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Antonio Caronia, IL CYBORG. Saggio sull’uomo artificiale

ShaKe editore, 2001, Euro 9,30, ISBN 88-86926-99-5





«Questo libro vuole solo presentare una rassegna e qualche considerazione collaterale sulla figura, bizzarra, ma molto significativa, dell’ibrido uomo-macchina» (p. 10): queste le parole che Antonio Caronia utilizza per sintetizzare il progetto del suo CYBORG. Saggio sull’uomo artificiale. Ma di ben altro si tratta perché, se nella prima parte del lavoro (già pubblicata nel 1985) è rintracciabile l’incalzante proporsi del ‘fenomeno cyborg’, nella seconda, quella del cyborg postfordista, verranno snocciolati temi di apprezzabile attualità quali il proporsi del corpo come interfaccia o anche la considerazione bio-politica dei corpi.

Andiamo per gradi.

Nell’era tecnologica il corpo umano incamera una quantità sempre maggiore di artificiale, tanto da non poter più essere considerato un organismo puramente naturale.

Il corpo proto-industriale fisico e massimalista lascia un po’ alla volta, e non senza sovrapposizioni temporanee e connivenze, il campo ad un corpo virtuale, cibernetico, postindustriale e minimalista. Queste trasformazioni sono legate soprattutto alla crisi della modernità e a nuovi tipi di accumulazione del capitale: «l’immaginario, nel nuovo modo di produzione con cui il capitalismo ha riformato se stesso negli ultimi vent’anni, è diventato direttamente, al contrario che nel passato, una forza produttiva» (p. 9).

Il corpo è sempre di più uno spazio di scrittura, uno spazio di conoscenza, tabula sistematizzata dai significanti della società, sempre di più invischiato in flussi di informazione e potere. In questa sistematizzazione ha un ruolo fondamentale la tecnologia, prodotto dell’immaginazione creativa dell’uomo e risultato di esigenze sociali profonde, esigenze di potere.

Il corpo umano diventa qualcosa di diverso.

Antonio Caronia riprende il termine cyborg per indicare questa nuova condizione umana, a metà fra naturale e artificiale. Un neologismo che nella fantascienza indica un essere ibrido fra uomo e macchina, ma che ha invece salde origini scientifiche o tecnologiche.

Il cyborg della fantascienza è imparentato con il robot, variante novecentesca dell’automa settecentesco, corpo metallico goffo e traballante che cerca in tutti i modi dapprima di mordere la mano umana che lo crea e lo nutre, e poi (da Binder e Asimov in poi) di accreditarsi come un suo fratello artificiale, capace di emularlo non solo nelle performance operative e cognitive, ma anche nella dimensione affettiva ed emotiva, sino a rivendicare i suoi stessi diritti.

Il termine cyborg, in quegli anni, non è stato ancora coniato (lo sarà solo nel 1960, e non da uno scrittore di fantascienza, ma da due medici del Rockland State Hospital di New York, Manfred Clynes e Nathan Kline, nell'ambito di studi finalizzati all'astronautica): ma sulla natura dei nuovi esseri non possono esserci dubbi. L’uomo dell' 8000 d.C. con un meccanismo a orologeria nella testa può passeggiare nel tempo e in dimensioni sconosciute (The Clockwork Man di E.V. Odle, 1923); i cervelli immortali racchiusi in involucri metallici che progettano di spostare la Terra dalla sua orbita per attrarla in quella della loro cometa e così conquistarla (The Comet Doom di Edmond Hamilton, 1928); il professor Jameson, che sopravvive alla distruzione della razza umana grazie all’inscatolamento del cervello e scorrazza per i mondi nel secolo XXV (The Jameson Satellite di Neil R. Jones, 1931): ecco i primi ibridi uomo-macchina della fantascienza dei pulps (p. 19).

Interessante sottolineare il rapporto del ‘nuovo uomo’ con lo spazio.

«La diffusione della versione ottocentesca, meccanicistica, della fisica newtoniana, aveva portato il colpo di grazia alle valenze simboliche di cui era dotata la geometria dell’universo nella visione medievale, in cui l’alto e il basso, il noto e l’ignoto corrispondevano a qualità “morali” e postulavano quindi un genere ben preciso di abitatori. Lo spazio nella visione meccanicistica è un contenitore (nelle versioni più ingenue) o una funzione mentale (in quelle più agguerrite, che tengono conto della lezione di Kant), ma comunque omogeneo e isotropo: non ha più direzioni né dimensioni privilegiate» (p. 22).

Come integrare a questa visione quella dell’iper-spazio o del viaggio spaziale?

Caronia risponde: «il rapporto con la macchina (il computer e la sua straordinaria capacità di calcolo e di controllo dei processi), nella realtà come nella fantasia, è la via obbligata per permettere all’uomo l’esplorazione dello spazio. L’ibrido uomo-macchina, il cyborg, è quindi un candidato naturale per questa nuova impresa. La mostruosità, l’alienità si insinuano ormai in quello stesso essere che, con la sua testimonianza, con la sua presenza, dovrebbe garantire un senso al viaggio» (p.25).

È in queste parole che, forse, risiede la ‘svolta’ argomentativa nel lavoro di Caronia: l’altro, il diverso, il mostro o la macchina è detentore di ‘conoscenza’ o, meglio, è il solo a poter conoscere (e dare senso) ad alcune realtà.

Va quindi sostenuta la sostanziale differenza tra cyborg ed ibrido.

Donna Haraway, che nel 1985 scrisse il fondamentale Manifesto cyborg, usa il concetto di cyborg in senso metaforico, per indicare la nuova condizione di simbiosi con le macchine caratteristica dell’età industriale avanzata. In questo senso il cyborg non è che la nuova versione di una figura di cui sono pieni i miti di tutti i popoli, cioè l’ibrido.

Ma se l’ibrido del mito è una figura mista fra uomo e animale, il cyborg fa entrare in gioco un nuovo partner, la macchina. Da un lato ciò conferma in qualche modo che la tecnologia è davvero diventata una seconda natura dell’uomo, e che l’ibrido corrisponde sempre a una condizione ideale di integrazione fra l’uomo e il suo ambiente; dall’altro lato c'è una differenza fondamentale fra gli ibridi del mito e il cyborg, perché, mentre l’unità fra uomo e natura di cui ci parlano centauri, fauni, arpie e chimere è collocata in un lontano passato, in una mitica età delle origini, l’integrazione cui alludono i nuovi ibridi uomo-macchina è invece ancora tutta da costruire: il cyborg non è innocente, dice Donna Haraway.

«Se fino ai primi anni Trenta il cyborg è ancora principalmente un alieno, quasi sempre del tipo “cervello in una scatola di metallo”, ostile all’uomo e intento a progettare un’invasione della Terra, adesso comincia a essere più frequentemente un uomo mutato, in molti casi per renderlo adatto all’esplorazione dello spazio» (p. 25).

È questo il primo e più radicale modello di cyborg: un cervello inscatolato che del corpo dell’uomo non salva se non il suo organo più “nobile” (p. 27).

Il cyborg dall’umano intelletto. È tutto il resto che continua ad identificarsi con il mostruoso.

Questo il motivo per il quale i primi cyborg vengono rappresentati come scienziati pazzi, malvagi e vendicativi nei confronti dell’umanità. Sempre nel filone del cyborg elettromeccanico, però, un’altra variante si fa strada, ed è quella della sottolineatura del contrasto lacerante fra le due metà dell’ibrido: le sue tendenze e i suoi ricordi umani da un lato, la rigida programmazione della macchina dall’altro. Il cyborg diventa così, in questa variante, una figura dolente e nostalgica, che aspira all’Eden perduto di una condizione integralmente umana ma è tragicamente consapevole dell’impossibilità di attingerla, per la discontinuità provocata dall’ingresso nel suo corpo della dimensione della macchina. È evidente che qui riecheggi la tematica del Frankenstein di Mary Shelley e delle sue trasposizioni cinematografiche degli anni Venti e Trenta (p. 39).

«Mentre l’automa settecentesco, quello concreto e materiale costruito dai grandi atomisti, aveva anche l’effetto di rassicurare riguardo all’eccellenza del corpo dell’uomo (così complesso da essere imitato) e dalla sua mente (così acuta da essere capace di realizzare quell’imitazione), il robot, l’androide, il cyborg della fantascienza annunciano invece il declino dell’uomo quale noi lo conosciamo, o quale pensiamo di conoscerlo da ciò che la storia e l’abitudine ci hanno tramandato, e la nascita di un nuovo uomo, simbionte della creatura che egli stesso ha costruito ma ormai in qualche modo automatizzato» (p. 41).

L’invasione del corpo da parte della tecnologia – continua Caronia – non si esaurisce certo nella coesistenza fisica di dispositivi artificiali e tessuti naturali. Nel cyborg il processo di esteriorizzazione si è talmente esteso da rovesciarsi nel suo contrario, e questo rende insensati la maggior parte dei filtri attraverso i quali guardiamo il mondo.

Si impone una differente prospettiva della dicotomia naturale/artificiale e va allora ripensata anche la centralità del corpo umano in quanto dato biologico che si costituisce nell' interazione fisica con il reale.

Il corpo nella nuova visione diviene una superficie d’incrocio per le molteplici informazioni offerte dalla realtà circostante, un campo d'iscrizioni di codici socio-culturali, un elemento che si struttura, si delinea, non dal rapporto diretto con la natura, ma attraverso l’operato artificiale dell’uomo.

«L’enigma che il cyborg porta inscritto nel suo corpo è […]: che cosa è questo essere che mi sta davanti, un uomo o una macchina? È un prodotto della natura, o dell’ingegno umano? Se l’interrogativo, per quanto riguarda l’androide è di tipo epistemologico, per quanto riguarda il cyborg esso è ontologico. Domandarsi se un cyborg è uomo o macchina, equivale a rimettere in discussione le nostre credenze e le nostre convinzioni su che cosa sia l’uomo, quale sia la sua natura, o, dal punto di vista linguistico, la sua definizione» (p. 47).

L'uomo si presta ad essere manomesso, migliorato, adeguato alle esigenze della vita sociale.

È l’uomo stesso a divenire altro: l’uomo meccanizzato è il nuovo mostro che Caronia definisce freak tecnologico.

«Da sempre la deformità, il mostro (conformemente a un’accezione del suo etimo) sono stati giudicati meritevoli di essere esibiti. Come il nano o la donna baffuta, il cyborg rimanda a possibilità estreme, ultraumane del corpo, che sono poi analoghe a quelle del danzatore o dell’acrobata» (p. 51).

Ma, conservando caratteristiche umane, il cyborg, superando l’uomo stesso, può aspirare all’immortalità. «Il cyborg – continua Caronia – non è solo l’esponente di una svolta nell’industria destinata a controllare e macinare meglio nel suo sistema i consumatori. È anche il simbolo di un raggiungimento dell’immortalità attraverso la manipolazione della realtà e del tempo, un ritorno del sacro nell’unica dimensione in cui esso è possibile, l’eternità e la pervasività del ciclo della merce» (p.72).

Un’eternità del tutto rinnovata rispetto all’antico sogno di immortalità dell’uomo: la capitalizzazione del desiderio d’infinito, o di infinite possibilità (mi piace riassumerlo così).

La seconda parte del testo tocca, a volte solo sfiorandoli, temi di attualissima portata filosofica: da una veloce carrellata di pellicole cinematografiche ispirate al nuovo uomo tecnologico trasformato in androide (da Robocop a Terminator passando per Videodrome di Cronenberg), passa a quella che reputo la parte, seppur breve, più interessante dell’intero saggio: il corpo come interfaccia.

«Negli anni Ottanta sul corpo dell’uomo cominciano a trascriversi direttamente, visibilmente, le trasformazioni del processo di produzione e di circolazione delle merci: la fusione tra uomo e tecnologia realizzata nell’ibridazione del corpo può allora raccontare nuove storie […]. Oggi l’ibrido tra uomo e tecnologia può evitare addirittura il ricorso all’invasione di corpi estranei, trasferendo tutto il peso dell’inserzione dell’artificiale sulla modificazione del dispositivo di informazione, con un intervento esterno e programmato sul codice genetico. Il vero salto nella dimensione cyborg non starà più, quindi, in una “interfaccia chimica”, ma potremmo dire, in una “interfaccia genetica”» (p.106).

È a questo punto che Caronia riprende Foucault sostanziando la tesi per la quale “la realtà biologica si riflette in quella politica”: «se non è più di organismi che si deve parlare ma di “componenti biotiche”, se le strategie di controllo si concentrano sulle interfaccie e non sull’“integrità degli oggetti naturali”, se “qualsiasi componente può essere interfacciata con ogni altra”, allora è in questo processo di comunicazione, di transito dell’informazione, che consisterà la biopolitica del Ventunesimo secolo, non in uno scontro tra identità ben definite e contrapposte» (p. 110).

Bisognerà, d’ora in poi, ridefinire il significato di possibile e di necessario: «la necessità non è più una categoria modale “primitiva”, perché il ruolo di nozione modale fondamentale passa al concetto di possibilità» (p. 125).

Ma laddove il possibile è un progettarsi di infinite possibilità, può la possibilità stessa farsi concetto? Rifacendoci al tema proposto da Kainos per questo numero, Dopo l’umano, servirà, per dar credito filosofico al testo di Caronia, una riformulazione di concetti-base cui far riferimento per non cadere in continue aporie? Laddove si accerta che per il cyborg l’esperienza dell’estasi è di portata quotidiana e permanente, potrà l’uomo tradizionale, (così definito da Caronia per distinguerlo da quello che io devo necessariamente identificare nell’uomo artificiale) restando all’interno di se stesso, codificare un cambiamento epistemico\ontologico per poterlo linguisticamente descrivere?

Anche il testo di Caronia si chiude con alcuni interrogativi tra cui quello sulla modalità di «“rientrare in me stesso” dopo esserne uscito», sulla «possibilità di riportare con me la ricchezza intellettiva, emotiva ed affettiva che ho contribuito a costruire nella fase di esteriorizzazione, di uscita dalla mia dimensione individuale» (p. 128).

Il testo di Caronia, indubbiamente affascinante, lascia insolute questioni sostanziali, ma ha anche il merito di averci indicato il giusto luogo dal quale poter porre interrogativi.


(Sara Matetich)













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