indice del numero 4

 

 


 

Le rovine di Benjamin

di Bruno Moroncini

 

Così immediate le rovine
Da assomigliare alla certezza dell'amore.

Vladimir Holan


I)

Per il lettore esperto di filosofia e profondo conoscitore della produzione benjaminiana il significato del titolo che ho scelto per questo contributo sul tema più generale delle rovine risulta semplice e immediato: ‘Le rovine di Benjamin’ indica e compendia il ruolo e la presenza del concetto di rovina all’interno della riflessione benjaminiana, la sua appartenenza ad una costellazione ideale di cui fanno parte i concetti affini di reliquia, ricordo, torso, frammento, scarto e rifiuto. Risponde alla domanda: che cosa ha pensato Benjamin pensando la rovina(1 ?

Per il lettore ingenuo, invece, anche se non per questo meno acuto, un sintagma come ‘Le rovine di Benjamin’ potrebbe risuonare alla stessa stregua di un’espressione come ‘Le rovine di Pompei’, oppure di una frase in cui si constati che quest’anno, a primavera, ho fatto un viaggio in Grecia per andare a vedere le rovine dell’Acropoli di Atene. In questo caso ‘Le rovine di Benjamin’ vorrebbe dire: di Benjamin, della sua vita, nonché della sua opera, restano rovine e riflettere su Benjamin, interpretarlo o più semplicemente ricostruirne i tragitti esistenziali e/o le elaborazioni concettuali, significa aggirarsi in mezzo ad un agglomerato di rovine.

Non so se abbia forza di legge, ma sono egualmente convinto della verità iscritta nella tesi secondo la quale per poter pensare la rovina, per poter elevare questo concetto empirico al rango di una categoria, sia necessario esporre se stessi ad un divenir-rovina, sottomettersi ad un processo rovinoso, esperire infine su se stessi gli effetti malinconici derivanti dallo scoprire che il proprio statuto soggettivo possiede la consistenza di ciò che resta di una dissoluzione(2. Questa tesi verrebbe confermata d’altronde dalla profonda revisione che negli anni venti - gli stessi della formazione e della prima produzione di Benjamin – viene condotta della dottrina delle categorie soprattutto da Heidegger nel seminario sulle interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Se, come dice Heidegger, le categorie il cui scopo è quello di esprimere e interpretare la vita non sono né «una distorsione dello spirito» o «una fantasticheria della vita e del pensiero elevata a principio» e neppure «dei semplici dati accidentali banalmente constatabili», ma «sono in vita nella propria vita concreta», «in vita nella fatticità»(3, se cioè le categorie prima di darsi nel e attraverso il pensiero, si danno nella e attraverso la vita, da cui solo in un secondo momento e a forza di riflessione vengono estratte ed isolate, allora anche la rovina – che non lo si dimentichi è una delle categorie individuate anche da Heidegger(4 - prima di essere un costrutto del pensiero è una forma-di-vita, una forma certo a rischio costante dell’informe, ma pur sempre una forma, ossia un modo originale, in carne ed ossa si potrebbe dire, con cui la vita concreta, la vita nella sua fatticità, si articola e diviene.



II)

Di quest’intuizione, presente già nel mio primo libro su Benjamin, per la quale anche il testo di Benjamin è rovina, «fa parte di quell’ammasso di macerie che nelle Tesi l’Angelo trascina via con sé, mentre una tempesta lo travolge suo malgrado»(5, ho trovato una conferma in un libro recente di Jean-Claude Milner dal titolo inquietante e scandaloso, Les penchants criminels de l’Europe démocratique. Non ricostruirò qui tutte le argomentazioni di questo libro duro e sgradevole per una certa ideologia europeista che contrappone il vecchio continente democratico, pacifista e solidarista al nuovo dispotico-imperiale, bellicista e individualista. Per dirla in breve, l’inclinazione criminale dell’Europa democratica consisterebbe nella sua mai superata voglia di sterminio nei confronti degli ebrei: il problema rappresentato dall’esistenza del nome ebraico (il nome ‘ebreo’ e il nome di ‘ebreo’) non sarebbe stato risolto dall’ecatombe dei campi di concentramento, la ‘soluzione finale’ si sarebbe, ‘purtroppo’, rivelata solo transitoria. Per l’Europa uscita dalla rivoluzione francese e avviata da allora sul cammino del liberalismo e della democrazia, la presenza, dentro i suoi confini, al di fuori sui suoi bordi interni/esterni, e anche lontano nel mondo, degli ebrei, è un problema che deve essere risolto ad ogni costo, anche delegandolo, se ciò fosse necessario, a qualcun’altro, oggi per esempio agli arabi. Ma perché per l’Europa il nome ebraico è qualcosa di talmente irricevibile al punto da costituire, più che una domanda alla quale è sufficiente trovare una risposta – come, secondo Milner, in Sartre per il quale tutta la questione si risolve rispondendo al quesito: ‘come è possibile un antisemita?’ –, un problema o, come si direbbe oggi, un’emergenza, come l’aumento dei reati contro il patrimonio o un’influenza particolarmente virulenta o ancora una proliferazione d’insetti nocivi, i quali, una volta che siano stati individuati, non possono che richiedere urgentemente una soluzione, pena la messa a rischio del benessere di tutti? Proprio per il fatto che l’Europa, da Aristotele in poi, pensa se stessa, gli stati che di volta in volta la compongono, i popoli che la formano e le società, i gruppi e le classi che ne costituiscono l’articolazione, come delle totalità chiuse e compatte, come appunto dei ‘tutti’ che non ammettono disseminazione e illimitatezza.

Detto in altro modo, l’Europa conta se stessa, a qualunque livello di complessità sociale e politica – società civili, stati-nazione, Unione europea – avvenga la valutazione, sempre come un’unità, come un tutto ordinato e gerarchizzato e attribuisce di conseguenza alla sfera della politica il compito di porre un limite a quello che le appare come il più grave attentato alla consistenza dei popoli e delle società, appunto la disseminazione, l’impossibilità di riunire in un insieme tutti gli elementi fluttuanti, contraddittori e dispersi che ne fanno parte. Forte della teoria degli insiemi di Georg Cantor che postula, accanto agli insiemi consistenti che si contano per uno, quelli inconsistenti che sono illimitati e della teoria lacaniana del pastout, del non tutto, che sulla scia di Cantor serve a Lacan per determinare logicamente l’insieme delle donne, Milner dimostra che gli ebrei sono da sempre un pastout, una realtà disseminata, che nemmeno all’apice dell’assimilazione è potuta diventare una ‘parte’ di un tutto ordinato e limitato. Il nome ‘ebreo’ rappresenta dunque nella e per la storia europea-occidentale uno scandalo insopprimibile e per ciò stesso un problema da risolvere: l’esistenza dell’ebreo è un attentato continuo all’identità europea. Per questo va estirpata.

Paradossalmente il ‘problema’ ebraico si è acuito proprio con la diffusione della forma di governo democratica per il fatto che quest’ultima è l’opzione politica che più di ogni altra corrisponde a delle società – civili si sarebbe detto una volta – che, essendosi emancipate dalle relazioni di potere tradizionali, avendo dissolto i corpi intermedi e distrutta ogni gerarchia sociale, politica e culturale, essendo divenute insomma an-archiche, ossia prive di archè, di un’origine temporale e di un principio d’ordine, sono di fatto degli insiemi inconsistenti, delle realtà illimitate(6. Da qui, secondo Milner, due declinazioni della democrazia: quella europea che tenta di dividere e di scindere società e politica facendo in modo che la seconda ponga limiti alla prima, e quella americana che, al contrario, tende a dissolvere la politica nella società. Da qui anche due posizioni differenti rispetto al nome ebraico, che per l’Europa, nonostante la, o a causa della, gigantesca denegazione susseguente allo sterminio, resta un problema da risolvere(7, mentre per gli Stati Uniti, come d’altronde per il mondo arabo per il quale l’antisemitismo è una merce d’importazione, ovviamente europea, è soltanto uno degli elementi della politica mondiale. Se ne deduce allora che fin quando l’Europa vedrà con preoccupazione, se non con vera e propria angoscia, l’avanzare dell’illimitato e tenterà di contrastarlo con una politica dei limiti spacciata per democrazia, le sue tendenze criminali non solo non subiranno alcun arretramento, ma anzi s'intensificheranno fino all’esplosione.

è in questo contesto che compare nell’argomentazione di Milner il riferimento alle Tesi sul concetto di storia e in particolare alla IX, quella appunto segnata dall’immagine dell’Angelo della storia davanti al quale si accumula un immenso ammasso di macerie (Trümmer). Chi è l’Angelo e che cosa sono queste macerie presso le quali egli vorrebbe trattenersi per «destare i morti e riconnettere i frantumi»(8? Nell’Angelo, scrive Milner, «che contempla volto all’indietro un ammasso di rovine», «si riconosce Benjamin rivolto verso le rovine metonimiche di un solo oggetto, innominato: la persistenza del nome ebraico, con lo studio per supporto»(9. Per comprendere questo difficile enunciato, proviamo a partire dalla fine: dal momento in cui uno stato ebraico cessò di esistere definitivamente, si pose il problema del modo con cui un’identità ebraica avrebbe potuto sopravvivere in una situazione caratterizzata, non solo dalla perdita di un potere politico autonomo, ma anche dalla dispersione territoriale, cioè dalla diaspora. La risposta che risultò vincente fu quella farisaica consistente nella sostituzione, nella metonimia appunto, dell’identità politica con quella religioso-culturale, della sovranità politica con lo studio della Torah. Il nome ebraico sarebbe sopravvissuto nascosto sotto lo studio. Successivamente quando comincia il processo dell’emancipazione che culmina nell’assimilazionismo allo studio farisaico della Legge si sostituisce quello della cultura europea: il nome ebraico si confonde con la tradizione umanistica e l’emancipazione politica dell’ebreo fa tutt’uno, stando al Marx della Questione ebraica, con l’emancipazione dell’uomo dal dominio borghese del denaro. Alla fine sembra che l’ebreo non esista più: si è dissolto nell’umanità generica che nel momento in cui ne è la tomba ne è anche la resurrezione. Il vero ebreo è il non più ebreo(10.

Da questo punto di vista, Benjamin sembra, almeno in parte, un perfetto esempio di questo processo di rimozione, operato attraverso spostamento, del proprio nome ebraico: politica rivoluzionaria e letteratura, impegno e studio, Brecht e Scholem, Marx e Baudelaire, Unione Sovietica e Francia, sono i termini di una sintesi che Benjamin ha incessantemente tentato di raggiungere nel corso della sua vita e del suo lavoro intellettuale, dovendone constatare a più riprese lo scacco fino al crollo rovinoso testimoniato dalle Tesi. Contro una tesi storiografica ampiamente accreditata che vede in Benjamin un conflitto non risolto fra teologia (Scholem) e politica (Brecht), la posizione di Milner situa più correttamente il dissidio fra le soluzioni immaginarie offerte dalla politica e dallo studio filosofico-letterario e il reale di un nome: il nome ebraico di Walter Benjamin(11. La cui persistenza metonimica finisce per imporsi mandando in rovina tutti i tentativi di occultarlo, farlo dimenticare, o definitivamente estirparlo, che gli stessi ebrei, colti anche loro alle volte dalla sindrome dell’antisemitismo(12, hanno potuto mettere in atto lungo il corso della loro storia. In questo senso il nome ebraico è una rovina per colui che lo porta, manda in rovina le formazioni di compromesso, le metafore e le metonimie, con cui si cerca di coniugare reale e immaginario, e infine è esso stesso una rovina, un rifiuto della storia.

A trasformare definitivamente in rovine quelle costruzioni che agli occhi dell’ebreo berlinese nato intorno al 1900 erano sembrate delle nicchie perfette per proteggersi dal destino iscritto nel suo nome sono due eventi di cui le Tesi rappresentano la registrazione e il tentativo di risposta: il patto di non aggressione stipulato fra Stalin e von Ribbentropp che sancisce il completo abbandono delle residue speranze che un intellettuale comunista poteva riporre ancora alla fine degli anni trenta nella Russia come patria dei soviet, la cui involuzione era stata tuttavia denunciata da Benjamin già nel 1925 nel Diario moscovita; e subito dopo, la sconfitta della Francia e la costituzione del governo collaborazionista di Vichy che trasformano la patria di Baudelaire e Proust, di Valery e dei surrealisti – il lato dello studio - in un’appendice della Germania nazista, costringendo il già esule Benjamin ad una nuova fuga bruscamente interrotta su di un valico dei Pirenei dalla morte per suicidio. Quel che accadde a Benjamin è ciò che colpì tutti gli ebrei europei, nessuno escluso, dal 1933 in poi fino alla caduta del regime e alla liberazione dai campi di concentramento dei pochi sopravvissuti: l’essere apostrofato come ‘ebreo’, chiamato per e col nome, col suo nome ebraico, indipendentemente da tutte le differenze, fossero esse di ceto, di classe, di cultura, di sesso e professionali, che potevano distinguere lui come ogni altro ebreo da tutti gli altri, ebrei e non ebrei. Di più: di essere richiamato violentemente al suo essere niente altro che un ebreo, solo un ebreo, niente di più che un ebreo, anche e soprattutto quando egli si fosse del tutto dimenticato di essere un ebreo, non andasse più al tempio, non santificasse il sabato, e non solo si ritenesse in perfetta buona fede un tedesco, un polacco, un francese e un italiano, ma anche professasse l’ateismo o fosse divenuto semplicemente indifferente.

A nulla è valso essere divenuti un professore universitario, un medico importante, un banchiere di successo: si è solamente ebrei. A nulla vale aver cambiato religione o non averne alcuna: si è sempre e solo ebrei. Vale solo il nome, il nome ebraico(13. Ma se vale solo il nome, ossia la brutale datità di nome e patronimico, di nome e Nome-del-padre, ciò vuol dire che, facendo tutt’uno con l’avere un nome ebraico, l’essere ebreo è solo una faccenda generazionale, coincide con l’iscrizione in una catena genealogica, con ciò che con Lacan (e con Levi-Strauss) chiameremo le strutture elementari della parentela e che Milner chiama invece, con un richiamo heideggeriano, la ‘quadruplicità’, la quadratura cioè formata dalle coppie maschile/femminile e genitori/figli. Un ebreo si definisce solamente per il fatto che discende da genitori ebrei ed è l’effetto della differenza sessuale. La persistenza del suo nome «non dice nient’altro, scrive Milner, che la quadruplicità stessa»(14.

Da ciò l’odio antiebraico che la persistenza del nome rinfocola e riproduce incessantemente. Giacché nulla è più specifico dell’identità europea, formata da secoli di onto-teo-logia greca, di cristianesimo, di liberalismo e socialismo(15, vale a dire di idealismo, del tentativo, la cui origine affonda d’altronde in una domanda immemoriale, antica quanto la stessa «umanità parlante», di «disgiungere la perpetuazione della specie umana e il contatto sessuale; affrancarla dalla costrizione dell’Altro sesso per farne un puro passaggio dallo Stesso allo Stesso; togliere ogni senso alla possibilità che il bambino possa nominare i propri genitori; fare in modo che il padre non possa nominare fra le donne quella che porta il bambino che egli ha generato; fare in modo che la madre non possa nominare tra gli uomini quello di cui ella porta il bambino, fare in modo che i nomi di padre e di madre perdano ogni senso diverso da quello contrattuale, se non convenzionale»(16. L’aspetto delirante della sindrome idealistica sta nella pretesa di sostituire integralmente la provenienza bassa e materiale della specie umana, quella che passa per il reale della differenza sessuale e per il simbolico della catena delle generazioni, con l’origine alta e spirituale, del tutto depurata dalle scorie dell’alterità e della differenza. Il fatto che questa origine una e identica a sé possa a sua volta definirsi come una forma di paternità ideale e/o divina non smentisce ma semmai conferma il collasso che essa fa subire alla funzione logico-esistenziale del Nome-del-padre. Giacché, come hanno mostrato la psicoanalisi e Lacan, la paternità cosiddetta ‘ideale’ è piuttosto quella costruita dal registro immaginario per il quale l’edificazione di un dio amorevole e provvidenziale cui si deve la creazione di tutto quel che esiste secondo un disegno, non solo intelligente, ma soprattutto volto al bene, è la premessa per la querimonia risentita, anticipo del vero e proprio odio, con cui lo rimproveriamo di averci fatto male, di averci privato di quella perfezione cui come suoi figli, fatti a immagine e somiglianza sua, non potevamo non aver diritto(17.

Ben diverso il ruolo della paternità simbolica, del Nome-del-padre o, secondo la dizione del tardo Lacan, dei Nomi-del-padre(18. Qualunque cosa si dica o si faccia in ‘Nome-del-padre’, questa stessa formulazione contiene in modo implicito le tesi che 1) il padre che s’invoca non lo si è, non lo si è mai stato e neppure lo si sarà mai; 2) che in realtà egli non è mai stato o, per dirla in altro modo, che è già da sempre morto; 3) che un padre già da sempre morto non può essere quell’uno o quel principio da cui tutto deriva e cui ogni cosa viene ricondotta. In base all’argomentazione precedente sugli insiemi inconsistenti, il Nome-del-padre è il significante del pastout, dell’insieme cioè i cui elementi possono solo essere contati uno per uno, come le donne, e mai per uno. ‘Di generazione in generazione’ si srotola la storia degli ebrei, di padre in figlio, per via di differenza sessuale: la persistenza del nome ebraico non ha altra base materiale che la ‘quadruplicità’. Basta d’altra parte aprire l’Antico testamento a caso e leggere ad esempio una parte della genealogia di Adamo:


«E Chenan visse settan’anni e generò Maalaleel, e dopo aver generato Maalaleel, Chenan visse ancora ottecentotrent’anni e generò figli e figlie. Così, tutto il tempo in cui visse Chenan fu di novecentodieci anni, poi morì. E Maalaleel visse sessantacinque anni e generò Iared, e dopo aver generato Iared visse ancora ottocentotrent’anni e generò figli e figlie. Così tutto il tempo in cui visse Malaaleel fu di ottocentonovantacinque, poi morì. E Iared visse centossentadue anni e generò Enoc e dopo aver generato Enoc visse ancora ottocento anni e generò figli e figlie»(Genesi 5-6).


Che si voglia andare in su verso l’origine o ci si proietti a capofitto verso l’avvenire, le generazioni si possono solo enumerare una per una e una dopo l’altra e ogni generazione si autorizza a perpetuare il proprio nome, ossia a generare a propria volta, solo in nome del padre precedente, e così è ogni volta, qualunque sia il segmento, in avanti o all’indietro, che si sceglie lungo la catena. Se tutto questo è vero, che cosa può impedire allora che questa concatenazione in linea di diritto illimitata che lega gli avi ai pronipoti, che questa storia senza origine né fine dell’‘umanità parlante’, non appaia, una volta cadute tutte le illusioni, nient’altro che come «un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie»(19?



III)

Nel saggio del 1936 intitolato allo scrittore russo Nikolaj Leskov e dedicato alla crisi dell’arte della narrazione databile a partire dall’esperienza inenarrabile della prima guerra mondiale, Benjamin cita un passo di un racconto di Johann Peter Hebel, Insperato incontro, per far vedere non solo come la morte, del tutto espulsa dallo spazio percettivo dei moderni, sia la fonte da cui il narratore trae la propria autorità, ma anche come essa, con il suo periodico ripresentarsi nella vita degli uomini, il suo scandire l’ordine delle generazioni, faccia da «storia naturale», ossia da sfondo strutturale, su cui situare le singole storie che capitano agli uomini. Un giovane apprendista che lavora nelle miniere di Falun – così inizia il racconto di Hebel – si fidanza. Alla vigilia delle nozze è vittima del crollo della miniera. La fidanzata gli resta fedele oltre la morte e vive abbastanza per riconoscere un giorno, già vecchissima, nel cadavere che viene riportato alla luce dalla galleria abbandonata, e che, saturo di vetriolo, è rimasto intatto dalla disgregazione, il corpo del fidanzato. Dopo il ritrovamento muore anch’essa. A questo punto Hebel deve rendere palese la lunga serie degli anni trascorsi e lo fa con queste frasi:


«Nel frattempo la città di Lisbona fu distrutta da un terremoto, e passò la guerra dei Sette Anni, e mori l'imperatore Francesco I; fu soppresso l'ordine dei Gesuiti, e fu divisa la Polonia, e mori l'imperatrice Maria Teresa, e fu giustiziato Struensee. L'America si liberò, e la forza unita dei francesi e degli spagnoli non poté occupare Gibilterra. I Turchi circondarono il generale Stein nella fossa dei veterani in Ungheria, e mori anche l'imperatore Giuseppe. Il re Gustavo di Svezia conquistò la Finlandia russa, e cominciò la Rivoluzione francese e la lunga guerra, e anche l'imperatore Leopoldo II scese nella tomba. Napoleone conquistò la Prussia, e gli inglesi bombardarono Copenaghen, e i contadini seminarono e mieterono. Il mugnaio macinò, i fabbri martellarono, e i minatori scavarono in cerca di vene metallifere nella loro officina sotterranea. Ma quando i minatori a Falun nell'anno 1809…»(20.


è impressionante la somiglianza ai limiti del plagio fra questa sequenza ‘storica’ e quella ‘mitica’ e ‘favolosa’ delle genealogie di Adamo: come la morte degli imperatori scandisce il corso degli eventi storici, rende discreto il continuum temporale e permette di ‘contare’ e quindi di ‘raccontare’ i fatti, così quella dei patriarchi ritma il passare delle generazioni. Lo ‘storico di professione’, lo storico forgiato dalla disciplina della storiografia come scienza, attribuirà, non senza ragione, questo accostamento alla confusione imperdonabile fra cronaca e ‘storia’. Ma il punto è proprio lì: infatti, come scrive Benjamin, «il cronista è il narratore della storia»(21. In altri termini, mentre la cronaca è una delle forme del genere epico, ossia dell’arte della narrazione, la storiografia rappresenta «il punto d’indifferenza creativa di tutte le forme dell’epica. In questo caso la storia scritta starebbe alle forme epiche come la luce bianca ai colori dell’iride»(22. La storiografia spiega, la cronaca racconta: allo storico spetta il compito di «spiegare, in un modo o nell’altro, gli eventi di cui si occupa», interpretare «il modo in cui s’inseriscono nel grande e imperscrutabile corso del mondo», al cronista quello di occuparsi della loro «esatta concatenazione» limitandosi a «presentarli come esempi del corso del mondo»(23. C’è una differenza sostanziale fra lo ‘spiegare’ come gli eventi s'iscrivano nel corso del mondo e il narrare un evento perché valga come esempio di come va il corso del mondo, cioè di quale sia il suo schema costitutivo, la sua struttura di fondo. Da questo punto di vista non ha alcuna importanza che l’idea complessiva che si ha della storia umana sia di tipo provvidenziale come nel caso della cultura medievale o profano come nella modernità: il cronista medievale continuerà a raccontare gli eventi come esempi del piano divino e il narratore moderno, almeno fino alla prima guerra mondiale, di un piano immanente e mondano. Per essere più chiari: proprio perché ponevano «alla base della loro narrazione storica il piano imperscrutabile della salvezza», i cronisti medievali erano «liberati in anticipo dell’onere di una spiegazione»(24.

Nella caratterizzazione dello storico come di colui che spiega, si vede delinearsi la critica che nelle Tesi Benjamin farà dell’Historismus, ossia dell’ideologia, intesa nel senso tutto marxiano di falsa coscienza, della scienza storica, la quale infatti potrebbe, e secondo Benjamin deve, essere presa in carico dal materialismo. L’errore dello storicismo, che replica d’altronde la realtà fantasmagorica, vale a dire feticistica, della società moderna, sta infatti nel porre come scopo della storiografia la spiegazione del singolo fatto storico così ‘come esso è autenticamente stato’, senza curarsi del carattere complessivo del corso del mondo, un interesse giudicato sorpassato e proprio di vecchie e decadute filosofie della storia. Tale è anzi il disinteresse dello storicismo per il ‘corso del mondo’ che esso viene ridotto a mero continuum temporale, ad una forma del tempo omogenea e vuota fatta di istanti tutti uguali fra di loro, in cui, accanto alla comprensione del disegno complessivo secondo il quale si srotolano gli eventi, scompare anche ogni possibilità di invertirne la direzione e il senso, sospendendone il decorso e scardinandone le sequenze.

Va chiarito, infatti, che di fronte ai fenomeni propri della modernità quali la decadenza della narrazione, come anche dello studio o ancora dell’aura nel campo delle arti figurative, l’atteggiamento di Benjamin non è mai di rassegnazione o di nostalgia, tanto meno di risentimento o di accidia. Quello che occorre è trovare i sostituti che, nelle mutate condizioni storiche, di fronte ad una nuova configurazione del corso del mondo, svolgano le funzioni dei loro corrispondenti antichi: al posto della tragedia subentra il Trauerspiel, a quello del poema epico il romanzo moderno, la Recherche a esempio, alle odi di Pindaro le liriche di Baudelaire, all’unicità dell’opera d’arte la riproducibilità tecnica della fotografia e del cinematografo. Lo stesso deve accadere nel campo della conoscenza storica: la risposta alla perdita della memoria del passato non va cercata in quell’eccesso di sapere storico che è lo storicismo, ma nel carattere discontinuo, intermittente, a salti, del materialismo storico. Non si tratta di opporre alla catastrofe del mondo la fede nel progresso, al pessimismo l’ottimismo, al conflitto l’intesa. Giacché in fin dei conti che il corso del mondo sia quello adombrato dal mito arcaico di cui la tragedia rappresenta il deragliamento consapevole o dalla catena delle generazioni riscattata dall’alleanza colla divinità o dalla cronaca del monotono alternarsi di re e imperatori cui dà senso l’arte del racconto, o infine dalla storia universale cui risponde il materialismo storico, in ogni caso esso, una volta che sia guardato senza i veli immaginari, rivela il suo tratto catastrofico, il suo ridursi ad un ammasso di macerie. Il problema insomma non è negare ad ogni costo la realtà della rovina, far finta di non vederla, illudersi che non esista o non abbia effetti, ma stabilire quale uso farne, come trattarla, in che contesto inserirla, secondo quale direzione trasformarla.

Tutta, o quasi, la produzione benjaminiana degli anni trenta, compreso qualche sconfinamento anche in quelli immediatamente precedenti, si pone, se così si può dire, sotto l’insegna del primato della politica, primato della politica che, come si sa, fa tutt’uno con l’adesione al materialismo storico. Ciò non farebbe che confermare la tesi di Milner che attribuisce all’eccesso di fiducia nelle virtù della politica rivoluzionaria, oltre che in quelle dello studio, l’esito rovinoso della vita e dell’opera di Benjamin attestato dalle Tesi. Tuttavia, a guardar meglio, l’idea della politica che Benjamin elabora già a partire dal saggio sul surrealismo, e poi in quello sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, passando per L’autore come produttore e Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, e per molti altri ancora, fino a giungere alle stesse Tesi, non ha niente delle illusioni ideologiche che caratterizzano la socialdemocrazia da un lato e lo stalinismo dall’altro. Allora lo scoramento spinto fino alla scelta del suicidio, scelta estrema fatta, non lo si dimentichi, per sfuggire all’aguzzino, non dipende tanto dalla politica in sé quanto dalla difficoltà di far diventare egemone nel movimento operaio una posizione inizialmente minoritaria senza d’altronde arretrare di un passo rispetto all’ideologia che di per sé raccoglie sempre il plauso delle maggioranze ed esiste, infatti, esclusivamente a questo scopo: quello che era accaduto alla frazione bolscevica del movimento rivoluzionario russo era diventato difficile se non impossibile solo vent’anni dopo. Se a questo si aggiunge la sorpresa per un evento che per essere previsto avrebbe richiesto il possesso almeno dell’onniscienza divina e non è detto che sarebbe stata sufficiente, e cioè che il paese uscito dalla prima rivoluzione comunista vincente della storia umana si sarebbe alleato con il peggior nemico dell’umanità, il quadro risulterà completo.

Nella prospettiva appena delineata, il saggio sul surrealismo è addirittura lapidario: la politica comunista consiste nell’ «organizzare il pessimismo», la sua situazione emotiva fondamentale non è né l’angoscia né la noia, ma la sfiducia. Che cosa significa comunismo? Comunismo «significa pessimismo su tutta la linea. Pessimismo assoluto. Sfiducia nella sorte della letteratura, sfiducia nella sorte della libertà, sfiducia nella sorte dell’umanità europea, ma soprattutto sfiducia, sfiducia e sfiducia verso ogni forma di intesa: tra le classi, tra i popoli, tra i singoli»(25. Il politico materialista sa che la letteratura, la libertà e l’umanità europea, così come tutte le forme di intesa e compromesso, se invocate come risposte alte e spirituali ai conflitti bassi e materiali che attraversano la società moderna, si rivelano essere alla fine nulla di più che palliativi, se non veri e propri inganni. E quand’anche fossero perseguite in buona fede, del tutto fiduciosi nelle loro ‘magnifiche sorti e progressive’, esse lascerebbero, una volta giunte a compimento, nient’altro che un ammasso di rovine. Se non si vuole cedere alla rassegnazione, non resta allora che organizzare politicamente le rovine, sfiduciando preventivamente qualunque tentativo di calmarne l’infiammazione rivoluzionaria attraverso l’emolliente morale, e laddove questo non bastasse, ricorrendo a quello estetico.

La diagnosi di Benjamin sulla malattia di cui soffre il mondo moderno nei primi decenni del secolo XX è, come è noto, di estetizzazione della politica; la prognosi è riservata e la terapia proposta: la politicizzazione dell’arte. Lo sviluppo accelerato dei nuovi media – fotografia, radio, cinematografo, telegrafo, telefono – non solo trasforma gli spazi percettivi e le forme di vita, ma soprattutto permette, almeno come precondizione materiale, l’emancipazione delle masse da ogni rapporto di dominio. La riproducibilità tecnica libera i fruitori dalla tirannia del ‘qui e ora’ e soprattutto li emancipa dalla sottomissione al carattere arcano, cioè auratico, dell’immagine, che cessa in questo modo di essere solidale col potere. I nuovi media comportano più ancora di un rivolgimento nel campo della produzione materiale, una vera e propria rivoluzione culturale per il fatto di permettere da parte delle masse una riappropriazione, senza precedenti nella storia, della cultura complessivamente prodotta dall’umanità, la quale, nonostante potenzialmente appartenesse a tutti, veniva confiscata ogni volta dalle classi dominanti, diventando il più potente strumento della loro legittimazione. Di fonte a questa situazione l’unico modo per schivare il carattere oggettivamente rivoluzionario dell’avvento dei media della riproducibilità tecnica delle immagini, si rivelava essere non quello, ormai impossibile, di spoliticizzare l’arte, bensì quello, esattamente inverso, di estetizzare la politica: se quest’ultima è divenuta ormai immagine – Benjamin parla già dell’esposizione pubblica, nei parlamenti, oltre che al cinema, della figura del politico, l’esposizione del politico alla percezione distratta delle masse – essa allora dovrà essere trattata come se fosse un’arte, l’arte della produzione, attraverso i mezzi della riproducibilità tecnica, di immagini che replichino, nelle mutate condizioni storiche, le prestazioni politiche di quelle del passato, di custodire cioè gli arcana imperi.

Il fascismo non è altro che questo per Benjamin: «il fascismo cerca di organizzare le recenti masse proletarizzate senza però intaccare i rapporti di proprietà di cui esse perseguono l’eliminazione». Pertanto «il fascismo vede la propria salvezza nel consentire alle masse di esprimersi (non di veder riconosciuti i propri diritti). Le masse hanno diritto a un cambiamento dei rapporti di proprietà; il fascismo cerca di fornire loro una espressione nella conservazione delle stesse; il fascismo tende conseguentemente a una estetizzazione della vita politica»(26. Le masse diventano esse stesse immagini infinitamente riproducibili, occupano la scena come delle merci, si espongono nella vetrina cine-televisiva, sono trasformate in immagini cultuali, servono a riprodurre quei rapporti di produzione da cui vorrebbero emanciparsi. Invece di emanciparsi dall’immagine le masse diventano a loro volta immagini, immagini paradossalmente auratiche in un mondo senz’aura.

Se la rovina è l’esito inevitabile dei processi naturali e di quelli storici, soprattutto di quella ‘storia naturale’ che fa da sfondo alle vicende umane, anch’essa allora si polarizzerà fra gli estremi dell’estetizzazione e della politicizzazione. Il saggio di Simmel del 1911 intitolato Die Ruine rappresenta bene il primo lato della dicotomia: la rovina considerata dal punto di vista estetico è una forma in cui è posto in stato di quiete il rapporto conflittuale e squilibrato fra le spinte distruttive della natura e quelle, al contrario, costruttive della cultura. Nella contemplazione della rovina, i due ambiti che si contendono l’esistenza umana, se non raggiungono l’equilibrio, tuttavia si placano, producendo sul fruitore uno stato d’animo pacifico. La presenza della rovina, che per Simmel è esclusivamente quella architettonica, non significa altro «che le forze meramente naturali prendono a impadronirsi dell’opera umana» e che di conseguenza «l’equazione fra natura e spirito rappresentata dall’edificio si sposta a favore della natura»(27. Rivendicando violentemente i suoi diritti, la natura, attraverso la rovina della costruzione, si vendica «per la violenza che lo spirito le ha arrecato formandola a propria immagine»(28.

Se il discorso sulla rovina terminasse qui, tutto il moderno processo di estetizzazione fallirebbe il proprio scopo: quel che conta nella rovina architettonica, infatti, è che, a differenza di «un quadro dal quale si siano staccate delle particelle di colore» o di «una statua con dei membri mutili» o ancora di «un antico testo poetico dal quale siano andati perduti parole e versi», i quali producono un effetto solo in base a quanto ancora sussiste in essi della forma artistica originaria o di quella che l’immaginazione può ricostruire, ma che nel loro aspetto immediato non costituiscono un’unità estetica restando opere d’arte monche ed incomplete, nella rovina invece viene in evidenza come «nella scomparsa e nella distruzione dell’opera d’arte siano cresciute altre forze e altre forme, quelle della natura, e così da ciò che in lei vive ancora dell’arte e da ciò che in lei vive già della natura, sia scaturito un nuovo intero, una unità caratteristica»(29. La rovina insomma non è ciò che resta di un’opera passata su cui esercitare una meditazione malinconica intorno al carattere caduco di ogni impresa umana; è al contrario un’opera nuova, diversa per essenza da quella di cui comunque attesta l’esistenza, e quindi autonoma. Ed è nuova e diversa perché rispetto all’opera che era, prodotto di uno solo dei lati dell’esistenza umana, quello spirituale, essa è stata lavorata dall’azione di quello naturale modificando in tal modo la propria costituzione complessiva. La rovina non è ciò che sopravvive di un’opera in via di decomposizione, ma un’opera a sé, una forma completamente nuova, la cui prestazione consiste nel permettere al fruitore la percezione di un diverso rapporto fra le forze naturali e quelle spirituali.

Se la rovina esercita un suo fascino speciale, ciò dipende dal fatto che in essa «un’opera dell’uomo viene percepita in ultima analisi come un prodotto della natura», ossia attraverso la rovina può mostrarsi il fatto che la natura non è soltanto «la struttura, la materia ovvero il mezzo prodotto», mentre lo spirito è «l’elemento definitivamente formativo, che pone un suggello», ma al contrario «che quanto lo spirito aveva innalzato diviene oggetto di quelle medesime forze che hanno formato i contorni della montagna e la riva del fiume»(30. La rovina mostra insomma che la natura non si riduce né a mero materiale da costruzione, né a sola furia distruttrice, ma è anche e soprattutto formativa, produttiva. In tal modo «la distruzione della forma spirituale grazie all’azione delle forze naturali, quel rovesciamento dell’ordine consueto, viene percepito quale un ritorno alla “buona madre” come Goethe definisce la natura»(31. Incomincia in tal modo a delinearsi il senso del carattere estetico che Simmel vuole attribuire alla rovina: la contemplazione estetica della rovina, nonostante il sentimento tragico che costantemente l’accompagna, è in realtà pacificatrice, rappacifica il fruitore con la distruzione. La rovina infatti testimonia che in un’opera dell’ingegno umano, per quanto essa sia stata formata dallo spirito, tuttavia «non sia mai svanita del tutto una pretesa giuridica della mera natura»(32; in se stessa «l’opera è sempre rimasta natura e allorché quest’ultima ora se ne riappropria non fa che realizzare in tal modo un diritto, fino ad allora sospeso, al quale essa però non rinuncia mai»(33. Da ciò deriva una conseguenza importante per Simmel, e cioè che «la distruzione non è alcunché che provenga dall’esterno, bensì è la realizzazione di un indirizzo collocato nello strato d’esistenza più profondo di ciò che è distrutto»(34. La distruzione è parte integrante, perché legittima, dell’opera, e di più produce opere, quali appunto le rovine, che nulla hanno da invidiare a quelle che sono il risultato della sola forza costruttiva dello spirito. Concludendo, Simmel individua la prestazione della rovina architettonica, vale a dire quella «pace profonda che come un sacro incanto» la circonda, nel fatto che «l’oscuro antagonismo che condiziona la forma di ogni esistenza» nella rovina «non è conciliato in un equilibrio», bensì «lascia prevalere l’una parte e annientare l’altra, offrendo tuttavia in quest’azione un’immagine sicura della forma, capace di persistere in quiete»(35. Invece di essere ciò che distrugge la forma nella misura in cui quest’ultima funziona come fonte di legittimazione del dominio, la rovina, per Simmel, è la forma o, più esattamente, la messa in forma della distruzione.





IV)

Anche Simmel - la riflessione sulla rovina ne è la chiara dimostrazione - fa parte, come Benjamin e Riegl, della schiera di quelli per i quali non esistono epoche di decadenza, per i quali cioè la decadenza, di cui la rovina è la categoria principe, non obblighi soltanto a guardare con tristezza verso un passato grande ma purtroppo irripetibile, ma abbia la propria legittimità e produca, anche se solo nella modalità del frammento e del torso, opere altrettanto valide e significative di quelle del passato(36. In altri termini, sostenere che non esistano epoche di decadenza significa attribuire al lato distruttivo o negativo dei processi storico-culturali un valore positivo e costruttivo. Con la differenza però che mentre in Simmel la prospettiva con la quale si guarda ai prodotti culturali resta pur sempre quella del mantenimento del rapporto fra i due lati della dicotomia – naturale-spirituale, negativo-positivo, distruttivo-costruttivo – mentre ciò che si abbandona è soltanto la pretesa ad ogni costo della loro riconciliazione, del superamento dell’inimicizia, per Benjamin al contrario l’atteggiamento da assumere davanti alla dicotomia consiste nel lasciar perdere del tutto il lato positivo, costruttivo, vivo e fertile dei processi storico-culturali, e puntare esclusivamente sull’altro, quello negativo, distruttivo, morto e sterile. Riprendendo il modello logico della diariesi platonica e collegandolo arditamente all’apocatastasi origeniana(37, per Benjamin si tratta di portare fino in fondo il lavoro della distruzione, continuando a dividere sul solo lato negativo, per estrarre da quest’ultimo, ad ogni nuovo gradino dello sprofondamento, quel granello di vita che vi era conservato come in una cripta, affinché, liberato, possa anch’esso partecipare alla redenzione(38.

L’attuazione di un simile programma comporta, quindi, non solo l’incremento nella produzione di rovine, favorendo e accelerando i processi di distruzione e di decomposizione che colpiscono i fenomeni storico-culturali, ma anche e soprattutto l’allargamento senza limiti dell’arco di ciò che può cadere sotto la categoria della rovina. Benjamin abbandona quella declinazione alta e aristocratica che in Simmel ancora caratterizzava l’approccio alla rovina e accanto all’edificio architettonico, nobile ma decaduto, valorizza il torso, il frammento, l’incompiuto che era tale già prima della gestazione, e, in un crescendo che non si ferma davanti a quel che oggi chiameremmo il politically correct, gli scarti di lavorazione e i materiali di risulta, gli stracci ed i rifiuti, in una parola l’immondizia. Si configura così da parte di Benjamin una teoria generale dei rifiuti che coincide in gran parte con quel metodo di una storiografia materialistica che viene elaborato nella sezione N del Passagen Werk, nel saggio su Eduard Fuchs e infine nelle Tesi(39. Mentre la storiografia borghese, ossia lo storicismo, valorizza il detto e il visibile, il pienamente realizzato e soprattutto l’appartenenza ad una tradizione culturale la cui capacità di riproduzione funziona come istanza di legittimazione, il materialismo storico lavora col non detto e il non visibile, l’incompiuto e il sospeso, e soprattutto con quei materiali che quella stessa tradizione abbandona all’oblio e alla distruzione ritenendoli spuri e inutili. Da questo punto di vista le Jetztzeiten, ossia i ‘tempi-ora’, le attualità, che si oppongono per Benjamin a quel presente storico concepito come mera via di facilitazione per lo scorrimento senza scosse del processo storico, funzionano come veri e propri rifiuti della storia, come l’immenso ammasso di macerie in cui si trasforma l’altrettanto immenso ammasso delle merci.

Ma questo è solo un lato del lavoro del materialista storico: il lavoro della distruzione, un lavoro instancabile e mai finito, un esercizio critico costante. Resta da definire il lato costruttivo, ciò che Benjamin a più riprese ha indicato col termine ‘montaggio’, traendolo molto probabilmente dal linguaggio cinematografico nonché dall’ambiente letterario surrealista, ma anche dall’impostazione marxista del problema dell’esposizione e infine dall’organizzazione capitalistica del lavoro. Due sono i frammenti della sezione N del Passagen Werk in cui, alla fine, come se fosse un’etichetta sotto cui rubricarli, compare, incastonato fra due quadratini neri, il sintagma “rifiuti della storia”, e che tematizzano il montaggio come metodo della storiografia materialistica. Il primo recita:


Metodo di questo lavoro: montaggio letterario. Non ho nulla da dire. Solo da mostrare (Zeigen). Non sottrarrò nulla di prezioso e non mi approprierò di alcuna espressione ingegnosa. Stracci e rifiuti, invece, ma non per farne l’inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico modo possibile: usandoli(40.



In forma compendiata il frammento rimanda ad alcuni capisaldi del pensiero benjaminiano: in primo luogo al problema dell’esposizione. L’approccio, infatti, a ciò che in questo contesto Benjamin chiama con i nomi di ‘stracci e rifiuti’ (Lumpen e Abfall) è lo stesso che la premessa dell’Ursprung riservava al fenomeno: qui come là il fenomeno, ciò che appare e si mostra, si pone in relazione diretta con l’idea, e se la coppia fenomeno-idea ha anche un tenore linguistico quest’ultimo riguarderà la sfera dei nomi propri con cui l’idea alla fine s’identifica e non quella delle generalità logiche in cui la singolarità del fenomeno si perde. La rete dell’enunciabile, che nella premessa dell’Ursprung era indicata dalla dimensione del concetto, non solo non deve sovrapporsi a quella del visibile, ma deve anzi essere preliminarmente disfatta, affinché il fenomeno, restituito in tal modo alla sua reale consistenza, si relazioni direttamente alla propria verità iscritta nell’idea, accedendo contemporaneamente all’espressione linguistica resa possibile dal nome. Quindi non si tratta di dire, bensì di indicare, far segno, mostrare a dito: esporre il fenomeno in quanto tale, quasi in carne ed ossa. Allo stesso tempo però nessuna visione eidetica: l’idea è il risultato di un montaggio, di una costruzione. Nulla che si offra ad una visione originaria. In altri termini, l’idea non si esibisce nel fenomeno, ma l’analisi intensiva del singolo fenomeno contribuisce alla costruzione dell’idea.

Il secondo punto cui il frammento accenna e che è d’altronde una conseguenza dell’impostazione ultrafenomenologica e paraplatonica che Benjamin nella premessa dell’Ursprung ha dato al problema della conoscenza (e che la sezione N del Passagen Werk riprende e rielabora in chiave storico-materialistica), è la scomparsa di ogni criterio gerarchico e di valore nella scelta e nell’uso dei materiali: non ci saranno preferenze, non verrà occultato nulla e nulla verrà privilegiato. Per la storiografia materialistica vanno bene anche gli stracci e l’immondizia: tratterà in forma egualitaria i più alti prodotti culturali e i più bassi detriti della vita. Ma, aggiunge Benjamin, non per farne l’inventario, bensì per render loro giustizia nell’unico modo possibile: usandoli. Nel momento in cui affronta il terzo punto chiave, ossia quello dell’uso politico delle rovine, il frammento s’interrompe: se è più o meno chiaro il significato della prima parte dell’affermazione, quella che esclude le tecniche dell’inventario e dell’elenco, in una parola l’approccio empirico-descrittivo, o tout court positivista, alla comprensione degli stracci e dei rifiuti, come esito della pratica teorica del materialista storico, meno chiaro è in che cosa consista nei loro riguardi l’uso che rende giustizia, quindi politico, che d’altro canto non può che coincidere con ciò che l’attacco del frammento definiva il ‘montaggio letterario’.

Il secondo frammento, rubricato sotto l’etichetta «ð¾Rifiuti della storiað¾», chiarisce in che senso si debba intendere il principio del montaggio una volta che esso sia applicato alla comprensione della storia. Dal momento che la questione principale della scienza storica è quella della perspicuità della storia stessa, del riuscire a vederci chiaro nel groviglio degli eventi storici che si presentano all’occhio esperto dello storiografo come a quello ‘ingenuo’ dell’agente storico, sovrainterpretati non solo, ma anche intrisi dell’ideologia dei dominanti, ogni racconto o ricostruzione delle sequenze degli avvenimenti ‘così come si sono effettivamente svolte’ sarà sempre sospettabile di falsificazione. Una volta che i fatti storici siano stati liberati da questa camicia di nesso, una volta cioè, come dice Benjanim, che nella considerazione storica sia stata annichilita l’idea del progresso, ossia quella bufera che spira dal Paradiso e che trascina l’Angelo della storia che vorrebbe al contrario sostare presso le macerie, allora la perspicuità della storia non sarà l’effetto di una ricostruzione, bensì di una vera e propria costruzione, cioè di una connessione dei fatti storici ottenuta in base a un disegno o uno schema che non sono immediatamente leggibili in essi, ma che si ottengono attraverso il montaggio. A sua volta però il disegno, lo schema, in una parola l’idea, in base ai quali si costruisce la storia, non saranno nulla di precostituito: essi infatti verranno ricavati dall’analisi intensiva del singolo evento.

Con le parole del frammento il principio del montaggio consiste


nell’erigere, insomma, le grandi costruzioni sulla base di minuscoli elementi costruttivi, ritagliati con nettezza e precisione. Nello scoprire, anzi, nell’analisi del piccolo momento singolo il cristallo dell’accadere totale. Nel rompere, dunque, con il naturalismo storico popolare. Nel cogliere la costruzione della storia in quanto tale. Nella struttura del commento(41.


Nella premessa dell’Ursprung, così spesso richiamata perché è Benjamin stesso a istituire la corrispondenza fra i fondamenti conoscitivi di una storia della modernità e quelli elaborati per il libro sul Trauerspiel, il principio metodologico qui indicato attraverso il rinvio al montaggio letterario e/o cinematografico era espresso dalla metafora del mosaico e le forme dell’esposizione, che ora vengono individuate nella costruzione della storia e nel commento al testo, erano focalizzate nel trattato teologico e nel saggio esoterico. Come le tessere del mosaico non annunciano in nulla l’immagine totale pur contribuendo a costituirla – e una sola tessera mancante renderebbe il mosaico incompiuto –, così attraverso i singoli momenti della storia si riflette prismaticamente l’accadere totale e la sua destinazione. Parallelamente le forme dell’esposizione devono assicurare la doppia prestazione dell’analisi intensiva della singolarità – saggio esoterico e commento – da un lato e la struttura discontinua della verità – trattato teologico e montaggio – dall’altro.

Ciò che forse si modifica, se non nella sensibilità umana e esistenziale di Benjamin, sicuramente nella scelta degli oggetti della riflessione teorica, nel passaggio dai primi lavori sul linguaggio e sulla critica romantica fino al libro sul Barocco alle ricerche su Baudelaire, Proust, il surrealismo, i passages di Parigi e in generale sulla storiografia materialistica, è l’attenzione sempre più crescente alle attitudini soggettive e alle forme di vita che presiedono alle pratiche teoriche. Non basta più l’affidamento spontaneo e acritico alle forme tradizionali in cui si rappresenta il soggetto conoscitivo e che sono essenzialmente quella del professore universitario che, almeno in Europa, è un dipendente-funzionario dello stato, da un lato, e quella dello scrittore free lance, capace cioè di vivere del proprio lavoro intellettuale, dall’altro: a parte il fatto che entrambe sono in decadenza, e come Benjanim l’ha provato sulla propria pelle non sono altro che rovine, l’elemento decisivo è che esse non permettono più né il reperimento dei materiali né l’elaborazione delle categorie necessari alle nuove forme del sapere(42.

Quale tratto soggettivo, per esempio, può spingere un individuo qualunque, un generico esponente della specie, qualora non ve lo costringa il semplice bisogno di sopravvivenza, a passare tutta la sua vita nella ricerca di ciò che la confraternita dei sani e dei normali giudicherebbe soltanto cianfrusaglie, oggetti desueti(43se non addirittura inutili, insomma roba da buttare, spazzatura? Ad investire, in altri termini, la propria libido come le proprie capacità intellettuali compresi il gusto, la sensibilità e l’esperienza accumulata, su oggetti che in sé hanno uno scarsissimo valore, se non addirittura nessuno, che non hanno un significato né determinato e univoco, né alto e nobile, che tendono soltanto a fare serie e che per dirla tutta sono dei veri e propri insiemi inconsistenti come la catena delle generazioni di cui si è parlato all’inizio di questo saggio?

Di questi tipi umani Benjamin ne individua, mi sembra, essenzialmente due: il flâneur e il collezionista. Affiancate anche tipograficamente nell’exposé del 1935 su Parigi, capitale del XIX secolo, primo compendio del lavoro sui passages – del collezionista parla il quinto paragrafo intitolato Luigi Filippo o l’«interieur», del flâneur il sesto dedicato a Baudelaire o le strade di Parigi -, le due figure sono accomunate in primo luogo dall’essere entrambe degli abitanti delle soglie, dall’essere appunto i prodotti dei passages, cioè di luoghi o non luoghi la cui caratteristica è quella di non essere né un dentro né un fuori, ma di mantenersi in uno spazio indecidibile. Il collezionista ed il flâneur si ripartiscono, come Benjanim d’altronde, dai ‘due lati di una linea di frattura’, non appartenendo né al vecchio mondo dei valori d’uso né al nuovo della fantasmagoria del valore di scambio, a quello cioè della grande città e del trionfo della classe borghese. Sono da questo punto di vista dei disadattati, il loro sguardo è quello dell’estraniato, di colui che non appartiene a nessuna cerchia sociale stabile e identificabile. Sono degli outsiders, al limite dell’anomia, tendenzialmente conservatori, se non esplicitamente reazionari.

Non causalmente ad una prima lettura il giudizio di Benjamin su di essi può apparire fortemente negativo. Del collezionista per esempio si mette in evidenza la posizione ambigua che assume di fronte all’universo delle merci: invece di riconoscerlo senza infingimenti cogliendo in esso anche la presenza di una strana merce, la merce forza-lavoro, capace, per la sua sola posizione all’interno dei rapporti di produzione, di essere la leva della loro trasformazione rivoluzionaria, il collezionista s’impegna nel lavoro di Sisifo di «togliere alle cose, mediante il possesso di esse, il loro carattere di merce», dando loro però «solo un valore d’amatore invece del valore d’uso» (44. Il collezionista, aggiunge Benjamin, «si trasferisce idealmente, non solo in mondo remoto nello spazio e nel tempo, ma anche in un mondo migliore, dove gli uomini, è vero, sono altrettanto poco provvisti del necessario che in quello di tutti i giorni, ma dove le cose sono libere dalla schiavitù di essere utili»(45. Il meno che si possa dire è che il collezionista è un illuso che crede di poter salvare le cose dall’obbligo dell’utilità senza dover passare per una rivoluzione dei rapporti sociali, ma solo in virtù del suo gusto e della sua sensibilità estetiche, e che per questo diviene complice più o meno consapevole del dominio che proprio il sistema della merce esercita sulla sfera del lavoro umano. Il collezionista resta sul lato dell’estetizzazione della politica e non si sposta su quello della politicizzazione dell’arte.

Ancora più drastico il giudizio sul flâneur: il modo di vivere di quest’ultimo riveste di «un’aura conciliante quello futuro, sconsolato dell’abitante della grande città», lo abbellisce e lo edulcora rendendolo accettabile. Per questo, pur non coincidendo del tutto con ‘l’uomo della folla’ di cui parla Poe, il flâneur cerca in essa un asilo e un riparo: la folla che fa da velo alla città gli permette, infatti, di vederla come una fantasmagoria. Ancora una volta è la realtà della merce che non va guardata in faccia, preferendo il flâneur come il collezionista fermarsi attonito e stupito davanti al feticcio che lo guarda, come la merce da dentro la vetrina, e l’ammalia, promettendo un’ebbrezza che una vita ridotta al bisogno e al solo valore d’uso delle cose non può che rendere impossibile o rimandare al giorno in cui ritorneremo in Paradiso. Se con il flâneur, come dice Benjamin, «l’intelligenza si reca sul mercato», ossia se con questa figura si hanno il primo incontro e la prima saldatura fra i tratti alti, nobili e disinteressati della vita umana da un lato e quelli bassi, sporchi e materiali dall’altro, ciò accade in realtà non per impadronirsene nel concetto o nell’espressione artistica, bensì per «trovare un compratore»(46, vale a dire per offrirsi come merce. Il flâneur rappresenta lo stadio in cui l’intelligenza è in bilico fra il mecenatismo e il mercato. Da qui la natura bohémienne che la funzione intellettuale deve necessariamente assumere in questa fase storica di trapasso e che prende la forma antidemocratica e antiproletaria del cospiratore di professione dopo essere passata per quella del ribelle anarchico.

A guardare però con più attenzione, pur restando fermo il giudizio negativo su di essi, pur essendo flâneur e collezionista figure del passato, momenti della preistoria della modernità capitalistica, quando il materialista storico si risveglierà dal sogno della merce e dalla fantasmagoria della città, sarà spontaneamente attratto per incominciare il suo lavoro, non dagli intellettuali progressisti e politically correct, ma da questi disadattati che espulsi dal vecchio mondo non avevano trovato posto neppure nel nuovo e che però da questa posizione eccentrica avevano potuto gettare uno sguardo estraniato sugli effetti della modernità negato ai cantori delle ‘magnifiche sorti e progressive’, contribuendo anche a far vedere il rovescio della merce, e cioè la forza-lavoro come resto non trattabile del processo capitalistico di produzione e il plusvalore come scarto e rifiuto, immondizia irriciclabile: sottrarre le cose al principio di utilità non significa soltanto estetizzarle, può voler dire anche trattarle come spazzatura e la spazzatura è altrettanto, se non di più, inutile dell’opera d’arte.

In altri termini, flâneur e collezionista sono anche precursori del materialista storico, momenti della sua preistoria. Gli preparano il terreno, smantellando e distruggendo gli apparati ideologici del dominio e liberando i materiali per l’uso politico rivoluzionario. Soprattutto essi adombrano, l’uno nell’ebbrezza della merce, l’altro, come si vedrà, nel modo in cui dispone gli oggetti della sua collezione, la futura società senza classi, il mondo integralmente redento. Un frammento del Passagen Werk ci sembra la testimonianza più esplicita di quest’altra prospettiva, parallela alla prima, da cui Benjamin guarda nel caso specifico al collezionista ma in realtà a entrambe le figure:


Ciò che nel collezionismo è decisivo, è che l'oggetto sia sciolto da tutte le sue funzioni originarie per entrare nel rapporto più stretto possibile con gli oggetti a lui simili. Questo rapporto è l'esatto opposto dell'utilità, e sta sotto la singolare categoria della completezza. Cos’è poi questa «completezza»? Un grandioso tentativo di superare l'assoluta irrazionalità della semplice presenza dell'oggetto mediante il suo inserimento in un nuovo ordine storico appositamente creato: la collezione. E per il vero collezionista ogni singola cosa giunge a diventare un'enciclopedia di tutte le scienze dell'epoca, del paesaggio, dell'industria, del proprietario da cui proviene. E l'incantesimo più profondo del collezionista quello di inscrivere il singolo oggetto in un cerchio magico in cui esso s'irrigidisce, nell'atto stesso in cui un ultimo brivido (il brivido dell'essere acquistato) lo attraversa. Tutto quanto fu oggetto di memoria, pensiero, coscienza, diviene piedistallo, cornice, basamento, scrigno dei suo possedimento. Non bisogna credere che proprio al collezionista sia estraneo il ‘topos iperuranico’ che secondo Platone ospita gli archetipi immutabili delle cose. Esso, certo, si perde. Ma ha però la forza di risollevarsi di nuovo reggendosi a un fuscello di paglia, e dal mare di nebbia che circonda il suo senso si stacca come un'isola l'oggetto appena acquistato.

Il collezionismo è una forma della memoria pratica, ed è la più cogente tra le manifestazioni profane della «vicinanza». Ogni minimo atto della riflessione politica fa dunque in qualche modo epoca nel commercio dell'antiquariato. Noi costruiamo qui una sveglia che scuota il kitsch del secolo scorso e lo «chiami a raccolta»(47.



Senza voler affrontare questioni inerenti alla datazione dei frammenti – questioni probabilmente senza soluzione date le condizioni del materiale – questa caratterizzazione del collezionista sembra opporsi a quella appena citata dell’exposé, nonché al discorso contenuto nel saggio su Eduard Fuchs (risalente al 1937 ma scritto controvoglia per ragioni quasi esclusivamente economiche) in cui la preoccupazione principale di Benjamin sembra quella di prendere distanza dall’ideologia progressista e moralistica di quest’ultimo. Qui il carattere quasi maniacale della ricerca del collezionista acquista un senso talmente positivo fino al punto di confondersi con l’ethos che, secondo le Tesi, dovrebbe guidare il materialista storico: come il collezionista anche quest’ultimo strappa l’evento storico dal suo contesto originario e lo collega con altri eventi il più possibile simili al primo; così facendo egli supera la sostanziale irrazionalità degli eventi storici, ossia il loro corso inevitabilmente rovinoso, la loro consistenza di macerie, malamente nascosto dall’ideologia storicista, inserendoli di forza in un nuovo ordine storico integralmente costruito. Si prenda l’esempio delle Tesi: la congiura di Bruto contro Cesare volta ad impedire lo sbocco imperiale della repubblica romana è sottratta alla storia dell’antica Roma e messa in contatto senza alcuna soluzione di continuità con la decapitazione del re di Francia ordinata da Robespierre e Saint-Just per evitare la sconfitta della rivoluzione. Al posto della storia così come è effettivamente stata, ossia un cambio di testimone fra classi dominanti interessate soltanto alla perpetuazione del dominio, il materialista storico ha messo l’ordine storico dell’emancipazione.

Anche il materialista storico è mosso nella ricerca preliminare degli eventi da inserire nel nuovo ordine storico da quella sindrome del collezionista che Benjamin chiama ‘categoria della completezza’. Rispetto alla quale va tuttavia precisato che se la scelta e la messa in rapporto dei singoli oggetti di una collezione rispondono appunto a quest’ideale della completezza, ciò non vuol dire che la collezione in sé possa mai considerarsi finita o diventare una totalità chiusa. Se è vero che ogni singolo oggetto è di per sé indispensabile per completare la collezione, è vero anche che la serie degli oggetti è infinita. Da questo punto di vista l’insieme costituito da tutti gli elementi della collezione è un insieme infinito e inconsistente. Tuttavia una collezione non è un semplice inventario, è un uso che deve render giustizia agli oggetti, disponendoli secondo un ordine mentale o spaziale che non è una proiezione del significato che gli oggetti hanno in quanto tali, ma che al contrario costituisce la costellazione ideale o l’orizzonte di senso a partire dal quale essi ricevono per la prima volta il loro vero valore.

Andando ancora più in profondità bisogna aggiungere che il rapporto che intercorre fra il singolo oggetto e la collezione di cui è chiamato a fare parte o fra il singolo evento storico e il nuovo ordine della storicità in cui si concatena, si presenta in Benjamin come una certa modalità di 'innalzamento' (Erhebung), non distante, ci sembra, dal registro del sublime, con cui l’oggetto o l’evento subiscono quel che si potrebbe chiamare un cambio di rango. Per usare ancora una terminologia kantiana è come se passassero dall’ambito del prezzo – carattere utilitario della cosa o funzionale dell’evento storico – alla sfera della dignità – il valore assoluto, vale a dire sciolto, emancipato, da qualunque regime di equivalenza, separato dal valore d’uso come dal valore di scambio, più-valore e più-che-valore. In verità il frammento del Passagen Werk in cui, in un modo forse anche troppo rapido, si tematizza un tal dispositivo, evocando in sovrappiù anche un concetto decisivo della riflessione benjaminiana quale quello dell’allegoria, si limita a enunciare un rapporto fra quest’ultima, la merce e la rovina. Dice infatti: «Materia in rovina (gescheiterte Materie): è l’innalzamento della merce allo stato di allegoria. Carattere di feticcio della merce e allegoria»(48. Dispiegato però, il frammento sembra sostenere che non appena la merce sia colta per quello che è e non per quel che fa credere che sia, una volta cioè che sia svelata la sua natura feticistica, ciò che si mostra è che essa non è altro che materia rovinata, esistenza fallita, cosa da buttare; ma anche che non appena questo avviene la merce come materia rovinata è innalzata al rango dell’allegoria. La merce che nel capitale dispiegato fa da equivalente generale di ogni oggetto come di ogni evento, di ogni stato soggettivo come di ogni costrutto culturale – niente sfugge al dominio del valore di scambio e niente deve sfuggirvi se vogliamo continuare ad avere negativo da dividere e salvare -, abbassata al ground zero dell’esser rovinoso, vista come un’immenso ammasso di macerie, viene per ciò stesso innalzata ad allegoria, ad un’immagine priva di bellezza, anamorfica forse, distorta e inconciliata certamente, ma egualmente evocatrice della redenzione. Giacché solo l’allegoria, a differenza del simbolo, è in grado di portare all’espressione, e quindi salvare, ciò che resta incompiuto e non finito, quel negativo che non trapassa in essere, in una parola l’opera inoperosa della morte. Come Benjamin scriveva nell’Ursprung: «Le allegorie sono nel regno del pensiero quel che sono le rovine nel regno delle cose»(49.



V)

Durante il seminario dedicato all’etica della psicoanalisi, Jacques Lacan, per illustrare il meccanismo della sublimazione, il cui senso complessivo aveva precedentemente compendiato nella formula: «elevare un oggetto alla dignità della Cosa», decise di chiudere la lezione del 20 gennaio 1960 con un apologo. Durante il periodo del governo di Pétain – lo stesso in cui Benjamin si uccide – si recò a trovare il suo amico poeta Jacques Prévert e nell’abitazione di quest’ultimo fu colpito dalla presenza di una strana cosa di cui ancora adesso conservava nitido il ricordo. Jacques Prévert era un collezionista e all’epoca in cui c’era ben poco da collezionare si limitava ad acquistare e conservare scatole di fiammiferi. Ma il punto decisivo è che le scatole di fiammiferi non erano semplicemente accatastate alla rinfusa in qualche angolo dell’abitazione e neppure disposte ordinatamente su di un mobile pronte per essere inventariate e classificate. Erano invece, grazie ad un leggero spostamento del cassetto interno, incastrate l’una dentro l’altra in modo da formare una striscia uniforme che, scrive Lacan, «correva sul bordo del caminetto, saliva sul muro, passava sulle cimase e ridiscendeva lungo una porta. Non dico che andasse così all’infinito, ma era straordinariamente soddisfacente dal punto di vista ornamentale»(50.

Nulla, che io sappia, più di questo festone o gran pavese formato da scatole di fiammiferi incastrate l’una dentro l’altra, illustra meglio, non solo la sublimazione come una delle vicissitudini che possono capitare alla pulsione, il suo rapporto con la sfera del piacere estetico condiviso e riconosciuto, ma anche la pratica del collezionista, la sua caratura etica e politica. Se la Cosa, la Ding an sich – ancora una referenza kantiana -, la Cosa sciolta da qualunque concatenazione empirica e intellettuale, la Cosa come puro pensato e che in quanto tale sfugge a qualunque visibilità diretta, rappresenta però, in filosofia come in psicoanalisi, la mira della facoltà superiore del desiderare, essa potrà forzare il passaggio verso un’esibizione empirica – restando contemporaneamente a distanza per salvaguardare l’autonomia dell’intelletto discorsivo – soltanto attraverso un’immagine indiretta, vale a dire un’allegoria. La striscia formata dalle scatole di fiammiferi è un’allegoria della Cosa e la formula di Benjamin secondo la quale si tratta d’innalzare la merce al rango dell’allegoria si sovrappone perfettamente a quella di Lacan in base alla quale la sublimazione consiste nell’elevazione di un oggetto alla dignità della Cosa.

Il carattere sbalorditivo, continua Lacan, «dell’effetto realizzato da questa raccolta di scatole di fiammiferi vuote era di far apparire un fatto, su cui ci fermiamo troppo poco, e cioè che una scatola di fiammiferi non è affatto semplicemente un oggetto, ma che essa può, nella forma, Erscheinung, in cui era proposta in una molteplicità veramente imponente, essere una Cosa»(51. La scatola di fiammiferi è in principio un oggetto, dotato di una sua utilità e di una sua funzione – il suo valore d’uso e, una volta che sia messa in vendita, anche il suo valore di scambio. Usati tutti i fiammiferi, la scatola è vuota e non resta che buttarla nel secchio della spazzatura. Ma all’occhio del collezionista la scomparsa contemporanea del valore d’uso e del valore di scambio della scatola – del suo carattere di merce – è la premessa per l’emergenza di qualcosa come la forma pura della scatola presente in essa ma fino a allora non visibile. Questa forma è appunto il vuoto della scatola e la domanda del collezionista riguarda l’uso che di questo vuoto è ancora possibile. Come render giustizia a questo vuoto della scatola di fiammiferi? Mettendolo in contatto con un altro vuoto di un’altra scatola di fiammiferi e così all’infinito. Solo che da questo insieme di vuoti collegati l’uno all’altro emerge una figura complessiva, priva per un verso di un significato qualsiasi, ma allo stesso tempo capace di produrre una soddisfazione estetica, quasi fosse un modo per riscattare l’inservibile dalla discarica cui sarebbe destinato. Forse che il vuoto non ha anch’esso diritto di sperare nella redenzione?

Le ulteriori considerazioni di Lacan non fanno che confermare quest’assunto: la disposizione a festone delle scatole di fiammiferi unite attraverso il loro vuoto rendeva manifesto che «una scatola di fiammiferi non è soltanto qualcosa con un certo uso, che non è neppure un tipo, nel senso platonico, la scatola di fiammiferi astratta(52, che una scatola di fiammiferi da sola è una cosa, con la sua coerenza d’essere». E d’altro canto che la mira del collezionista fosse appunto la cosalità della scatola di fiammiferi è dimostrato «dal carettere completamente gratuito, proliferante e superfluo, quasi assurdo di questa collezione»(53.

Ma l’ultima osservazione di Lacan merita un rilievo a parte ed è per questo che le affidiamo il compito di chiudere questo saggio sulle rovine di Benjamin. Non in ogni oggetto sussiste alla stato latente la possibilità della Cosa: la sua forma non è per niente indifferente. «Se ci riflettete», dice Lacan rivolgendosi all’uditorio sempre più stupito, «la scatola di fiammiferi vi si presenta come una forma vagabonda di ciò che ha per noi tanta importanza da prendere in certi casi un senso morale, e che si chiama cassetto. Qui, il cassetto, liberato, e non più preso nella sua ampiezza ventrale, comoda, si presentava con un potere copulatorio, che l’immagine tracciata dalla composizione prevertiana era destinata a rendere sensibile ai nostri occhi»(54. Non lo si poteva dire più chiaramente: la striscia delle scatole di fiammiferi era l’allegoria attraverso la quale la spinta copulatoria che dà origine alla catena delle generazioni veniva strappata all’insensatezza e alla rovina. L’allegoria di un nome fatto a pezzi.




1 Per una prima ricognizione del tema in riferimento alla prima produzione benjaminiana rinvio al mio Allegoria e rovina. Mondializzazione e redenzione nell’Ursprung des deutschen Trauerspiels, in Id., La lingua muta e altri saggi benjaminiani, Filema, Napoli 2000.

2 D’altronde in italiano il termine rovina può indicare insieme sia la caduta o il crollo di qualcosa, sia il suo effetto, vale a dire i resti, nonché l’agente o causa: ‘Sei la mia rovina!’

3 M. Heidegger, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricerca fenomenologica, tr. it. di M. de Carolis, Guida, Napoli 1990, p. 131. Sul rapporto Heidegger-Benjamin rinvio al mio Vita fattizia e eros impotente. Heidegger, Benjamin e la questione universitaria, in Id., La lingua muta e altri saggi benjaminiani, cit. Ma sulla questione generale del divenir-soggetto si veda ancora il mio Anima idiotica. Saggio di stilografia, in AA.VV., Stupidi e idioti. Undici variazioni sul tema, Sossella, Roma 2000, soprattutto pp. 170-172.

4 Per la tematizzazione della Ruinanz, cioè del rovinio, cfr. ivi, p. 161 ss.

5 Cfr. B. Moroncini, Walter Benjamin e la moralità del moderno, Guida, Napoli 1984, p. 418. Nel testo, subito dopo la frase “che l’Angelo trascina via con sé”, si trova un inciso che recita “spalle al paradiso” con il quale si attribuisce all’Angelo una posizione sbagliata rispetto a quanto c’è nel testo secondo il quale semmai l’Angelo dà le spalle al futuro verso cui lo trascina, suo malgrado, una bufera che soffia dal paradiso e che non è altro che il progresso. Il mio errore d’allora mi appare oggi l’effetto dell’urgenza, sorella di quella cattiva consigliera che è la fretta, che avvertivo all’epoca di dover sottoporre ad una critica serrata un’interpretazione di Benjamin secondo la quale la redenzione coincide integralmente con un ritorno indietro, ossia con il ripristino della condizione che precede, fuori di metafora, la modernità. A mio avviso non esiste in Benjamin il topos nostalgico per un passato ideologicamente migliore del presente e che andrebbe ricostituito.

6 Sul tema della democrazia rinvio al mio Sovranità e democrazia, in Chaosmos, Sciogliere legare. Sacrificio democrazia sovranità, Filema, Napoli 2003, pp. 43-60. Sul problema dell’archè si veda J. Derrida, Mal d’archive, Galilée, Paris 1995.

7 Il problema per l’Europa di oggi è ovviamente Israele e, al di là delle denegazioni, la sua esistenza in quanto tale: ogni buon europeo desidera nel suo cuore la distruzione di Israele.

8 W. Benjamin, Sul concetto di storia, ed. it. a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino1997, p. 37.

9 J-C. Milner, Les penchants criminels de l’Europe démocratique, Verdier, Lagrasse 2003, p. 118.

10 Su questo punto si veda J. Derrida, Interpretazioni in guerra. Kant, l’ebreo, il tedesco, tr. it. di T. Silla, Cronopio, Napoli 2001, in cui si analizza fra l’altro il paradossale filogermanesimo del filosofo ebreo Hermann Cohen il quale, all’inizio della prima guerra mondiale, convinto che la vera patria dell’ebreo fosse la Germania intesa come patria dello spirito europeo, chiedeva agli ebrei americani di impedire l’entrata in guerra degli Usa contro la nazione tedesca.

11 A mitigare solo in parte la durezza di queste tesi è giusto ricordare che quello del nome è un tema costante nella riflessione benjaminana e non solo dal punto di vista dello ‘studio’ – la teoria del nome elaborata nel saggio Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini – ma anche e soprattutto da quello analizzato qui del ‘nome ebraico’: mi riferisco al breve testo ‘autobiografico’ del 1933, anno della presa del potere da parte del nazional-socialismo, Agesilaus Santander, in cui Benjamin racconta che i suoi genitori, «ritenendo opportuno che non tutti s’accorgessero subito che ero ebreo» gli diedero alla nascita altri due nomi «inusitati, dai quali non si potesse arguire né ch’era un ebreo a portarli né che gli appartenessero come nomi». è rilevante notare che Benjanin, che pure era dedito dalla giovinezza alla pratica dello pseudonimo, non li abbia mai usati, ma li abbia tenuti per sé, trattandoli come gli ebrei trattavano il nome segreto che gli veniva dato alla soglia della pubertà. Questo testo fondamentale di Benjamin andrebbe finalmente riletto alla luce della posizione di Milner in modo da sottrarlo definitivamente alla nefasta interpretazione di Scholem. Sul tema dei nomi si veda di J-C. Milner, Nomi indistinti, tr. it. di B. Chitussi, Quodlibet, Macerata 2003. Una considerazione simile andrebbe fatta per la questione dello ‘studio’: a questo riguardo basta un rimando al saggio su Kafka in cui se per un verso si riconosce che lo studio «è la porta della giustizia», ossia che è l’unico modo per rimettere insieme i frammenti della propria esistenza «nell’epoca della massima estraneazione degli uomini fra loro», si aggiunge immediatamente che mai Kafka ha osato «associare a questo studio le promesse che la tradizione ricollegava a quello della Torah» e che di conseguenza «i suoi aiutanti sono sagrestani rimasti senza parrocchia, i suoi studenti, scolari senza scrittura» (Cfr. W. Benjamin, Franz Kafka, tr. it. di R. Solmi, in Id., Opere complete. VI. Scritti 1934-1937 (a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser), ed. it. a cura di E. Ganni con la collaborazione di H. Riediger, Einaudi, Torino 2004, pp. 151-152).

12 Come è noto, all’interno del mondo ebraico si può sviluppare un odio antigiudaico che, a partire dalla Shoah, si manifesta sotto l’accusa di nazismo. Ultimo caso: la destra israeliana nei confronti di Sharon, reo di aver voluto lo smantellamento delle colonie presenti nella striscia di Gaza.

13 La cui persistenza anche dopo la Shoah proclama però, come nota Milner, anche «lo scacco dello sterminio» (J-C. Milner, Les penchants criminels de l’Europe démocratique, cit., p. 114).

14 J-C. Milner, Les penchants criminels de l’Europe démocratique, cit., p.120.

15 Se è proprio necessario citare nella costituzione dell’Europa unita quali siano le radici da cui prende linfa la sua storia, proporrei di indicarne una sola usando un solo nome: Auschwitz.

16 J-C. Milner, Les penchants criminels de l’Europe démocratique, cit., p. 123.

17 Il passo sulla tripartizione della funzione paterna in riferimento ai registri simbolico, immaginario e reale si trova in J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi 1959-1960, tr. it. di M. D. Contri, Einaudi, Torino 1994, pp. 385-386. Il fatto che la psicoanalisi resti ferma sulla ‘quadruplicità’ spiega l’accusa nazista di essere una ‘scienza ebraica’.

18 Cfr. J. Lacan, Des Noms-du-père, Seuil, Paris 2005.

19 W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., ibidem.

20 W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni su Nikolaj Leskov, tr. it. di R. Solmi, in Id., Opere complete. VI. Scritti 1934-1937, cit., p. 330.

21 Ivi, p. 331.

22 Ibidem.

23 Ibidem.

24 Ibidem.

25 W. Benjamin, Il surrealismo. L’ultima istantanea sugli intellettuali europei, tr. it. di A. Marietti Solmi, in Id., Ombre corte. Scritti 1928-1929, ed. it. a cura di G. Agamben, Einaudi, Torino 1993, pp. 266-267.

26 W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, tr. it. di E. Filippini e H. Riediger, in Id., Opere complete. VI. Scritti 1934-1937, cit., p. 301.

27 G. Simmel, La rovina, tr. it. di G. Carchia, in «Rivista di estetica», n° 8, anno XXI, Rosenberg & Sellier, Torino 1981, p. 121.

28 Ivi, p. 122.

29 Ibidem.

30 Ivi, pp. 123-124.

31 Ivi, p. 124.

32 Ibidem.

33 Ibidem.

34 Ibidem.

35 Ivi, p. 126.

36 «Il pathos di questo lavoro: non ci sono epoche di decadenza»: cfr. W. Benjamin, Opere complete. IX. I «passages» di Parigi, (a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser), ed. it. a cura di E. Ganni con la collaborazione di H. Riediger, Einaudi, Torino 2000, p. 511.

37 Sul rapporto fra apocatastasi, ruolo del negativo e, come si vedrà fra poco, collezionismo, si confronti: G. Schiavoni, Walter Benjamin. Il figlio della felicità, Einaudi, Torino 2001, pp. 166-167.

38 Cfr. W. Benjamin, Opere complete. IX. I «passages» di Parigi, cit. p. 513, frammento N 1a, 3.

39 Sulla metodologia storiografica di Benjamin rinvio al mio L’eccedenza del presente. Sulla metodologia storiografica di Walter Benjamin, in Id., La lingua muta e altri saggi benjaminiani, cit.

40 W. Benjamin, Opere complete. IX. I «passages» di Parigi, cit., p. 514, frammento N 1a, 8.

41 Ivi, p. 515, frammento N 2, 6.

42 L’obsolescenza di entrambe viene vissuta da Benjamin in prima persona: da un lato il fallimento del tentativo di vincere una cattedra universitaria con un titolo scientifico come l’Ursprung des deutschen Trauerspiels; dall’altro le difficoltà nel sostenersi economicamente con la propria attività di saggista dimostrate dalle richieste disperate a Adorno e Horkheimer perché lo facessero pubblicare sulla rivista dell’Istituto di Francoforte prima e dopo l’esilio negli Stati Uniti, e dal fatto che i contrasti teorici che talora lo contrapponevano ad Adorno – per esempio sul saggio su Baudelaire – significavano in realtà un mancato pagamento.

43 Su questo tema si veda la fondamentale ricerca di Francesco Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Einaudi, Torino 1993.

44 W. Benjamin, Opere complete. IX. I «passages» di Parigi, cit., p. 12.

45 Ibidem.

46 Per questa e le precedenti ivi, p. 13.

47 Ivi, p. 214.

48 Ivi, p. 217.

49 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, tr. it. di F. Cuniberto, in Id., Opere complete. VI. Scritti 1923-1927, cit., p. 213.

50 J. Lacan, Il seminario, Libro VII. L’etica della psicoanalisi. 1959-1960, ed. it. a cura di G. B. Contri, Einaudi, Torino 1994, p. 144. Il Kant della Critica del giudizio avrebbe rubricato la striscia prevertiana delle scatole di fiammiferi fra gli esempi di bellezza libera ponendola accanto ai fiori, a molti uccelli come il pappagallo, il colibrì e l’uccello del paradiso, alle conchiglie marine, ai disegni alla greca, al fogliame in cornice, insomma a tutte le cose che di per sé non significano niente (cfr. I. Kant, Critica della capacità di giudizio, ed. it. a cura di L. Amoruso, Rizzoli, Milano 1995, pp. 217-218).

51 Ibidem.

52 Si confronti a questo proposito il passo del frammento di Benjamin citato in precedenza in cui si accenna al fatto che al collezionista non è estraneo il «‘topos iperuranico’ che secondo Platone ospita gli archetipi immutabili delle cose», anche se per dire immediatamente poco che esso si perde, e che, se ritorna, ritorna «reggendosi a un fuscello di paglia, e dal mare di nebbia che circonda il suo senso si stacca come un'isola l'oggetto appena acquistato».

53 Per questa e la precedente cfr. J. Lacan, Il seminario, Libro VII. L’etica della psicoanalisi. 1959-1960, cit. p. 144.

54 Ivi, p. 145.


 


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