra di loro, in cui, accanto alla comprensione del disegno complessivo 
          secondo il quale si srotolano gli eventi, scompare anche ogni possibilità 
          di invertirne la direzione e il senso, sospendendone il decorso e scardinandone 
          le sequenze.  
         
          Va chiarito, 
          infatti, che di fronte ai fenomeni propri della modernità quali 
          la decadenza della narrazione, come anche dello studio o ancora dell’aura 
          nel campo delle arti figurative, l’atteggiamento di Benjamin non 
          è mai di rassegnazione o di nostalgia, tanto meno di risentimento 
          o di accidia. Quello che occorre è trovare i sostituti che, nelle 
          mutate condizioni storiche, di fronte ad una nuova configurazione del 
          corso del mondo, svolgano le funzioni dei loro corrispondenti antichi: 
          al posto della tragedia subentra il Trauerspiel, a quello del 
          poema epico il romanzo moderno, la Recherche a esempio, alle 
          odi di Pindaro le liriche di Baudelaire, all’unicità dell’opera 
          d’arte la riproducibilità tecnica della fotografia e del 
          cinematografo. Lo stesso deve accadere nel campo della conoscenza storica: 
          la risposta alla perdita della memoria del passato non va cercata in 
          quell’eccesso di sapere storico che è lo storicismo, ma 
          nel carattere discontinuo, intermittente, a salti, del materialismo 
          storico. Non si tratta di opporre alla catastrofe del mondo la fede 
          nel progresso, al pessimismo l’ottimismo, al conflitto l’intesa. 
          Giacché in fin dei conti che il corso del mondo sia quello adombrato 
          dal mito arcaico di cui la tragedia rappresenta il deragliamento consapevole 
          o dalla catena delle generazioni riscattata dall’alleanza colla 
          divinità o dalla cronaca del monotono alternarsi di re e imperatori 
          cui dà senso l’arte del racconto, o infine dalla storia 
          universale cui risponde il materialismo storico, in ogni caso esso, 
          una volta che sia guardato senza i veli immaginari, rivela il suo tratto 
          catastrofico, il suo ridursi ad un ammasso di macerie. Il problema insomma 
          non è negare ad ogni costo la realtà della rovina, far 
          finta di non vederla, illudersi che non esista o non abbia effetti, 
          ma stabilire quale uso farne, come trattarla, in che contesto inserirla, 
          secondo quale direzione trasformarla.
         
          Tutta, o quasi, 
          la produzione benjaminiana degli anni trenta, compreso qualche sconfinamento 
          anche in quelli immediatamente precedenti, si pone, se così si 
          può dire, sotto l’insegna del primato della politica, primato 
          della politica che, come si sa, fa tutt’uno con l’adesione 
          al materialismo storico. Ciò non farebbe che confermare la tesi 
          di Milner che attribuisce all’eccesso di fiducia nelle virtù 
          della politica rivoluzionaria, oltre che in quelle dello studio, l’esito 
          rovinoso della vita e dell’opera di Benjamin attestato dalle Tesi. 
          Tuttavia, a guardar meglio, l’idea della politica che Benjamin 
          elabora già a partire dal saggio sul surrealismo, e poi in quello 
          sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità 
          tecnica, passando per L’autore come produttore e Eduard 
          Fuchs, il collezionista e lo storico, e per molti altri ancora, 
          fino a giungere alle stesse Tesi, non ha niente delle illusioni 
          ideologiche che caratterizzano la socialdemocrazia da un lato e lo stalinismo 
          dall’altro. Allora lo scoramento spinto fino alla scelta del suicidio, 
          scelta estrema fatta, non lo si dimentichi, per sfuggire all’aguzzino, 
          non dipende tanto dalla politica in sé quanto dalla difficoltà 
          di far diventare egemone nel movimento operaio una posizione inizialmente 
          minoritaria senza d’altronde arretrare di un passo rispetto all’ideologia 
          che di per sé raccoglie sempre il plauso delle maggioranze ed 
          esiste, infatti, esclusivamente a questo scopo: quello che era accaduto 
          alla frazione bolscevica del movimento rivoluzionario russo era diventato 
          difficile se non impossibile solo vent’anni dopo. Se a questo 
          si aggiunge la sorpresa per un evento che per essere previsto avrebbe 
          richiesto il possesso almeno dell’onniscienza divina e non è 
          detto che sarebbe stata sufficiente, e cioè che il paese uscito 
          dalla prima rivoluzione comunista vincente della storia umana si sarebbe 
          alleato con il peggior nemico dell’umanità, il quadro risulterà 
          completo.
        Nella 
          prospettiva appena delineata, il saggio sul surrealismo è addirittura 
          lapidario: la politica comunista consiste nell’ «organizzare 
          il pessimismo», la sua situazione emotiva fondamentale non è 
          né l’angoscia né la noia, ma la sfiducia. Che cosa 
          significa comunismo? Comunismo «significa pessimismo su tutta 
          la linea. Pessimismo assoluto. Sfiducia nella sorte della letteratura, 
          sfiducia nella sorte della libertà, sfiducia nella sorte dell’umanità 
          europea, ma soprattutto sfiducia, sfiducia e sfiducia verso ogni forma 
          di intesa: tra le classi, tra i popoli, tra i singoli»(25. 
          Il politico materialista sa che la letteratura, la libertà e 
          l’umanità europea, così come tutte le forme di intesa 
          e compromesso, se invocate come risposte alte e spirituali ai conflitti 
          bassi e materiali che attraversano la società moderna, si rivelano 
          essere alla fine nulla di più che palliativi, se non veri e propri 
          inganni. E quand’anche fossero perseguite in buona fede, del tutto 
          fiduciosi nelle loro ‘magnifiche sorti e progressive’, esse 
          lascerebbero, una volta giunte a compimento, nient’altro che un 
          ammasso di rovine. Se non si vuole cedere alla rassegnazione, non resta 
          allora che organizzare politicamente le rovine, sfiduciando preventivamente 
          qualunque tentativo di calmarne l’infiammazione rivoluzionaria 
          attraverso l’emolliente morale, e laddove questo non bastasse, 
          ricorrendo a quello estetico.
         
          La diagnosi di Benjamin sulla malattia 
          di cui soffre il mondo moderno nei primi decenni del secolo XX è, 
          come è noto, di estetizzazione della politica; la prognosi è 
          riservata e la terapia proposta: la politicizzazione dell’arte. 
          Lo sviluppo accelerato dei nuovi media – fotografia, radio, cinematografo, 
          telegrafo, telefono – non solo trasforma gli spazi percettivi 
          e le forme di vita, ma soprattutto permette, almeno come precondizione 
          materiale, l’emancipazione delle masse da ogni rapporto di dominio. 
          La riproducibilità tecnica libera i fruitori dalla tirannia del 
          ‘qui e ora’ e soprattutto li emancipa dalla sottomissione 
          al carattere arcano, cioè auratico, dell’immagine, che 
          cessa in questo modo di essere solidale col potere. I nuovi media comportano 
          più ancora di un rivolgimento nel campo della produzione materiale, 
          una vera e propria rivoluzione culturale per il fatto di permettere 
          da parte delle masse una riappropriazione, senza precedenti nella storia, 
          della cultura complessivamente prodotta dall’umanità, la 
          quale, nonostante potenzialmente appartenesse a tutti, veniva confiscata 
          ogni volta dalle classi dominanti, diventando il più potente 
          strumento della loro legittimazione. Di fonte a questa situazione l’unico 
          modo per schivare il carattere oggettivamente rivoluzionario dell’avvento 
          dei media della riproducibilità tecnica delle immagini, si rivelava 
          essere non quello, ormai impossibile, di spoliticizzare l’arte, 
          bensì quello, esattamente inverso, di estetizzare la politica: 
          se quest’ultima è divenuta ormai immagine – Benjamin 
          parla già dell’esposizione pubblica, nei parlamenti, oltre 
          che al cinema, della figura del politico, l’esposizione del politico 
          alla percezione distratta delle masse – essa allora dovrà 
          essere trattata come se fosse un’arte, l’arte della produzione, 
          attraverso i mezzi della riproducibilità tecnica, di immagini 
          che replichino, nelle mutate condizioni storiche, le prestazioni politiche 
          di quelle del passato, di custodire cioè gli arcana imperi.
        Il 
          fascismo non è altro che questo per Benjamin: «il fascismo 
          cerca di organizzare le recenti masse proletarizzate senza però 
          intaccare i rapporti di proprietà di cui esse perseguono l’eliminazione». 
          Pertanto «il fascismo vede la propria salvezza nel consentire 
          alle masse di esprimersi (non di veder riconosciuti i propri diritti). 
          Le masse hanno diritto a un cambiamento dei rapporti di proprietà; 
          il fascismo cerca di fornire loro una espressione nella conservazione 
          delle stesse; il fascismo tende conseguentemente a una estetizzazione 
          della vita politica»(26. 
          Le masse diventano esse stesse immagini infinitamente riproducibili, 
          occupano la scena come delle merci, si espongono nella vetrina cine-televisiva, 
          sono trasformate in immagini cultuali, servono a riprodurre quei rapporti 
          di produzione da cui vorrebbero emanciparsi. Invece di emanciparsi dall’immagine 
          le masse diventano a loro volta immagini, immagini paradossalmente auratiche 
          in un mondo senz’aura.
        Se 
          la rovina è l’esito inevitabile dei processi naturali e 
          di quelli storici, soprattutto di quella ‘storia naturale’ 
          che fa da sfondo alle vicende umane, anch’essa allora si polarizzerà 
          fra gli estremi dell’estetizzazione e della politicizzazione. 
          Il saggio di Simmel del 1911 intitolato Die Ruine rappresenta 
          bene il primo lato della dicotomia: la rovina considerata dal punto 
          di vista estetico è una forma in cui è posto in stato 
          di quiete il rapporto conflittuale e squilibrato fra le spinte distruttive 
          della natura e quelle, al contrario, costruttive della cultura. Nella 
          contemplazione della rovina, i due ambiti che si contendono l’esistenza 
          umana, se non raggiungono l’equilibrio, tuttavia si placano, producendo 
          sul fruitore uno stato d’animo pacifico. La presenza della rovina, 
          che per Simmel è esclusivamente quella architettonica, non significa 
          altro «che le forze meramente naturali prendono a impadronirsi 
          dell’opera umana» e che di conseguenza «l’equazione 
          fra natura e spirito rappresentata dall’edificio si sposta a favore 
          della natura»(27. 
          Rivendicando violentemente i suoi diritti, la natura, attraverso la 
          rovina della costruzione, si vendica «per la violenza che lo spirito 
          le ha arrecato formandola a propria immagine»(28. 
           
         
          Se il discorso sulla rovina terminasse 
          qui, tutto il moderno processo di estetizzazione fallirebbe il proprio 
          scopo: quel che conta nella rovina architettonica, infatti, è 
          che, a differenza di «un quadro dal quale si siano staccate delle 
          particelle di colore» o di «una statua con dei membri mutili» 
          o ancora di «un antico testo poetico dal quale siano andati perduti 
          parole e versi», i quali producono un effetto solo in base a quanto 
          ancora sussiste in essi della forma artistica originaria o di quella 
          che l’immaginazione può ricostruire, ma che nel loro aspetto 
          immediato non costituiscono un’unità estetica restando 
          opere d’arte monche ed incomplete, nella rovina invece viene in 
          evidenza come «nella scomparsa e nella distruzione dell’opera 
          d’arte siano cresciute altre forze e altre forme, quelle della 
          natura, e così da ciò che in lei vive ancora dell’arte 
          e da ciò che in lei vive già della natura, sia scaturito 
          un nuovo intero, una unità caratteristica»(29. 
          La rovina insomma non è ciò che resta di un’opera 
          passata su cui esercitare una meditazione malinconica intorno al carattere 
          caduco di ogni impresa umana; è al contrario un’opera nuova, 
          diversa per essenza da quella di cui comunque attesta l’esistenza, 
          e quindi autonoma. Ed è nuova e diversa perché rispetto 
          all’opera che era, prodotto di uno solo dei lati dell’esistenza 
          umana, quello spirituale, essa è stata lavorata dall’azione 
          di quello naturale modificando in tal modo la propria costituzione complessiva. 
          La rovina non è ciò che sopravvive di un’opera in 
          via di decomposizione, ma un’opera a sé, una forma completamente 
          nuova, la cui prestazione consiste nel permettere al fruitore la percezione 
          di un diverso rapporto fra le forze naturali e quelle spirituali.  
        
        Se 
          la rovina esercita un suo fascino speciale, ciò dipende dal fatto 
          che in essa «un’opera dell’uomo viene percepita in 
          ultima analisi come un prodotto della natura», ossia attraverso 
          la rovina può mostrarsi il fatto che la natura non è soltanto 
          «la struttura, la materia ovvero il mezzo prodotto», mentre 
          lo spirito è «l’elemento definitivamente formativo, 
          che pone un suggello», ma al contrario «che quanto lo spirito 
          aveva innalzato diviene oggetto di quelle medesime forze che hanno formato 
          i contorni della montagna e la riva del fiume»(30. 
          La rovina mostra insomma che la natura non si riduce né a mero 
          materiale da costruzione, né a sola furia distruttrice, ma è 
          anche e soprattutto formativa, produttiva. In tal modo «la distruzione 
          della forma spirituale grazie all’azione delle forze naturali, 
          quel rovesciamento dell’ordine consueto, viene percepito quale 
          un ritorno alla “buona madre” come Goethe definisce la natura»(31. 
          Incomincia in tal modo a delinearsi il senso del carattere estetico 
          che Simmel vuole attribuire alla rovina: la contemplazione estetica 
          della rovina, nonostante il sentimento tragico che costantemente l’accompagna, 
          è in realtà pacificatrice, rappacifica il fruitore con 
          la distruzione. La rovina infatti testimonia che in un’opera dell’ingegno 
          umano, per quanto essa sia stata formata dallo spirito, tuttavia «non 
          sia mai svanita del tutto una pretesa giuridica della mera natura»(32; 
          in se stessa «l’opera è sempre rimasta natura e allorché 
          quest’ultima ora se ne riappropria non fa che realizzare in tal 
          modo un diritto, fino ad allora sospeso, al quale essa però non 
          rinuncia mai»(33. 
          Da ciò deriva una conseguenza importante per Simmel, e cioè 
          che «la distruzione non è alcunché che provenga 
          dall’esterno, bensì è la realizzazione di un indirizzo 
          collocato nello strato d’esistenza più profondo di ciò 
          che è distrutto»(34. 
          La distruzione è parte integrante, perché legittima, dell’opera, 
          e di più produce opere, quali appunto le rovine, che nulla hanno 
          da invidiare a quelle che sono il risultato della sola forza costruttiva 
          dello spirito. Concludendo, Simmel individua la prestazione della rovina 
          architettonica, vale a dire quella «pace profonda che come un 
          sacro incanto» la circonda, nel fatto che «l’oscuro 
          antagonismo che condiziona la forma di ogni esistenza» nella rovina 
          «non è conciliato in un equilibrio», bensì 
          «lascia prevalere l’una parte e annientare l’altra, 
          offrendo tuttavia in quest’azione un’immagine sicura della 
          forma, capace di persistere in quiete»(35. 
          Invece di essere ciò che distrugge la forma nella misura in cui 
          quest’ultima funziona come fonte di legittimazione del dominio, 
          la rovina, per Simmel, è la forma o, più esattamente, 
          la messa in forma della distruzione.  
        
        
         
          
        
         
          
        
         
          
        
        IV)
         
          Anche Simmel - la riflessione sulla 
          rovina ne è la chiara dimostrazione - fa parte, come Benjamin 
          e Riegl, della schiera di quelli per i quali non esistono epoche di 
          decadenza, per i quali cioè la decadenza, di cui la rovina è 
          la categoria principe, non obblighi soltanto a guardare con tristezza 
          verso un passato grande ma purtroppo irripetibile, ma abbia la propria 
          legittimità e produca, anche se solo nella modalità del 
          frammento e del torso, opere altrettanto valide e significative di quelle 
          del passato(36. 
          In altri termini, sostenere che non esistano epoche di decadenza significa 
          attribuire al lato distruttivo o negativo dei processi storico-culturali 
          un valore positivo e costruttivo. Con la differenza però che 
          mentre in Simmel la prospettiva con la quale si guarda ai prodotti culturali 
          resta pur sempre quella del mantenimento del rapporto fra i due lati 
          della dicotomia – naturale-spirituale, negativo-positivo, distruttivo-costruttivo 
          – mentre ciò che si abbandona è soltanto la pretesa 
          ad ogni costo della loro riconciliazione, del superamento dell’inimicizia, 
          per Benjamin al contrario l’atteggiamento da assumere davanti 
          alla dicotomia consiste nel lasciar perdere del tutto il lato positivo, 
          costruttivo, vivo e fertile dei processi storico-culturali, e puntare 
          esclusivamente sull’altro, quello negativo, distruttivo, morto 
          e sterile. Riprendendo il modello logico della diariesi platonica e 
          collegandolo arditamente all’apocatastasi origeniana(37, 
          per Benjamin si tratta di portare fino in fondo il lavoro della distruzione, 
          continuando a dividere sul solo lato negativo, per estrarre da quest’ultimo, 
          ad ogni nuovo gradino dello sprofondamento, quel granello di vita che 
          vi era conservato come in una cripta, affinché, liberato, possa 
          anch’esso partecipare alla redenzione(38.
        L’attuazione 
          di un simile programma comporta, quindi, non solo l’incremento 
          nella produzione di rovine, favorendo e accelerando i processi di distruzione 
          e di decomposizione che colpiscono i fenomeni storico-culturali, ma 
          anche e soprattutto l’allargamento senza limiti dell’arco 
          di ciò che può cadere sotto la categoria della rovina. 
          Benjamin abbandona quella declinazione alta e aristocratica che in Simmel 
          ancora caratterizzava l’approccio alla rovina e accanto all’edificio 
          architettonico, nobile ma decaduto, valorizza il torso, il frammento, 
          l’incompiuto che era tale già prima della gestazione, e, 
          in un crescendo che non si ferma davanti a quel che oggi chiameremmo 
          il politically correct, gli scarti di lavorazione e i materiali 
          di risulta, gli stracci ed i rifiuti, in una parola l’immondizia. 
          Si configura così da parte di Benjamin una teoria generale dei 
          rifiuti che coincide in gran parte con quel metodo di una storiografia 
          materialistica che viene elaborato nella sezione N del Passagen Werk, 
          nel saggio su Eduard Fuchs e infine nelle Tesi(39. 
          Mentre la storiografia borghese, ossia lo storicismo, valorizza il detto 
          e il visibile, il pienamente realizzato e soprattutto l’appartenenza 
          ad una tradizione culturale la cui capacità di riproduzione funziona 
          come istanza di legittimazione, il materialismo storico lavora col non 
          detto e il non visibile, l’incompiuto e il sospeso, e soprattutto 
          con quei materiali che quella stessa tradizione abbandona all’oblio 
          e alla distruzione ritenendoli spuri e inutili. Da questo punto di vista 
          le Jetztzeiten, ossia i ‘tempi-ora’, le attualità, 
          che si oppongono per Benjamin a quel presente storico concepito come 
          mera via di facilitazione per lo scorrimento senza scosse del processo 
          storico, funzionano come veri e propri rifiuti della storia, come l’immenso 
          ammasso di macerie in cui si trasforma l’altrettanto immenso ammasso 
          delle merci.
        Ma 
          questo è solo un lato del lavoro del materialista storico: il 
          lavoro della distruzione, un lavoro instancabile e mai finito, un esercizio 
          critico costante. Resta da definire il lato costruttivo, ciò 
          che Benjamin a più riprese ha indicato col termine ‘montaggio’, 
          traendolo molto probabilmente dal linguaggio cinematografico nonché 
          dall’ambiente letterario surrealista, ma anche dall’impostazione 
          marxista del problema dell’esposizione e infine dall’organizzazione 
          capitalistica del lavoro. Due sono i frammenti della sezione N del Passagen 
          Werk in cui, alla fine, come se fosse un’etichetta sotto cui 
          rubricarli, compare, incastonato fra due quadratini neri, il sintagma 
          “rifiuti della storia”, e che tematizzano il montaggio come 
          metodo della storiografia materialistica. Il primo recita:
        
        
         
          Metodo di 
          questo lavoro: montaggio letterario. Non ho nulla da dire. Solo da mostrare 
          (Zeigen). Non sottrarrò nulla di prezioso e non mi approprierò 
          di alcuna espressione ingegnosa. Stracci e rifiuti, invece, ma non per 
          farne l’inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico 
          modo possibile: usandoli(40.
         
          
        
        
        
         
          In forma compendiata il frammento 
          rimanda ad alcuni capisaldi del pensiero benjaminiano: in primo luogo 
          al problema dell’esposizione. L’approccio, infatti, a ciò 
          che in questo contesto Benjamin chiama con i nomi di ‘stracci 
          e rifiuti’ (Lumpen e Abfall) è lo stesso 
          che la premessa dell’Ursprung riservava al fenomeno: qui 
          come là il fenomeno, ciò che appare e si mostra, si pone 
          in relazione diretta con l’idea, e se la coppia fenomeno-idea 
          ha anche un tenore linguistico quest’ultimo riguarderà 
          la sfera dei nomi propri con cui l’idea alla fine s’identifica 
          e non quella delle generalità logiche in cui la singolarità 
          del fenomeno si perde. La rete dell’enunciabile, che nella premessa 
          dell’Ursprung era indicata dalla dimensione del concetto, 
          non solo non deve sovrapporsi a quella del visibile, ma deve anzi essere 
          preliminarmente disfatta, affinché il fenomeno, restituito in 
          tal modo alla sua reale consistenza, si relazioni direttamente alla 
          propria verità iscritta nell’idea, accedendo contemporaneamente 
          all’espressione linguistica resa possibile dal nome. Quindi non 
          si tratta di dire, bensì di indicare, far segno, mostrare a dito: 
          esporre il fenomeno in quanto tale, quasi in carne ed ossa. Allo stesso 
          tempo però nessuna visione eidetica: l’idea è il 
          risultato di un montaggio, di una costruzione. Nulla che si offra ad 
          una visione originaria. In altri termini, l’idea non si esibisce 
          nel fenomeno, ma l’analisi intensiva del singolo fenomeno contribuisce 
          alla costruzione dell’idea.
         
          Il secondo punto cui il frammento 
          accenna e che è d’altronde una conseguenza dell’impostazione 
          ultrafenomenologica e paraplatonica che Benjamin nella premessa dell’Ursprung 
          ha dato al problema della conoscenza (e che la sezione N del Passagen 
          Werk riprende e rielabora in chiave storico-materialistica), è 
          la scomparsa di ogni criterio gerarchico e di valore nella scelta e 
          nell’uso dei materiali: non ci saranno preferenze, non verrà 
          occultato nulla e nulla verrà privilegiato. Per la storiografia 
          materialistica vanno bene anche gli stracci e l’immondizia: tratterà 
          in forma egualitaria i più alti prodotti culturali e i più 
          bassi detriti della vita. Ma, aggiunge Benjamin, non per farne l’inventario, 
          bensì per render loro giustizia nell’unico modo possibile: 
          usandoli. Nel momento in cui affronta il terzo punto chiave, ossia quello 
          dell’uso politico delle rovine, il frammento s’interrompe: 
          se è più o meno chiaro il significato della prima parte 
          dell’affermazione, quella che esclude le tecniche dell’inventario 
          e dell’elenco, in una parola l’approccio empirico-descrittivo, 
          o tout court positivista, alla comprensione degli stracci e dei 
          rifiuti, come esito della pratica teorica del materialista storico, 
          meno chiaro è in che cosa consista nei loro riguardi l’uso 
          che rende giustizia, quindi politico, che d’altro canto non può 
          che coincidere con ciò che l’attacco del frammento definiva 
          il ‘montaggio letterario’.
        Il 
          secondo frammento, rubricato sotto l’etichetta «ð¾Rifiuti 
          della storiað¾», 
          chiarisce in che senso si debba intendere il principio del montaggio 
          una volta che esso sia applicato alla comprensione della storia. Dal 
          momento che la questione principale della scienza storica è quella 
          della perspicuità della storia stessa, del riuscire a vederci 
          chiaro nel groviglio degli eventi storici che si presentano all’occhio 
          esperto dello storiografo come a quello ‘ingenuo’ dell’agente 
          storico, sovrainterpretati non solo, ma anche intrisi dell’ideologia 
          dei dominanti, ogni racconto o ricostruzione delle sequenze degli avvenimenti 
          ‘così come si sono effettivamente svolte’ sarà 
          sempre sospettabile di falsificazione. Una volta che i fatti storici 
          siano stati liberati da questa camicia di nesso, una volta cioè, 
          come dice Benjanim, che nella considerazione storica sia stata annichilita 
          l’idea del progresso, ossia quella bufera che spira dal Paradiso 
          e che trascina l’Angelo della storia che vorrebbe al contrario 
          sostare presso le macerie, allora la perspicuità della storia 
          non sarà l’effetto di una ricostruzione, bensì di 
          una vera e propria costruzione, cioè di una connessione dei fatti 
          storici ottenuta in base a un disegno o uno schema che non sono immediatamente 
          leggibili in essi, ma che si ottengono attraverso il montaggio. A sua 
          volta però il disegno, lo schema, in una parola l’idea, 
          in base ai quali si costruisce la storia, non saranno nulla di precostituito: 
          essi infatti verranno ricavati dall’analisi intensiva del singolo 
          evento.  
        Con 
          le parole del frammento il principio del montaggio consiste  
        
        
        
        nell’erigere, 
          insomma, le grandi costruzioni sulla base di minuscoli elementi costruttivi, 
          ritagliati con nettezza e precisione. Nello scoprire, anzi, nell’analisi 
          del piccolo momento singolo il cristallo dell’accadere totale. 
          Nel rompere, dunque, con il naturalismo storico popolare. Nel cogliere 
          la costruzione della storia in quanto tale. Nella struttura del commento(41.
        
        
        Nella 
          premessa dell’Ursprung, così spesso richiamata perché 
          è Benjamin stesso a istituire la corrispondenza fra i fondamenti 
          conoscitivi di una storia della modernità e quelli elaborati 
          per il libro sul Trauerspiel, il principio metodologico qui indicato 
          attraverso il rinvio al montaggio letterario e/o cinematografico era 
          espresso dalla metafora del mosaico e le forme dell’esposizione, 
          che ora vengono individuate nella costruzione della storia e nel commento 
          al testo, erano focalizzate nel trattato teologico e nel saggio esoterico. 
          Come le tessere del mosaico non annunciano in nulla l’immagine 
          totale pur contribuendo a costituirla – e una sola tessera mancante 
          renderebbe il mosaico incompiuto –, così attraverso i singoli 
          momenti della storia si riflette prismaticamente l’accadere totale 
          e la sua destinazione. Parallelamente le forme dell’esposizione 
          devono assicurare la doppia prestazione dell’analisi intensiva 
          della singolarità – saggio esoterico e commento – 
          da un lato e la struttura discontinua della verità – trattato 
          teologico e montaggio – dall’altro.
        Ciò 
          che forse si modifica, se non nella sensibilità umana e esistenziale 
          di Benjamin, sicuramente nella scelta degli oggetti della riflessione 
          teorica, nel passaggio dai primi lavori sul linguaggio e sulla critica 
          romantica fino al libro sul Barocco alle ricerche su Baudelaire, Proust, 
          il surrealismo, i passages di Parigi e in generale sulla storiografia 
          materialistica, è l’attenzione sempre più crescente 
          alle attitudini soggettive e alle forme di vita che presiedono alle 
          pratiche teoriche. Non basta più l’affidamento spontaneo 
          e acritico alle forme tradizionali in cui si rappresenta il soggetto 
          conoscitivo e che sono essenzialmente quella del professore universitario 
          che, almeno in Europa, è un dipendente-funzionario dello stato, 
          da un lato, e quella dello scrittore free lance, capace cioè 
          di vivere del proprio lavoro intellettuale, dall’altro: a parte 
          il fatto che entrambe sono in decadenza, e come Benjanim l’ha 
          provato sulla propria pelle non sono altro che rovine, l’elemento 
          decisivo è che esse non permettono più né il reperimento 
          dei materiali né l’elaborazione delle categorie necessari 
          alle nuove forme del sapere(42.
        Quale 
          tratto soggettivo, per esempio, può spingere un individuo qualunque, 
          un generico esponente della specie, qualora non ve lo costringa il semplice 
          bisogno di sopravvivenza, a passare tutta la sua vita nella ricerca 
          di ciò che la confraternita dei sani e dei normali giudicherebbe 
          soltanto cianfrusaglie, oggetti desueti(43se 
          non addirittura inutili, insomma roba da buttare, spazzatura? Ad investire, 
          in altri termini, la propria libido come le proprie capacità 
          intellettuali compresi il gusto, la sensibilità e l’esperienza 
          accumulata, su oggetti che in sé hanno uno scarsissimo valore, 
          se non addirittura nessuno, che non hanno un significato né determinato 
          e univoco, né alto e nobile, che tendono soltanto a fare serie 
          e che per dirla tutta sono dei veri e propri insiemi inconsistenti come 
          la catena delle generazioni di cui si è parlato all’inizio 
          di questo saggio?
        Di 
          questi tipi umani Benjamin ne individua, mi sembra, essenzialmente due: 
          il flâneur e il collezionista. Affiancate anche tipograficamente 
          nell’exposé del 1935 su Parigi, capitale del 
          XIX secolo, primo compendio del lavoro sui passages – 
          del collezionista parla il quinto paragrafo intitolato Luigi Filippo 
          o l’«interieur», del flâneur il sesto 
          dedicato a Baudelaire o le strade di Parigi -, le due figure 
          sono accomunate in primo luogo dall’essere entrambe degli abitanti 
          delle soglie, dall’essere appunto i prodotti dei passages, 
          cioè di luoghi o non luoghi la cui caratteristica è quella 
          di non essere né un dentro né un fuori, ma di mantenersi 
          in uno spazio indecidibile. Il collezionista ed il flâneur 
          si ripartiscono, come Benjanim d’altronde, dai ‘due lati 
          di una linea di frattura’, non appartenendo né al vecchio 
          mondo dei valori d’uso né al nuovo della fantasmagoria 
          del valore di scambio, a quello cioè della grande città 
          e del trionfo della classe borghese. Sono da questo punto di vista dei 
          disadattati, il loro sguardo è quello dell’estraniato, 
          di colui che non appartiene a nessuna cerchia sociale stabile e identificabile. 
          Sono degli outsiders, al limite dell’anomia, tendenzialmente 
          conservatori, se non esplicitamente reazionari.
        Non 
          causalmente ad una prima lettura il giudizio di Benjamin su di essi 
          può apparire fortemente negativo. Del collezionista per esempio 
          si mette in evidenza la posizione ambigua che assume di fronte all’universo 
          delle merci: invece di riconoscerlo senza infingimenti cogliendo in 
          esso anche la presenza di una strana merce, la merce forza-lavoro, capace, 
          per la sua sola posizione all’interno dei rapporti di produzione, 
          di essere la leva della loro trasformazione rivoluzionaria, il collezionista 
          s’impegna nel lavoro di Sisifo di «togliere alle cose, mediante 
          il possesso di esse, il loro carattere di merce», dando loro però 
          «solo un valore d’amatore invece del valore d’uso» 
          (44. 
          Il collezionista, aggiunge Benjamin, «si trasferisce idealmente, 
          non solo in mondo remoto nello spazio e nel tempo, ma anche in un mondo 
          migliore, dove gli uomini, è vero, sono altrettanto poco provvisti 
          del necessario che in quello di tutti i giorni, ma dove le cose sono 
          libere dalla schiavitù di essere utili»(45. 
          Il meno che si possa dire è che il collezionista è un 
          illuso che crede di poter salvare le cose dall’obbligo dell’utilità 
          senza dover passare per una rivoluzione dei rapporti sociali, ma solo 
          in virtù del suo gusto e della sua sensibilità estetiche, 
          e che per questo diviene complice più o meno consapevole del 
          dominio che proprio il sistema della merce esercita sulla sfera del 
          lavoro umano. Il collezionista resta sul lato dell’estetizzazione 
          della politica e non si sposta su quello della politicizzazione dell’arte.
        Ancora 
          più drastico il giudizio sul flâneur: il modo di 
          vivere di quest’ultimo riveste di «un’aura conciliante 
          quello futuro, sconsolato dell’abitante della grande città», 
          lo abbellisce e lo edulcora rendendolo accettabile. Per questo, pur 
          non coincidendo del tutto con ‘l’uomo della folla’ 
          di cui parla Poe, il flâneur cerca in essa un asilo e un 
          riparo: la folla che fa da velo alla città gli permette, infatti, 
          di vederla come una fantasmagoria. Ancora una volta è la realtà 
          della merce che non va guardata in faccia, preferendo il flâneur 
          come il collezionista fermarsi attonito e stupito davanti al feticcio 
          che lo guarda, come la merce da dentro la vetrina, e l’ammalia, 
          promettendo un’ebbrezza che una vita ridotta al bisogno e al solo 
          valore d’uso delle cose non può che rendere impossibile 
          o rimandare al giorno in cui ritorneremo in Paradiso. Se con il flâneur, 
          come dice Benjamin, «l’intelligenza si reca sul mercato», 
          ossia se con questa figura si hanno il primo incontro e la prima saldatura 
          fra i tratti alti, nobili e disinteressati della vita umana da un lato 
          e quelli bassi, sporchi e materiali dall’altro, ciò accade 
          in realtà non per impadronirsene nel concetto o nell’espressione 
          artistica, bensì per «trovare un compratore»(46, 
          vale a dire per offrirsi come merce. Il flâneur rappresenta 
          lo stadio in cui l’intelligenza è in bilico fra il mecenatismo 
          e il mercato. Da qui la natura bohémienne che la funzione 
          intellettuale deve necessariamente assumere in questa fase storica di 
          trapasso e che prende la forma antidemocratica e antiproletaria del 
          cospiratore di professione dopo essere passata per quella del ribelle 
          anarchico.
         
          A guardare però con più 
          attenzione, pur restando fermo il giudizio negativo su di essi, pur 
          essendo flâneur e collezionista figure del passato, momenti 
          della preistoria della modernità capitalistica, quando il materialista 
          storico si risveglierà dal sogno della merce e dalla fantasmagoria 
          della città, sarà spontaneamente attratto per incominciare 
          il suo lavoro, non dagli intellettuali progressisti e politically 
          correct, ma da questi disadattati che espulsi dal vecchio mondo 
          non avevano trovato posto neppure nel nuovo e che però da questa 
          posizione eccentrica avevano potuto gettare uno sguardo estraniato sugli 
          effetti della modernità negato ai cantori delle ‘magnifiche 
          sorti e progressive’, contribuendo anche a far vedere il rovescio 
          della merce, e cioè la forza-lavoro come resto non trattabile 
          del processo capitalistico di produzione e il plusvalore come scarto 
          e rifiuto, immondizia irriciclabile: sottrarre le cose al principio 
          di utilità non significa soltanto estetizzarle, può voler 
          dire anche trattarle come spazzatura e la spazzatura è altrettanto, 
          se non di più, inutile dell’opera d’arte.
         
          In altri termini, flâneur 
          e collezionista sono anche precursori del materialista storico, momenti 
          della sua preistoria. Gli preparano il terreno, smantellando e distruggendo 
          gli apparati ideologici del dominio e liberando i materiali per l’uso 
          politico rivoluzionario. Soprattutto essi adombrano, l’uno nell’ebbrezza 
          della merce, l’altro, come si vedrà, nel modo in cui dispone 
          gli oggetti della sua collezione, la futura società senza classi, 
          il mondo integralmente redento. Un frammento del Passagen Werk 
          ci sembra la testimonianza più esplicita di quest’altra 
          prospettiva, parallela alla prima, da cui Benjamin guarda nel caso specifico 
          al collezionista ma in realtà a entrambe le figure:
        
        
         
          Ciò 
          che nel collezionismo è decisivo, è che l'oggetto sia 
          sciolto da tutte le sue funzioni originarie per entrare nel rapporto 
          più stretto possibile con gli oggetti a lui simili. Questo rapporto 
          è l'esatto opposto dell'utilità, e sta sotto la singolare 
          categoria della completezza. Cos’è poi questa «completezza»? 
          Un grandioso tentativo di superare l'assoluta irrazionalità della 
          semplice presenza dell'oggetto mediante il suo inserimento in un nuovo 
          ordine storico appositamente creato: la collezione. E per il vero collezionista 
          ogni singola cosa giunge a diventare un'enciclopedia di tutte le scienze 
          dell'epoca, del paesaggio, dell'industria, del proprietario da cui proviene. 
          E l'incantesimo più profondo del collezionista quello di inscrivere 
          il singolo oggetto in un cerchio magico in cui esso s'irrigidisce, nell'atto 
          stesso in cui un ultimo brivido (il brivido dell'essere acquistato) 
          lo attraversa. Tutto quanto fu oggetto di memoria, pensiero, coscienza, 
          diviene piedistallo, cornice, basamento, scrigno dei suo possedimento. 
          Non bisogna credere che proprio al collezionista sia estraneo il ‘topos 
          iperuranico’ che secondo Platone ospita gli archetipi immutabili 
          delle cose. Esso, certo, si perde. Ma ha però la forza di risollevarsi 
          di nuovo reggendosi a un fuscello di paglia, e dal mare di nebbia che 
          circonda il suo senso si stacca come un'isola l'oggetto appena acquistato.
        Il 
          collezionismo è una forma della memoria pratica, ed è 
          la più cogente tra le manifestazioni profane della «vicinanza». 
          Ogni minimo atto della riflessione politica fa dunque in qualche modo 
          epoca nel commercio dell'antiquariato. Noi costruiamo qui una sveglia 
          che scuota il kitsch del secolo scorso e lo «chiami a raccolta»(47.
        
        
         
          
        
         
          Senza voler 
          affrontare questioni inerenti alla datazione dei frammenti – questioni 
          probabilmente senza soluzione date le condizioni del materiale – 
          questa caratterizzazione del collezionista sembra opporsi a quella appena 
          citata dell’exposé, nonché al discorso contenuto 
          nel saggio su Eduard Fuchs (risalente al 1937 ma scritto controvoglia 
          per ragioni quasi esclusivamente economiche) in cui la preoccupazione 
          principale di Benjamin sembra quella di prendere distanza dall’ideologia 
          progressista e moralistica di quest’ultimo. Qui il carattere quasi 
          maniacale della ricerca del collezionista acquista un senso talmente 
          positivo fino al punto di confondersi con l’ethos che, 
          secondo le Tesi, dovrebbe guidare il materialista storico: come 
          il collezionista anche quest’ultimo strappa l’evento storico 
          dal suo contesto originario e lo collega con altri eventi il più 
          possibile simili al primo; così facendo egli supera la sostanziale 
          irrazionalità degli eventi storici, ossia il loro corso inevitabilmente 
          rovinoso, la loro consistenza di macerie, malamente nascosto dall’ideologia 
          storicista, inserendoli di forza in un nuovo ordine storico integralmente 
          costruito. Si prenda l’esempio delle Tesi: la congiura 
          di Bruto contro Cesare volta ad impedire lo sbocco imperiale della repubblica 
          romana è sottratta alla storia dell’antica Roma e messa 
          in contatto senza alcuna soluzione di continuità con la decapitazione 
          del re di Francia ordinata da Robespierre e Saint-Just per evitare la 
          sconfitta della rivoluzione. Al posto della storia così come 
          è effettivamente stata, ossia un cambio di testimone fra classi 
          dominanti interessate soltanto alla perpetuazione del dominio, il materialista 
          storico ha messo l’ordine storico dell’emancipazione.  
        
         
           Anche il 
          materialista storico è mosso nella ricerca preliminare degli 
          eventi da inserire nel nuovo ordine storico da quella sindrome del collezionista 
          che Benjamin chiama ‘categoria della completezza’. Rispetto 
          alla quale va tuttavia precisato che se la scelta e la messa in rapporto 
          dei singoli oggetti di una collezione rispondono appunto a quest’ideale 
          della completezza, ciò non vuol dire che la collezione in sé 
          possa mai considerarsi finita o diventare una totalità chiusa. 
          Se è vero che ogni singolo oggetto è di per sé 
          indispensabile per completare la collezione, è vero anche che 
          la serie degli oggetti è infinita. Da questo punto di vista l’insieme 
          costituito da tutti gli elementi della collezione è un insieme 
          infinito e inconsistente. Tuttavia una collezione non è un semplice 
          inventario, è un uso che deve render giustizia agli oggetti, 
          disponendoli secondo un ordine mentale o spaziale che non è una 
          proiezione del significato che gli oggetti hanno in quanto tali, ma 
          che al contrario costituisce la costellazione ideale o l’orizzonte 
          di senso a partire dal quale essi ricevono per la prima volta il loro 
          vero valore.
         
          Andando ancora 
          più in profondità bisogna aggiungere che il rapporto che 
          intercorre fra il singolo oggetto e la collezione di cui è chiamato 
          a fare parte o fra il singolo evento storico e il nuovo ordine della 
          storicità in cui si concatena, si presenta in Benjamin come una 
          certa modalità di 'innalzamento' (Erhebung), non distante, 
          ci sembra, dal registro del sublime, con cui l’oggetto o l’evento 
          subiscono quel che si potrebbe chiamare un cambio di rango. Per usare 
          ancora una terminologia kantiana è come se passassero dall’ambito 
          del prezzo – carattere utilitario della cosa o funzionale dell’evento 
          storico – alla sfera della dignità – il valore assoluto, 
          vale a dire sciolto, emancipato, da qualunque regime di equivalenza, 
          separato dal valore d’uso come dal valore di scambio, più-valore 
          e più-che-valore. In verità il frammento del Passagen 
          Werk in cui, in un modo forse anche troppo rapido, si tematizza 
          un tal dispositivo, evocando in sovrappiù anche un concetto decisivo 
          della riflessione benjaminiana quale quello dell’allegoria, si 
          limita a enunciare un rapporto fra quest’ultima, la merce e la 
          rovina. Dice infatti: «Materia in rovina (gescheiterte Materie): 
          è l’innalzamento della merce allo stato di allegoria. Carattere 
          di feticcio della merce e allegoria»(48. 
          Dispiegato però, il frammento sembra sostenere che non appena 
          la merce sia colta per quello che è e non per quel che fa credere 
          che sia, una volta cioè che sia svelata la sua natura feticistica, 
          ciò che si mostra è che essa non è altro che materia 
          rovinata, esistenza fallita, cosa da buttare; ma anche che non appena 
          questo avviene la merce come materia rovinata è innalzata al 
          rango dell’allegoria. La merce che nel capitale dispiegato fa 
          da equivalente generale di ogni oggetto come di ogni evento, di ogni 
          stato soggettivo come di ogni costrutto culturale – niente sfugge 
          al dominio del valore di scambio e niente deve sfuggirvi se vogliamo 
          continuare ad avere negativo da dividere e salvare -, abbassata al ground 
          zero dell’esser rovinoso, vista come un’immenso ammasso 
          di macerie, viene per ciò stesso innalzata ad allegoria, ad un’immagine 
          priva di bellezza, anamorfica forse, distorta e inconciliata certamente, 
          ma egualmente evocatrice della redenzione. Giacché solo l’allegoria, 
          a differenza del simbolo, è in grado di portare all’espressione, 
          e quindi salvare, ciò che resta incompiuto e non finito, quel 
          negativo che non trapassa in essere, in una parola l’opera inoperosa 
          della morte. Come Benjamin scriveva nell’Ursprung: «Le 
          allegorie sono nel regno del pensiero quel che sono le rovine nel regno 
          delle cose»(49.
         
          
        
         
          
        
         
           V)
         
          Durante il 
          seminario dedicato all’etica della psicoanalisi, Jacques Lacan, 
          per illustrare il meccanismo della sublimazione, il cui senso complessivo 
          aveva precedentemente compendiato nella formula: «elevare un oggetto 
          alla dignità della Cosa», decise di chiudere la lezione 
          del 20 gennaio 1960 con un apologo. Durante il periodo del governo di 
          Pétain – lo stesso in cui Benjamin si uccide – si 
          recò a trovare il suo amico poeta Jacques Prévert e nell’abitazione 
          di quest’ultimo fu colpito dalla presenza di una strana cosa di 
          cui ancora adesso conservava nitido il ricordo. Jacques Prévert 
          era un collezionista e all’epoca in cui c’era ben poco da 
          collezionare si limitava ad acquistare e conservare scatole di fiammiferi. 
          Ma il punto decisivo è che le scatole di fiammiferi non erano 
          semplicemente accatastate alla rinfusa in qualche angolo dell’abitazione 
          e neppure disposte ordinatamente su di un mobile pronte per essere inventariate 
          e classificate. Erano invece, grazie ad un leggero spostamento del cassetto 
          interno, incastrate l’una dentro l’altra in modo da formare 
          una striscia uniforme che, scrive Lacan, «correva sul bordo del 
          caminetto, saliva sul muro, passava sulle cimase e ridiscendeva lungo 
          una porta. Non dico che andasse così all’infinito, ma era 
          straordinariamente soddisfacente dal punto di vista ornamentale»(50.
         
          Nulla, che 
          io sappia, più di questo festone o gran pavese formato da scatole 
          di fiammiferi incastrate l’una dentro l’altra, illustra 
          meglio, non solo la sublimazione come una delle vicissitudini che possono 
          capitare alla pulsione, il suo rapporto con la sfera del piacere estetico 
          condiviso e riconosciuto, ma anche la pratica del collezionista, la 
          sua caratura etica e politica. Se la Cosa, la Ding an sich – 
          ancora una referenza kantiana -, la Cosa sciolta da qualunque concatenazione 
          empirica e intellettuale, la Cosa come puro pensato e che in quanto 
          tale sfugge a qualunque visibilità diretta, rappresenta però, 
          in filosofia come in psicoanalisi, la mira della facoltà superiore 
          del desiderare, essa potrà forzare il passaggio verso un’esibizione 
          empirica – restando contemporaneamente a distanza per salvaguardare 
          l’autonomia dell’intelletto discorsivo – soltanto 
          attraverso un’immagine indiretta, vale a dire un’allegoria. 
          La striscia formata dalle scatole di fiammiferi è un’allegoria 
          della Cosa e la formula di Benjamin secondo la quale si tratta d’innalzare 
          la merce al rango dell’allegoria si sovrappone perfettamente a 
          quella di Lacan in base alla quale la sublimazione consiste nell’elevazione 
          di un oggetto alla dignità della Cosa.
         
          Il carattere 
          sbalorditivo, continua Lacan, «dell’effetto realizzato da 
          questa raccolta di scatole di fiammiferi vuote era di far apparire un 
          fatto, su cui ci fermiamo troppo poco, e cioè che una scatola 
          di fiammiferi non è affatto semplicemente un oggetto, ma che 
          essa può, nella forma, Erscheinung, in cui era proposta 
          in una molteplicità veramente imponente, essere una Cosa»(51. 
          La scatola di fiammiferi è in principio un oggetto, dotato di 
          una sua utilità e di una sua funzione – il suo valore d’uso 
          e, una volta che sia messa in vendita, anche il suo valore di scambio. 
          Usati tutti i fiammiferi, la scatola è vuota e non resta che 
          buttarla nel secchio della spazzatura. Ma all’occhio del collezionista 
          la scomparsa contemporanea del valore d’uso e del valore di scambio 
          della scatola – del suo carattere di merce – è la 
          premessa per l’emergenza di qualcosa come la forma pura della 
          scatola presente in essa ma fino a allora non visibile. Questa forma 
          è appunto il vuoto della scatola e la domanda del collezionista 
          riguarda l’uso che di questo vuoto è ancora possibile. 
          Come render giustizia a questo vuoto della scatola di fiammiferi? Mettendolo 
          in contatto con un altro vuoto di un’altra scatola di fiammiferi 
          e così all’infinito. Solo che da questo insieme di vuoti 
          collegati l’uno all’altro emerge una figura complessiva, 
          priva per un verso di un significato qualsiasi, ma allo stesso tempo 
          capace di produrre una soddisfazione estetica, quasi fosse un modo per 
          riscattare l’inservibile dalla discarica cui sarebbe destinato. 
          Forse che il vuoto non ha anch’esso diritto di sperare nella redenzione? 
           
         
          Le ulteriori 
          considerazioni di Lacan non fanno che confermare quest’assunto: 
          la disposizione a festone delle scatole di fiammiferi unite attraverso 
          il loro vuoto rendeva manifesto che «una scatola di fiammiferi 
          non è soltanto qualcosa con un certo uso, che non è neppure 
          un tipo, nel senso platonico, la scatola di fiammiferi astratta(52, 
          che una scatola di fiammiferi da sola è una cosa, con la sua 
          coerenza d’essere». E d’altro canto che la mira del 
          collezionista fosse appunto la cosalità della scatola di fiammiferi 
          è dimostrato «dal carettere completamente gratuito, proliferante 
          e superfluo, quasi assurdo di questa collezione»(53. 
           
         
          Ma l’ultima 
          osservazione di Lacan merita un rilievo a parte ed è per questo 
          che le affidiamo il compito di chiudere questo saggio sulle rovine di 
          Benjamin. Non in ogni oggetto sussiste alla stato latente la possibilità 
          della Cosa: la sua forma non è per niente indifferente. «Se 
          ci riflettete», dice Lacan rivolgendosi all’uditorio sempre 
          più stupito, «la scatola di fiammiferi vi si presenta come 
          una forma vagabonda di ciò che ha per noi tanta importanza da 
          prendere in certi casi un senso morale, e che si chiama cassetto. Qui, 
          il cassetto, liberato, e non più preso nella sua ampiezza ventrale, 
          comoda, si presentava con un potere copulatorio, che l’immagine 
          tracciata dalla composizione prevertiana era destinata a rendere sensibile 
          ai nostri occhi»(54. 
          Non lo si poteva dire più chiaramente: la striscia delle scatole 
          di fiammiferi era l’allegoria attraverso la quale la spinta copulatoria 
          che dà origine alla catena delle generazioni veniva strappata 
          all’insensatezza e alla rovina. L’allegoria di un nome fatto 
          a pezzi.  
         
          
        
         
          
        
         
          
        
         
          1 
            Per una prima ricognizione del tema in riferimento alla prima produzione 
            benjaminiana rinvio al mio Allegoria e rovina. Mondializzazione 
            e redenzione nell’Ursprung des deutschen Trauerspiels, in 
            Id., La lingua muta e altri saggi benjaminiani, Filema, Napoli 
            2000.
         
         
          2 
            D’altronde in italiano il termine rovina può indicare 
            insieme sia la caduta o il crollo di qualcosa, sia il suo effetto, 
            vale a dire i resti, nonché l’agente o causa: ‘Sei 
            la mia rovina!’
         
         
          3 
            M. Heidegger, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione 
            alla ricerca fenomenologica, tr. it. di M. de Carolis, Guida, 
            Napoli 1990, p. 131. Sul rapporto Heidegger-Benjamin rinvio al mio 
            Vita fattizia e eros impotente. Heidegger, Benjamin e la questione 
            universitaria, in Id., La lingua muta e altri saggi benjaminiani, 
            cit. Ma sulla questione generale del divenir-soggetto si veda ancora 
            il mio Anima idiotica. Saggio di stilografia, in AA.VV., Stupidi 
            e idioti. Undici variazioni sul tema, Sossella, Roma 2000, soprattutto 
            pp. 170-172.
         
         
          4 
            Per la tematizzazione della Ruinanz, cioè del rovinio, 
            cfr. ivi, p. 161 ss.
         
         
          5 
            Cfr. B. Moroncini, Walter Benjamin e la moralità del moderno, 
            Guida, Napoli 1984, p. 418. Nel testo, subito dopo la frase “che 
            l’Angelo trascina via con sé”, si trova un inciso 
            che recita “spalle al paradiso” con il quale si attribuisce 
            all’Angelo una posizione sbagliata rispetto a quanto c’è 
            nel testo secondo il quale semmai l’Angelo dà le spalle 
            al futuro verso cui lo trascina, suo malgrado, una bufera che soffia 
            dal paradiso e che non è altro che il progresso. Il mio errore 
            d’allora mi appare oggi l’effetto dell’urgenza, 
            sorella di quella cattiva consigliera che è la fretta, che 
            avvertivo all’epoca di dover sottoporre ad una critica serrata 
            un’interpretazione di Benjamin secondo la quale la redenzione 
            coincide integralmente con un ritorno indietro, ossia con il ripristino 
            della condizione che precede, fuori di metafora, la modernità. 
            A mio avviso non esiste in Benjamin il topos nostalgico per un passato 
            ideologicamente migliore del presente e che andrebbe ricostituito. 
             
         
         
          6 
            Sul tema della democrazia rinvio al mio Sovranità e democrazia, 
            in Chaosmos, Sciogliere legare. Sacrificio democrazia sovranità, 
            Filema, Napoli 2003, pp. 43-60. Sul problema dell’archè 
            si veda J. Derrida, Mal d’archive, Galilée, Paris 
            1995.
         
         
          7 
            Il problema per l’Europa di oggi è ovviamente Israele 
            e, al di là delle denegazioni, la sua esistenza in quanto tale: 
            ogni buon europeo desidera nel suo cuore la distruzione di Israele.
         
         
          8 
            W. Benjamin, Sul concetto di storia, ed. it. a cura di G. Bonola 
            e M. Ranchetti, Einaudi, Torino1997, p. 37.
         
         
          9 
            J-C. Milner, Les penchants criminels de l’Europe démocratique, 
            Verdier, Lagrasse 2003, p. 118.
         
         
          10 
            Su questo punto si veda J. Derrida, Interpretazioni in guerra. 
            Kant, l’ebreo, il tedesco, tr. it. di T. Silla, Cronopio, 
            Napoli 2001, in cui si analizza fra l’altro il paradossale filogermanesimo 
            del filosofo ebreo Hermann Cohen il quale, all’inizio della 
            prima guerra mondiale, convinto che la vera patria dell’ebreo 
            fosse la Germania intesa come patria dello spirito europeo, chiedeva 
            agli ebrei americani di impedire l’entrata in guerra degli Usa 
            contro la nazione tedesca.
         
         
          11 
            A mitigare solo in parte la durezza di queste tesi è giusto 
            ricordare che quello del nome è un tema costante nella riflessione 
            benjaminana e non solo dal punto di vista dello ‘studio’ 
            – la teoria del nome elaborata nel saggio Sulla lingua in 
            generale e sulla lingua degli uomini – ma anche e soprattutto 
            da quello analizzato qui del ‘nome ebraico’: mi riferisco 
            al breve testo ‘autobiografico’ del 1933, anno della presa 
            del potere da parte del nazional-socialismo, Agesilaus Santander, 
            in cui Benjamin racconta che i suoi genitori, «ritenendo opportuno 
            che non tutti s’accorgessero subito che ero ebreo» gli 
            diedero alla nascita altri due nomi «inusitati, dai quali non 
            si potesse arguire né ch’era un ebreo a portarli né 
            che gli appartenessero come nomi». è rilevante notare 
            che Benjanin, che pure era dedito dalla giovinezza alla pratica dello 
            pseudonimo, non li abbia mai usati, ma li abbia tenuti per sé, 
            trattandoli come gli ebrei trattavano il nome segreto che gli veniva 
            dato alla soglia della pubertà. Questo testo fondamentale di 
            Benjamin andrebbe finalmente riletto alla luce della posizione di 
            Milner in modo da sottrarlo definitivamente alla nefasta interpretazione 
            di Scholem. Sul tema dei nomi si veda di J-C. Milner, Nomi indistinti, 
            tr. it. di B. Chitussi, Quodlibet, Macerata 2003. Una considerazione 
            simile andrebbe fatta per la questione dello ‘studio’: 
            a questo riguardo basta un rimando al saggio su Kafka in cui se per 
            un verso si riconosce che lo studio «è la porta della 
            giustizia», ossia che è l’unico modo per rimettere 
            insieme i frammenti della propria esistenza «nell’epoca 
            della massima estraneazione degli uomini fra loro», si aggiunge 
            immediatamente che mai Kafka ha osato «associare a questo studio 
            le promesse che la tradizione ricollegava a quello della Torah» 
            e che di conseguenza «i suoi aiutanti sono sagrestani rimasti 
            senza parrocchia, i suoi studenti, scolari senza scrittura» 
            (Cfr. W. Benjamin, Franz Kafka, tr. it. di R. Solmi, in Id., 
            Opere complete. VI. Scritti 1934-1937 (a cura di R. Tiedemann 
            e H. Schweppenhäuser), ed. it. a cura di E. Ganni con la collaborazione 
            di H. Riediger, Einaudi, Torino 2004, pp. 151-152).  
          
         
         
          12 
            Come è noto, all’interno del mondo ebraico si può 
            sviluppare un odio antigiudaico che, a partire dalla Shoah, si manifesta 
            sotto l’accusa di nazismo. Ultimo caso: la destra israeliana 
            nei confronti di Sharon, reo di aver voluto lo smantellamento delle 
            colonie presenti nella striscia di Gaza.  
         
         
          13 
            La cui persistenza anche dopo la Shoah proclama però, come 
            nota Milner, anche «lo scacco dello sterminio» (J-C. Milner, 
            Les penchants criminels de l’Europe démocratique, 
            cit., p. 114).
         
         
          14 
            J-C. Milner, Les penchants criminels de l’Europe démocratique, 
            cit., p.120.
         
         
          15 
            Se è proprio necessario citare nella costituzione dell’Europa 
            unita quali siano le radici da cui prende linfa la sua storia, proporrei 
            di indicarne una sola usando un solo nome: Auschwitz.  
          
         
         
          16 
            J-C. Milner, Les penchants criminels de l’Europe démocratique, 
            cit., p. 123.
         
         
          17 
            Il passo sulla tripartizione della funzione paterna in riferimento 
            ai registri simbolico, immaginario e reale si trova in J. Lacan, Il 
            seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi 1959-1960, 
            tr. it. di M. D. Contri, Einaudi, Torino 1994, pp. 385-386. Il fatto 
            che la psicoanalisi resti ferma sulla ‘quadruplicità’ 
            spiega l’accusa nazista di essere una ‘scienza ebraica’.
         
         
          18 
            Cfr. J. Lacan, Des Noms-du-père, Seuil, Paris 2005.
         
         
          19 
            W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., ibidem.
         
         
          20 
            W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni su Nikolaj Leskov, 
            tr. it. di R. Solmi, in Id., Opere complete. VI. Scritti 1934-1937, 
            cit., p. 330.
         
        
        
        
        
         
          25 
            W. Benjamin, Il surrealismo. L’ultima istantanea sugli intellettuali 
            europei, tr. it. di A. Marietti Solmi, in Id., Ombre corte. 
            Scritti 1928-1929, ed. it. a cura di G. Agamben, Einaudi, Torino 
            1993, pp. 266-267.
         
         
          26 
            W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della 
            sua riproducibilità tecnica, tr. it. di E. Filippini e 
            H. Riediger, in Id., Opere complete. VI. Scritti 1934-1937, 
            cit., p. 301.
         
         
          27 
            G. Simmel, La rovina, tr. it. di G. Carchia, in «Rivista 
            di estetica», n° 8, anno XXI, Rosenberg & Sellier, Torino 
            1981, p. 121.
         
        
        
        
        
        
        
        
        
         
          36 
            «Il pathos di questo lavoro: non ci sono epoche di decadenza»: 
            cfr. W. Benjamin, Opere complete. IX. I «passages» 
            di Parigi, (a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser), 
            ed. it. a cura di E. Ganni con la collaborazione di H. Riediger, Einaudi, 
            Torino 2000, p. 511.  
         
         
          37 
            Sul rapporto fra apocatastasi, ruolo del negativo e, come si vedrà 
            fra poco, collezionismo, si confronti: G. Schiavoni, Walter Benjamin. 
            Il figlio della felicità, Einaudi, Torino 2001, pp. 166-167.
         
         
          38 
            Cfr. W. Benjamin, Opere complete. IX. I «passages» 
            di Parigi, cit. p. 513, frammento N 1a, 3.
         
         
          39 
            Sulla metodologia storiografica di Benjamin rinvio al mio L’eccedenza 
            del presente. Sulla metodologia storiografica di Walter Benjamin, 
            in Id., La lingua muta e altri saggi benjaminiani, cit.
         
         
          40 
            W. Benjamin, Opere complete. IX. I «passages» di Parigi, 
            cit., p. 514, frammento N 1a, 8.
         
         
          41 
            Ivi, p. 515, frammento N 2, 6.
         
         
          42 
            L’obsolescenza di entrambe viene vissuta da Benjamin in prima 
            persona: da un lato il fallimento del tentativo di vincere una cattedra 
            universitaria con un titolo scientifico come l’Ursprung des 
            deutschen Trauerspiels; dall’altro le difficoltà 
            nel sostenersi economicamente con la propria attività di saggista 
            dimostrate dalle richieste disperate a Adorno e Horkheimer perché 
            lo facessero pubblicare sulla rivista dell’Istituto di Francoforte 
            prima e dopo l’esilio negli Stati Uniti, e dal fatto che i contrasti 
            teorici che talora lo contrapponevano ad Adorno – per esempio 
            sul saggio su Baudelaire – significavano in realtà un 
            mancato pagamento.
         
         
          43 
            Su questo tema si veda la fondamentale ricerca di Francesco Orlando, 
            Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Einaudi, 
            Torino 1993.
         
         
          44 
            W. Benjamin, Opere complete. IX. I «passages» di Parigi, 
            cit., p. 12.
         
        
         
          46 
            Per questa e le precedenti ivi, p. 13.
         
        
        
         
          49 
            W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, tr. it. di F. Cuniberto, 
            in Id., Opere complete. VI. Scritti 1923-1927, cit., p. 213.
         
         
          50 
            J. Lacan, Il seminario, Libro VII. L’etica della psicoanalisi. 
            1959-1960, ed. it. a cura di G. B. Contri, Einaudi, Torino 1994, 
            p. 144. Il Kant della Critica del giudizio avrebbe rubricato 
            la striscia prevertiana delle scatole di fiammiferi fra gli esempi 
            di bellezza libera ponendola accanto ai fiori, a molti uccelli come 
            il pappagallo, il colibrì e l’uccello del paradiso, alle 
            conchiglie marine, ai disegni alla greca, al fogliame in cornice, 
            insomma a tutte le cose che di per sé non significano niente 
            (cfr. I. Kant, Critica della capacità di giudizio, ed. 
            it. a cura di L. Amoruso, Rizzoli, Milano 1995, pp. 217-218).
         
        
         
          52 
            Si confronti a questo proposito il passo del frammento di Benjamin 
            citato in precedenza in cui si accenna al fatto che al collezionista 
            non è estraneo il «‘topos iperuranico’ che 
            secondo Platone ospita gli archetipi immutabili delle cose», 
            anche se per dire immediatamente poco che esso si perde, e che, se 
            ritorna, ritorna «reggendosi a un fuscello di paglia, e dal 
            mare di nebbia che circonda il suo senso si stacca come un'isola l'oggetto 
            appena acquistato».
         
         
          53 
            Per questa e la precedente cfr. J. Lacan, Il seminario, Libro VII. 
            L’etica della psicoanalisi. 1959-1960, cit. p. 144.