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Editoriale - Kainos n° 6

Dopo l’umano


Com’è caratteristica del nostro progetto editoriale, anche questo sesto numero sarà costruito intorno all’urgenza di un problema: quello della radicale messa in discussione - soprattutto a partire dalla tecno-scienza - del concetto e del fenomeno della natura umana così come fino ad oggi è stato pensato ed è apparso.

La nostra immagine della cosiddetta “natura umana” ha subito drastici cambiamenti che stentano ancora a diventare patrimonio consapevole di tutti, anche se come esseri umani vi siamo già coinvolti senza ancora rendercene conto. Molte ed inaggirabili sono le questioni filosofiche che tale evento solleva. La pervasiva potenza della tecnologia sulla zoè, sulla vita biologica, pone radicalmente in discussione, innanzitutto, la presunta assolutezza del carattere simbolico e culturale della “natura umana”. Infatti, nel momento in cui la vita biologica, puramente animale, può essere trasformata/modificata in maniera profonda (si pensi non solo all’ingegneria genetica ma anche alle bio-nano-tecnologie), ciò non potrà non produrre trasformazioni altrettanto profonde sulle “forme di vita”, sul bíos, sulle “forme qualificate di esistenza umana”. Assistiamo in tal modo alla definitiva messa in questione di un vero e proprio paradigma dell’antropologia filosofica otto-novecentesca, che è appunto quello – imperante in particolare negli esistenzialismi e nelle ermeneutiche dello scorso secolo – della esclusività culturale (mai disgiunta da una certa tacita superiorità) dell’esistenza umana.

Ciò ha come conseguenza essenziale la messa in crisi, more tecnologico, dei confini ontologici tra umanità, animalità e “macchinicità”. Alcune recenti teorie biologiche parlano espressamente di co-evoluzione uomo-macchina, di processi di ibridazione bio-tecnologica. Appare, inoltre, sempre più evidente che l’umanità sia emersa da “meccanismi antropogenici” (Sloterdijk) anonimi e pre-umani e che si sia poi evoluta storicamente a salti - come ha scritto Stephen Gould, l’autore della teoria degli “equilibri punteggiati”, il quale rifiuta il determinismo gradualistico del processo evolutivo darwiniano per sostituirlo con un processo irregolare formato da lunghi periodi di stasi nel panorama delle specie, separati da rapidi mutamenti dovuti all’estinzione di specie vecchie e alla nascita di nuove - ma anche in virtù di giganteschi dispositivi sociali antropotecnici, quali “l’addestramento scolare” (leggere, stare seduti, tranquillizzarsi) oppure il plesso bio-politico composto da “casa, uomo e animale domestico” di cui parla ancora Sloterdijk – e grazie, infine, a de-tribalizzanti “tecnologie del pensiero” come la scrittura alfabetica (Ong, McLuhan).

Se l’analisi di tali processi è ineludibile, altrettanto urgente è, a nostro avviso, la riflessione critica sui pericoli che l’evento tecno-antropologico nasconde. Il vero rischio non è tanto quello dell’ibridazione biotecnologica in quanto tale, né quello della trasformazione profonda delle “forme di vita” che ciò potrà comportare, ma consiste piuttosto nella possibile riduzione dell’oltre-animalità che da sempre l’uomo ‘è’ (senz’averla, tuttavia, mai assunta come possesso) ad una sorta di macchina istintuale legata funzionalmente alle varie Umwelten in cui di volta in volta vive (tanto per ricordare, attualizzandolo, il noto paradigma di von Uexküll). Non si tratta soltanto della cancellazione di quell’oltre che l’uomo ha da sempre sentito e pensato di essere nei confronti dell’animale – non solo perché capace di linguaggio, ma perché situato sul bordo tra le due nature, quella animale e quella umana, senza essere esclusivamente né l’una né l’altra; si tratta della possibilità ben più insidiosa di veder svanire quella passione per l’oltre che ha da sempre caratterizzato la vita degli umani: passione per la sopra-vivenza, per il sur-vivre, potremmo dire riprendendo un’espressione di Derrida, sopra-vivenza dispendiosa che forse è rimasta inattuata nella storia, ma che proprio per ciò, come una segreta ricchezza, continua ad interrogarci, inquietandoci.

Molti sono i campi d’indagine che si aprono dinanzi ai nostri occhi a partire da tali questioni, ed a cui vorremmo tentare di dare un contributo di chiarificazione concettuale.

Bisognerà innanzitutto ridiscutere i fondamenti dell’antropologia filosofica novecentesca, evidenziandone le aporie ma anche le virtualità inespresse.

Bisognerà inventariare e analizzare l’impressionante messe di sperimentazioni estetiche che negli ultimi quindici anni sono state realizzate nel mondo delle neo-tecnologie e che hanno già da tempo abbattuto gli steccati tra creazione artistica e ricerca scientifica.

Bisognerà problematizzare le relazioni tra le possibilità tecno-biologiche, lo sfruttamento capitalistico delle risorse bio-genetiche e le strategie bio-politiche che si stanno intrecciando oggi nel mondo.

Bisognerà confrontarsi con le recenti produzioni teoriche che il pensiero femminista, in specie di matrice anglosassone (Judith Butler), sta mettendo in campo nei termini di una ridefinizione della natura umana come commistione di umano e in-umano: si può parlare di natura umana imbevuta di in-umano – concetto, questo, posto al di là delle classiche teorie della psicoanalisi che leggono tutto in chiave di aggressività e di violenza insita nell’umano? Non è un caso che Rudi Visker, nel suo ultimo libro, abbia parlato di inhuman Condition.

Bisognerà, infine, fare i conti con l’ideologia trans-umanista e post-umanista ormai dilagante nel web, con l’obiettivo di isolare le questioni teoriche su cui è possibile la discussione filosofica – e di cui questo nuovo numero di Kainós è testimonianza – dalla religione new age e neo-gnostica con cui i teorici transumanisti (spesso scienziati di buon livello) tendono a giustificare le loro tesi (prima di tutto quella della “sconfitta definitiva della morte”).

Su tali questioni una filosofia che non voglia rintanarsi nel falso specialismo accademico ha il dovere di interrogarsi.


Novembre 2005


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