indice del numero 4

 

 


 

Il rifiuto: questione di vita o di morte.
Pasolini o il destino del rifiuto e dei rifiutati in una società impura


di Guido Zingari


 

“Ma nei rifiuti del mondo, nasce un nuovo mondo: nascono leggi nuove dove non c’è più legge; nasce un nuovo onore dove onore è il disonore. Nascono potenza e nobiltà, feroci, nei mucchi di tuguri, nei luoghi sconfinati dove credi che la città finisca, e dove invece ricomincia, nemica, ricomincia per migliaia di volte, con ponti e labirinti, cantieri e sterri, dietro mareggiate di grattaceli che coprono interi orizzonti” così Pasolini in La religione del mio tempo del 1961.

Sappiamo bene che esistono in mezzo a noi, vite morte e morti più che mai piene di vita, come nel caso di questo Poeta. Il correre veloce del tempo, ci fa forse dimenticare che proprio trent’anni fa, il 2 novembre del 1975 moriva, in modo atroce, Pier Paolo Pasolini. Era nato a Bologna nel 1922.

Nei primi anni Cinquanta, si era trasferito a Roma, teatro privilegiato delle sue inquiete vicende esistenziali, città da lui profondamente amata, odiata, sofferta e intensamente vissuta: “Stupenda e misera città che mi hai fatto fare esperienza di quella vita ignota: fino a farmi scoprire ciò che, in ognuno, era il mondo.” Così scriverà in: Le ceneri di Gramsci del 1957.

Ora, al di là e al di fuori del tempo, dei luoghi, dei giudizi perentori e pregiudizi sommari, Pasolini è stato e rimarrà per sempre un altissimo poeta, e meglio: il poeta del rifiuto per eccellenza e l’ultimo poeta di impegno civile in Italia. E continuerà ad esserlo, anche a dispetto dei suoi più accaniti detrattori. E anche se la sua opera, la sua straordinaria poesia, non verranno più lette e ripensate e continueranno ad essere rifiutate e deprecate con sdegno, riprovazione e quello scandalo che era sua intenzione suscitare. E resterà allora un puro e semplice grande frammento sospeso, incombente e un monito severo che sarà difficile ignorare e fingere di non ascoltare.

I resti dilaniati di quel corpo rabbiosamente e ferocemente straziato e abbandonato nel deserto di rifiuti, nella sabbia sudicia e polverosa dell’Idroscalo di Ostia, sono e saranno paradossalmente ciò che rimane per sempre della sua presenza viva e palpitante, della sua voce alta e inconfondibile, della sua scrittura profusa ed incisa con forza ed intensità nelle pieghe del tempo. La mano e la mente di chi scrive rischiano di farsi prendere dall’emozione troppo partecipe, da sentimenti contrastanti, dal coinvolgimento in mille sensazioni di rifiuto e ancora dal fragore, dal furore politico e dalla passione critica e creativa per ciò che egli disse e per il modo in cui lo disse. La presenza del suo corpo saldo e vigoroso, il volto e lo sguardo teso, severo e meditativo, furono quindi, dentro e nella profondità della sua opera, i testimoni e gli interpreti più visibili e fedeli di un’ontologia del rifiuto ora da noi pensabile, delle grida e dei suoi inappellabili rifiuti della società, dell’inciviltà, della nuova preistoria e infine del mondo inaccettabile dell’immondo che lo circondava. Quel mondo era ed è ancora oggi, l’ammasso e il magma indistinto di infiniti rifiuti materiali e fisici contaminati da mille altri rifiuti d’altro genere: umani, mentali, morali e politici e di quelli di coloro che diversamente si ostinano con forza a rifiutare e a rifiutarsi, opponendosi fino allo spasimo estremo. Questo è tutto ciò che resta dunque di ciò che è stato buttato e respinto nei pensieri, nei modi di essere, di vivere e nei comportamenti.

Sappiamo tutti benissimo che è cambiato ben poco di questo scenario. Per Pasolini è l’altro da noi, il diverso, il rinnegato, l’alterità infida e sospetta e le realtà così come si presentano, a rivelarsi inaccettabili rifiuti. Sono inoltre, nei termini più desolati e squallidi, gli sterili e nauseabondi letamai della politica e della cultura istituzionali, il conformismo dominante e letale, il “disamore” e l’immoralità totale dilagante di quella sua e nostra epoca. E sono questi gli spazi e i luoghi dove da sempre si consuma con più zelo ed insistenza lo strazio silenzioso dell’altro. È questo dannato altro poi, nel significato più esteso del termine, il vero oggetto e bersaglio del rifiuto. È anzi il rifiuto stesso. L’altro diventa, per definizione, il diverso, l’intruso, l’estraneo e, come tale, non ha più vie d’uscita e di scampo, perché è poi lui, in fondo, il solo responsabile e l’unico colpevole della sua deprecabile condizione, lo scandalo inammissibile e privo di identità, né otterrà alcun diritto d’asilo, né potrà essere ospitato, accolto ed ascoltato, ma solo contrastato, ripudiato e linciato da un potere feroce, cieco e implacabile: “Nulla è più terribile della diversità. Esposta ogni momento gridata senza finecosì egli scrive nel 1964 in Poesia in forma di rosa. È poi il rifiuto radicale nei confronti dell'ambiguità e dell’ipocrisia.

Il rifiuto e l’inaccettabile, nei confronti di Pasolini, cominciavano inoltre dalla sua figura e persona, dall’esecrabile colpa sessuale e dalla diversità eccessiva delle sue scelte, delle sue molteplici eresie ed imposture. Inoltre dall’autore di romanzi come Ragazzi di vita del 1955 o Una vita violenta del 1959 e di scritture teatrali come Porcile ed Orgia del 1966, agli occhi esterrefatti della mentalità piccolo borghese stupida, illetterata e perbenista, non ci si poteva aspettare se non che egli appartenesse come complice al mondo degli avanzi umani e dei depravati da lui frequentato e così puntigliosamente descritto e celebrato. Per non parlare delle reazioni indignate e furibonde di rifiuto e di condanna seguite all’uscita del film Salò o le 120 giornate di Sodoma del 1975: grande e tremendo affresco della disumanità, dell’estrema abiezione fascista ed esaltazione finale della pena inflitta all’umanità, nell’atto supremo e umiliante di un reiterato rifiuto e dello scempio dell’altro.

Metafora reale e insopportabile del sadismo, del cinismo politico retorico e degli eccessi della smodata avidità e orgia sfrenata di potere. In questo senso Pasolini ha rappresentato la figura esemplare del rimprovero e del biasimo rivolta verso le colpe di tutti e di nessuno, verso una società e un’umanità massificate che nel giro di appena due decenni, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta in Italia, in particolare, avevano stravolto e spazzato via se stesse, la propria storia, diventata presto Dopostoria, Nuova Preistoria e barbarie moderna. Avevano distrutto città, paesi, natura, paesaggi, persone, anime, memorie, senso dell’inviolabile e del sacro, tradizioni, arti, riversando tutto questo nel parossismo obeso del consumo e dello spreco, in rifiuti e spazzature straripanti disseminate ovunque. Sì! Perché spazzatura e degradazione erano ora luoghi, esseri umani, miseria, costumi, mode e conformismi di un malinteso progresso ancora a venire del nuovo Capitalismo. Si trattava di un’ulteriore esaltazione del rifiuto del rifiuto. Su tutto aleggiava e si diffondeva insopprimibile un desiderio d’amore: la segreta e disperata speranza del poeta in una realtà diversa.


Proviamo a pensare. Nonostante la nostra riluttanza a riguardo, dovremmo convincerci che siamo essenzialmente ciò che buttiamo, eliminiamo e ciò che rifiutiamo: we refuse, therefore we are, secondo una variante del celebre cogito, ergo sum cartesiano. È una lotta impari. Un continuo esercizio per fare tabula rasa per rimuovere, per riportare a zero, ripulire e recuperare spazi ordinati, per cominciare e ricominciare di nuovo. Siamo anche il nostro disfarci e rifiutare persino noi stessi, in vista di quello che ameremmo essere, per essere diversi da come siamo, più puri dopo esserci magari liberati e alleggeriti di un peso gravoso e insostenibile. Ma all’inverso siamo anche il risultato e la conseguenza di un netto rifiuto altrui o di più e di diversi rifiuti messi in opera da parte di altri nei nostri confronti, di poteri incontrollabili fuori di noi e da parte di qualcosa che ci sfugge, ci è estraneo e non riusciamo a concepire e a riconoscere. Siamo ciò che ci ha crudelmente respinto, abbandonato e ci ha lasciato delusi e languenti: dunque i resti di noi stessi o ciò che rimane ancora legittimamente e stringiamo gelosamente di noi. Ma non siamo, solo per questo, la conseguenza e l’oggetto di un rifiuto d’amore, ad esempio, e del desiderio giustificato e indiscusso di esistere, di avere un’identità e di essere riconosciuti insieme agli altri.

Esiste dentro di noi questa fondamentale e radicata duplicità e complicità del rifiuto negativo e spregiativo, dell’essere rifiutato e cacciato e al contrario il desiderio di voler rifiutare di continuare a subire umiliazioni ed angherie, di non stare più ad un gioco sporco e decidere invece di rifiutarsi in modo aperto e positivo, contrastando l’accettazione di uno stato di fatto, di un essere semplicemente così, sostituendolo con un volere forte di essere altro e diverso. All’essere immobile subentra, a questo punto, l’azione del volere. Il rifiuto rappresenta una decisione irrevocabile e una scelta ribelle e libertaria. Una constatazione è allora evidente: il rifiuto in svariati sensi, pratiche, modalità, comportamenti e atteggiamenti mentali occupa territori o spazi piuttosto estesi della vita individuale e collettiva quotidiana. Il titolo d’apertura di questo breve testo di ragionamento, riprende un frammento emblematico del semiologo francese Roland Barthes “Refuser question de vie ou mort”, ricavato da alcuni inediti pubblicati nel 2003 che mette bene in evidenza, oltre ai nostri personali dinieghi, l’atteggiamento di disagio o di rifiuto ineluttabile oggi posto in atto principalmente verso i reietti, le “vite di scarto (wasted lives) e “i rifiuti dell’umanità” dei quali parla e tratta più diffusamente e puntualmente invece il sociologo polacco Zygmunt Bauman in un saggio del 2005.

L’impresa di abbozzare e ripercorrere le pratiche di una storia sociale del rifiuto, si rivela tanto necessaria, quanto ambiziosa e impossibile. Essa spazia temporalmente dall’Antichità, quando i corpi dell’umanità deforme o nemica venivano gettati dalle rupi, alla drammatica esperienza dei suicidi, ai misconoscimenti di paternità e di maternità dei figli di nessuno, al pianto straziante dei neonati abbandonati, un tempo, alle “ruote” dei conventi od oggi più semplicemente nella spazzatura. Da queste essenziali impressioni e idee, nasce e si sviluppa un significativo intreccio e accostamento di atteggiamenti, scelte morali, rifiuti fisici, materiali, spazzatura ed esseri umani precipitati e gettati insieme nel mondo dell’immondo e dei rifiutati.

La produzione poetica di Pier Paolo Pasolini rappresenta in questo contesto e secondo il nostro punto di vista, il momento più alto di celebrazione, ispirazione e descrizione del rifiuto in ogni direzione e senso. La poesia, meglio di qualsiasi altro sapere, ragionamento, discorso e fredda lettura della realtà e degli eventi, può tentare di tracciare e di illuminare il percorso e il significato più forte e incisivo del nostro argomentare. Pasolini dunque cantore e poeta per eccellenza del rifiuto, escluso e rifiutato egli stesso fino a morire in modo atroce per dover scontare la condanna della sua inaccettabile e aberrante anormalità e insieme per un’esiziale eresia nei confronti della società in cui visse. Egli era guidato dall’ostinato proposito di smascherare l’indifferenza, l’apatia, l’occultamento volontario e perverso di cumuli e di masse straripanti ovunque di rifiuti e di rifiutati, vittime inermi di altrettante forme immorali, politiche delittuose di emarginazione, di negazione e di rifiuto: “ per terra sui rifiuti e il gelo delle acque artificiali, piangendo per chi è sfruttato e ucciso” così in Trasumanar e organizzar del 1970. Rifiuto dunque di persone, cose ed oggetti, impietosamente e volutamente buttati e riversati alla rinfusa ai margini dell’esistenza, negli angoli bui e inaccessibili delle infinite borgate e periferie del mondo. Nei nuovi campi di raccolta e di concentramento del pianeta globalizzato. Negli slums, nelle discariche e negli immondezzai illegali di umanità da cui consapevolmente o inconsapevolmente siamo circondati e da cui ci teniamo tuttavia a debita distanza. È davvero un affare sporco. I rifiuti insieme agli abusivi dell’esistenza sono dispersi, dimenticati, profanati e disseminati dappertutto. Rappresentano una realtà irrespirabile e una indecente ed inquietante storia di degradazione fisica e morale.

E d’altra parte a tutto questo sa rispondere un’efficiente macchina o servizio di rimozione coatta, opera di poteri politici e istituzionali che si fanno portavoce, in malafede, di un malcontento e disagio generali e che hanno interesse a mettere immediatamente in funzione sistemi di occultamento e operazioni di polizia e di pulizia, oltreché materiali ed ambientali, di apparente decoro pubblico. Lo scopo è quello di ripristinare un ordine, di restituire e garantire almeno in superficie una patina di igiene, di trasparenza e di purezza, certo perché un mondo apparentemente pulito e ripulito è più bello! Si tratta, ancora una volta invece, di una strategia mistificatoria di controllo, ipocrita, retorica, fatale e totale che non risparmia più nessuno. Che cosa ci può essere poi oggi dietro o di fronte ad una rivolta rabbiosa ed esasperata, ad una vera e propria sollevazione popolare in un paese nel Meridione d’Italia o nelle cave abbandonate della Cisgiordania, per il possibile o reale insediamento di impianti di smaltimento e di distruzione dei rifiuti previsto nel loro territorio e accanto alle loro abitazioni? Inventiamo e ipotizziamo mille immaginabili risposte. Che cosa pensare? Si tratta forse di un azione simbolica e di un pretesto che nascondono altre misteriose e insondabili ragioni? O niente di tutto ciò? Ma qualcosa di molto più concreto? “Io so. Io so i nomi dei responsabili/.../Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi”. Così scrive Pasolini, nel 1974, in una celebre litania gnoseologica, negli Scritti corsari. Si può sapere, intuire, ma rimanere sempre all’oscuro e continuare a non capire che cosa stia realmente avvenendo.

I rifiuti dell’umanità e di oggetti materiali si contaminano, si confondono e sembrano o sono in realtà profughi perseguitati da una civiltà e da una cultura che non li accetta, li sorveglia non dando loro tregua, che li sfrutta o altrimenti non li riconosce in alcun modo. Rifiuto dei rifiuti, esuberi dell’esistenza, in lotta contro se stessi e la loro maledizione, ignari, smarriti nel buio del loro non sapere e non capire nulla di quanto succede. Da Poesia in forma di rosa del 1964 Pasolini: “è così che vi appartiene questo mondo: fatti fratelli nelle opposte passioni, o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo a essere diversi: a rispondere del selvaggio dolore di essere uomini.” Ora non ci si può tirare più indietro ed assistere impotenti e indifferenti a ciò che sta accadendo intorno. È necessario volere e compiere un temerario e felice atto di rifiuto dei rifiuti, un esemplare slancio in avanti, simile al senso del rifiuto, come scrive Virilio, messo in atto nel 2003 da un gruppo di piloti israeliani, di compiere attacchi illegali e immorali nei Territori palestinesi, continuando a colpire civili innocenti. Atto di disubbidienza, di insubordinazione e di ammutinamento agli ordini superiori, ma anche affermazione di una inedita dignità del rifiuto di fronte all’odiosa volontà di chiudere gli occhi e di negarsi al mondo.

Il mistico disprezzo del mondo, il contemptu mundi dell’ascesi medioevale, diventa, trasferito nel tempo, modello di una serena viltà e colpevole indifferenza: è il grande e inaccettabile Rifiuto. Di fronte ai due terzi di umanità che vive un’esistenza violata ed illecita, in una deprecabile melma di miseria e inedia, non si può rimanere tranquillamente a guardare dall’alto. Un inquietante senso di colpa, dovrebbe accompagnarci.


Su tutto questo si afferma l’ambiguo e pur conclamato Illuminismo delle ragioni pure ed incontaminate, inaugurato in Occidente nel Settecento ed insieme con esso la dottrina del rifiuto razziale, con il suo perverso desiderio di nitore, purezza o forse di una seconda originaria e impossibile innocenza. Necessità di restituire spazi apparenti di conoscenza, di umanità e di finta decenza. Ancora Pasolini ne Le ceneri di Gramsci del 1957: “che lietezza profonda e quieta nel capire anche il male; che infinita esultanza, che vereconda festa, nell’accorata sete di chiarezza, nell’intelligenza che compiuta attesta la nostra impurezza”. L’acre fumigare di rifiuti impuri, deve essere allontanato e cosparso dai profumi inebrianti dell’ipocrisia, dell’indifferenza e dell’omertà. Come l’immagine fuggente di un bouquet di fiori abbandonato tra i rifiuti, richiama alla memoria e alla mente il segno che dietro di sé ha lasciato traccia di una bellezza e di una gioia appena sfiorite e trascorse, così resta il mistero di un dono che, profusa una breve felicità, si inabissa per sempre in un cumulo fradicio e corrotto di immondizia, nel grigiore di prigioni, di muri di cemento invalicabili e fili spinati: ancora nei versi di Pasolini: “Fiori: ecco che cosa il cuore vorrebbe offrirvi in cambio dei rifiuti”. Che un gesto d’amore prenda finalmente il posto usurpato da un ennesimo gesto di rifiuto.


6



copertina e archivio dei numeri di Kainosmailing-listin calendarioredazioneeditorialenon-luogo di transitorecensioniricerchepercorsiforumemergenzedisvelamenti