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Homunculus e robot (*)


di Gotthard Günther



 G. Günther è un filosofo in Italia poco conosciuto. Nato nel 1900 ad Arnsdorf in Germania, studia indologia, cinese, filosofia e sanscrito. Nel 1933 la sua tesi di dottorato ha come tema e titolo: Grundzüge einer neuen Theorie des Denkens in Hegels Logik. Costretto con la moglie a lasciare la Germania nel 1938, dopo due anni si stabilisce negli USA. Qui allarga il campo dei suoi interessi alla cibernetica e non disdegna di cimentarsi nella “science fiction”. Al Congresso internazionale di filosofia tenutosi nel 1953 a Bruxelles presenta la prima versione del suo concetto di logica trans-classica: Die philosophische Idee einer nicht-Aristotelischen Logik. Nel 1957 pubblica il suo volume: Das Bewußtsein der Maschinen – Eine Metaphysik der Kybernetik – da cui è tratto il capitolo che qui presentiamo –  in cui c’è una più organica esposizione della sua logica trans-classica di tipo trivalente. Per il pensiero cibernetico, che è alla base della rivoluzione tecno-scientifica contemporanea, la classica opposizione tra materia e spirito, non ha più senso. A tale vecchia opposizione il nuovo pensiero cibernetico sostituisce la tricotomia, logica e ontologica ad un tempo, tra materia, materia informata e pensiero.
Dal 1961 al 1972 Günther insegna all’University of Illinois. Dopo il suo ritiro dall’insegnamento, lavora alla teoria dei linguaggi formali negativi. Muore nel 1984.

Non è un caso se tra le idee utopiche che si aggirano sullo sfondo della cultura occidentale si trovi anche la concezione dell’homunculus, l’individuo dotato di coscienza che proviene da un alambicco. Ma esiste una differenza assai sottile tra l’idea dell’homunculus e quella di un “mechanical brain” […] differenza che presuppone per quest’ultimo un a priori culturale totalmente nuovo e implica una tradizione scientifica transclassica.

Nell’idea dell’homunculus il processo che ha condotto alla nascita dell’uomo e della coscienza razionale è ripetuto nei minimi particolari. S’incomincia con sostanze inorganiche, le si “distilla” fino ad ottenere materiale organico di forma inferiore e si avanza attraverso ulteriori reazioni “chimiche” fino a formazioni organiche superiori, finché non si raggiunge alla fine di questo lungo percorso la forma umana e finché il residuo della “potenza” chimica che è nella materia non si è trasformato in coscienza. In altre parole, il principio “tecnico” che sta alla base della fabbricazione dell’homunculus è una ricapitolazione della storia del mondo e dell’uomo. Ciò che l’alambicco deve fornire è un’abbreviazione completa fin nel dettaglio della storia dell’universo. L’abbreviazione si realizza perché lo spazio e il tempo sono in pratica eliminati per quanto è possibile dall’intero processo. Queste due grandezze non possono essere completamente rimosse, giacché in fondo l’alambicco nel quale si realizza l’abbreviazione occupa ancora un posto nello spazio, per quanto piccolo; per questo motivo l’intero processo deve avere anche una durata temporale di pari proporzione. Ma lo spazio e il tempo sono anche gli unici elementi che possono essere eliminati, o meglio ridotti. Se infatti gli stadi della materia che hanno condotto allo sviluppo dell’uomo non sono ripetuti interamente, compreso addirittura il dettaglio più subordinato dell’evoluzione, allora l’esperimento non riesce. L’homunculus non si genera affatto, oppure resta cosa morta. L’idea dell’homunculus è utopica perché non può mai riuscire il tentativo di ripetere la storia del mondo accelerandone i tempi e senza tralasciare nulla di essenziale. Soprattutto non si può incominciare nel “principio” esistenziale, perché quest’ultimo è metafisico e non fisico. Si fa allora partire l’abbreviazione dal suo secondo gradino, il che la condanna al fallimento fin dall’inizio.

Il problema del “mechanical brain” si fonda su principi radicalmente contrapposti. Respinge l’intero schema metafisico sul quale si fonda l’idea dell’homunculus. L’idea stessa dell’alambicco presuppone che la vita e la coscienza siano risultati storici dell’essere. Ciò significa che le categorie fisiche sono primarie, quelle psichiche secondarie e che le categorie del significato si collocano soltanto all’ultimo posto, quello ontologicamente più debole. Se vogliamo caratterizzare più precisamente questa concezione nella terminologia delle teorie cibernetiche, possiamo affermare che secondo la tradizione scientifica classica la pura materia, nel suo stadio originario, non contiene alcuna “informazione”. Si suppone che lo stadio iniziale sia materialmente un caos e questo non rappresenta in sé alcun contesto semantico. Infatti lo scienziato cibernetico intende proprio questo quando parla dell’“informazione” contenuta in un determinato stadio di esistenza. Ma “informazione” è la forma constatabile o esistenziale dello spirito. Se il tecnico classico parte quindi dal caos, allora egli intende con ciò che in ogni costruzione si può incominciare ontologicamente soltanto con il sistema fisico delle categorie e che è compito scientifico del costruttore, ovvero del “chimico”, quello di dedurre in un secondo tempo sia teoreticamente che praticamente in modo chimico le più deboli categorie dello psichico e del logico a partire dalle condizioni fisiche fondamentali dell’esistenza.

Ma doversi rappresentare come caotico lo stadio iniziale del mondo è un’assunzione senz’altro dogmatica e niente affatto fondata. Innanzitutto è certamente falso pensare il caos come stadio fisico. “Caos” non è affatto un concetto fisico, è un concetto metafisico. Il caos gioca un ruolo così significativo nella tradizione spirituale e specialmente in quella scientifica dell’occidente, solo perché la metafisica classica (l’ontologia) è fondamentalmente monistica e riconosce soltanto un fondamento logico-metafisico del mondo, l’essere dell’ente (in Platone to ontos on oppure ousia). Se le cose stanno in questi termini, allora lo stadio iniziale in quanto manifestazione dell’uno (en) non può contenere in effetti alcuna “informazione” come un secondo elemento dello stesso rango primordiale. Se però il grado di ordine di uno stadio del mondo è al tempo stesso l’unità di misura per la quantità di “informazione” che in esso è contenuta, allora in ogni immagine classica del mondo la realtà può aver avuto inizio soltanto come caos, ossia come disordine assoluto. Il mondo come creazione per volontà di Dio è soltanto un altro modo di esprimere la teoria secondo cui all’inizio del mondo ogni “informazione” era extramondana ed esistente esclusivamente nella coscienza di Dio, non però nel mondo stesso. Tutti i vari contesti semantici sono trascendenti rispetto alla realtà ed anzi puro spirito divino, ed è compito della storia portarli progressivamente alla realtà effettiva e dar loro successivamente quella stessa realtà concreta che è stata data alla materia fin dall’inizio del mondo.

Al contrario la problematica cibernetica, distanziandosi radicalmente da questa antica tradizione classica, stabilisce che non esiste alcuno stadio dell’esistenza fisica che non contenga fin dal principio in maniera implicita ed esplicitabile tutte le “informazioni” sperimentabili in quanto tali. Così come non si può né accrescere né ridurre la quantità totale di materia o di energia del mondo, allo stesso modo non si può né incrementare, né diminuire l’intera informazione che la realtà contiene. E se nella nuova immagine del mondo si vuole per esempio mantenere la concezione del caso, allora questo concetto può indicare soltanto uno stadio del mondo in cui l’“informazione” costantemente presente non è “leggibile”. La scelta del termine “informazione” per i contesti semantici di un sistema non è casuale, ma nella “cybernetics” è dettata dall’assunzione che tali contesti debbano essere leggibili in linea di principio, così come si può cogliere la coscienza “leggendola” da un volto vivente.

La differenza principale tra il tecnico “classico” e quello non-classico è perciò che il primo lavora con una “materia prima”, l’altro invece con due, poiché non può credere, come chi lo precede storicamente, che il secondo elemento, l’“informazione”, si possa dedurre dal primo. Detto in termini metafisici: l’ingegnere non-classico non crede che si possa superare in linea di principio il livello attuale di costruzione tecnica finché si è convinti che il platonico essere dell’ente sia l’unico substrato del “materiale di costruzione” che si ha a disposizione. Se si resta fermi a questa credenza delle grandi culture regionali, allora si può trarre dalla realtà oggettiva solo ciò che essa offre immediatamente e ciò che consente un’analisi delle condizioni dell’esistenza fisica. Ma questo è troppo poco per i sogni tecnici ormai ambiziosi dell’emisfero occidentale. La tecnica classica, poiché si basa su metodi sperimentali puramente analitici, può lavorare solo con le condizioni date fin dall’inizio del mondo, condizioni grazie alle quali è possibile una realtà oggettiva. Ciò che non può fare è creare, a partire da sé, dal “nulla”, nuove condizioni e possibilità di esistenza “fisica” non date nella condizione contingente del mondo e con ciò creare l’esistenza stessa.


Per il pensatore della tradizione spirituale del mondo antico le possibilità dell’ente, vale a dire le maniere nelle quali si può realizzare l’esistenza empirica, sono prescritte fin dall’eternità in modo immutabile dall’idea dell’essere dell’ente. Non si può loro aggiungere, né si può loro sottrarre qualcosa. L’idea dell’essere in quanto tale è l’intangibile cornice primordiale nella quale deve collocarsi senza contraddizione ogni evento e ogni azione. Questo è un comandamento divino, il cui rispetto incondizionato è assicurato dal fatto che quell’idea classica dell’essere assoluto è l’unica e la sola a dettare, senza alcuna concorrenza, le condizioni grazie alle quali nasce l’ente. Secondo il credo della metafisica delle grandi culture orientate in maniera bivalente non esiste neanche alcun pericolo che queste condizioni “assolute” della realtà possano mai trasformarsi, poiché a fianco dell’essere dell’ente non si trova alcuna ulteriore componente primordiale e assoluta che potrebbe mai influenzare il corso della prima distraendola dal suo percorso originario.

Le condizioni secondo le quali l’ente nasce sono in ambito fisico immutabili per l’eternità, perché sono esse stesse metafisiche. Persino il logos che si voglia incarnare deve loro sottomettersi. Perciò si dice che il logos si è degnato di discendere su questo mondo. Questa “discesa” esprime simbolicamente il rango esistenziale più fondamentale dell’essere al di sopra del “mero” senso. Ma la rigidità inflessibile e desolata delle condizioni della possibilità oggettiva dell’esistenza è anche il motivo per cui i timorati di Dio dicono a ragione che “il mondo” è caduto preda della dannazione eterna e solo la grazia imperscrutabile, non il merito individuale, può salvare l’anima dell’uomo da questo regno della morta esistenza. Ma l’ente in quanto ente è maledetto perché è confinato in una forma eternamente uguale. Perciò anche Carl Spitteler può far dire alla sua Moira:


Nessun medico aiuta la terra, il malanno è troppo grande”
(Primavera olimpica, II, 1)


Ciò che è empiricamente reale, secondo il credo classico, non è capace di una metamorfosi metafisica (la salvezza), perché una tale trasformazione trascendentale significherebbe che dovrebbe fuoriuscire dalla cornice preassegnata dell’essere in quanto tale. Ma come potrebbe altrimenti l’ente essere un ente esistenziale, se non come una rappresentazione dell’essere in quanto tale!

Questo concetto classico di essere è presupposto nell’idea dell’homunculus. Il processo “chimico” attraverso il quale si può generare da un alambicco quella creatura spettrale e fantastica deve essere lasciato alla natura stessa, poiché essa rappresenta appunto l’unica forma di realtà e può perciò ripetere sempre soltanto sé medesima. L’uomo è semplicemente uno spettatore che osserva soltanto la natura, come questa produce ancora una volta nello spazio protetto del processo di reazione “chimica” la sua forma e funzione in proporzioni ridotte. Il suo contributo consiste soltanto nel fornire le formule alchimistiche che devono avviare il processo di duplicazione. Peraltro, a partire dal momento in cui il processo effettivamente inizia, la sua collaborazione è definitivamente esclusa. Sono le leggi trascendenti dell’essere, per lui incomprensibili, a dover condurre il processo.

Per questo motivo, se anche fosse effettivamente possibile produrre un homunculus in un tal modo, da questo prodotto l’uomo non apprenderebbe nulla sull’essenza della vita, della riflessione e della coscienza. Infatti non avrebbe parte alcuna nella loro realizzazione. Non gli sarebbe stato permesso cedere al processo “chimico” qualcosa di se stesso per riconoscere poi il suo contributo nel prodotto finito. Una situazione del genere è inevitabile sul terreno della tecnica classica. La tecnica classica, come non possiamo che ripetere instancabilmente, lavora con categorie bivalenti. Ciò si riflette nel fatto che da un lato si trova l’homo faber, dall’altro il suo materiale con la sua peculiare regolamentazione. Ed egli può far agire quelle leggi su quel materiale solo in maniera passiva.

Le cose stanno diversamente per il tecnico trans-classico, che lavora con una logica trivalente. Al posto dell’originaria dicotomia esiste ora una tricotomia, all’interno della quale il pensiero tecnico possiede due dimensioni materiali: in primo luogo il materiale classico originario (non riflessivo) e in secondo luogo il materiale di quella seconda componente della realtà che conosciamo sotto il nome di “informazione”. Con ciò egli dispone però anche di un secondo sistema di leggi, con le quali può lavorare nei suoi progetti tecnici. L’elemento essenziale della tecnica transclassica consiste ora nel fatto che si modulano le modalità di azione delle leggi classiche contrapponendo loro la regolamentazione transclassica.

Se l’alchimista che nell’homunculus voleva imitare se stesso doveva lasciare al loro corso le leggi “magiche” della natura naturans e poteva attendere solo passivamente il risultato, il tecnico cibernetico si trova in una posizione completamente diversa. La creazione di un cervello robotico consiste per lui nella progressiva modulazione della regolamentazione classica e non riflessiva dell’essere attraverso la regolamentazione trans-classica della riflessione del suo stesso io, che risulta applicata alla prima come una sovradeterminazione. La “coscienza” meccanica che ne deriva è quindi un risultato immediato del lavoro dell’uomo – cosa che non è l’homunculus. Nell’alambicco la natura gioca con se stessa. Nella creazione del cervello elettronico, invece, l’uomo consegna all’oggetto la sua stessa riflessione e impara a comprendere la sua funzione nel mondo in questo specchio di se stesso.


(Traduzione dal tedesco di Gabriella Baptist)



(*) Gotthard GÜNTHER, Das Bewußtsein der Maschinen. Eine Metaphysik der Kybernetik, Krefeld und Baden-Baden, Agis-Verlag, 19632 (I ed. 1957), pp. 167-173 (Appendice I).

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