Indice del numero 6

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Noam Chomsky, Michel Foucault,
Della natura umana. Invariante biologico e potere politico

DeriveApprodi, Roma 2005, Euro 12,00, ISBN 88-88738-70-3





Nel 1971, ad Eindhoven, si confrontarono per la prima ed ultima volta due intellettuali che incarnavano (Chomsky lo incarna ancora oggi) due modi differenti, per non dire opposti, di ‘contestare’ il potere e le sue epifanie politico-economiche: da un lato il sofisticato, ironico habitus genealogico di Foucault (“storico allo stato puro”, lo definiva l’amico Paul Veyne), grazie al quale ogni ipostasi, ogni apriorismo concettuale o scientifico prodotto dalla modernità, si fluidifica rivelando la sua impura compromissione con la storia; dall’altro, l’idealismo anarco-libertario di Chomsky, il quale ha tentato di fondare, su una sorta di apriorismo cognitivo nell’ambito della linguistica (la cosiddetta grammatica universale o generativa, che ipotizza una capacità innata della mente umana di apprendere e articolare il linguaggio), la propria battaglia per la giustizia e i diritti dell’uomo. Nell’infuriare della guerra del Vietnam, entrambi sono ovviamente ‘contro’ l’assetto socio-politico dell’epoca, contro quello che Marcuse, nell’Uomo a una dimensione del ‘65 (con un’espressione allora abusata ma efficace, sostituita oggi dal più opaco “pensiero unico”) aveva definito “l’universo di discorso” che ingabbia e falsifica la realtà; ma il loro sguardo su questa realtà negata, o raddoppiata dai media, appare completamente diverso: obliquo, interstiziale ed amorale quello di Foucault, che nel potere non vede univocamente ‘il’ nemico dei deboli, ma l’orizzonte relazionale, ambiguo, flessibile, in cui situare la singola lotta, la singola condotta tattico-strategica, la singola ‘resistenza’, anch’essa espressione di un potere (un potere inferiore, ma non per questo meno produttivo di quello occasionalmente superiore); rousseauiano, giacobino e tuttavia scientista, quello di Chomsky, che critica l’ingiustizia legalizzata dei poteri forti (dallo stato americano leviatanico e “fascista”, cfr. p.55, alle multinazionali) con l’anelito morale ad una specie di perfetta infanzia politica dell’uomo (non a caso nel dibattitto egli invoca continuamente il “bambino” – cfr. pp.9-10, pp.30-31, p.73 – come modello esplicativo in grado di illustrare il carattere innato della facoltà di linguaggio), un’infanzia di libertà e dignità in nome della quale combattere tanto il capitalismo quanto la (temutissima, per non dire mostruosamente dipinta) dittatura del proletariato.
Come non mancano di dimostrare i tre preziosi saggi che commentano la trascrizione di quello strano dibattito, condotto a mio giudizio da un incapace (tale Fons Elders, incapace sia di contenere la valanga locutoria di Chomsky quanto di cogliere la graffiante ironia di Foucault), si tratta di un dialogo tra sordi: stranamente impermeabili l’uno all’altro sono, infatti, anche i saggi di Marconi (che ‘parteggia’ per Chomsky), di Catucci (che spiega con dovizia filologica l’antropologia foucaultiana, derivata dalla lettura di Kant e situata per così dire alle spalle di quella conversazione), e di Virno (che però ha il merito di confrontare le due posizioni sui temi dell’attualità, soprattutto sulla vicinanza tra Chomsky e il movimento no-global). Ma, proprio nella loro inconciliabilità, essi chiariscono al lettore i motivi per cui questo dialogo, a trentacinque anni di distanza, può essere gettato come materia incandescente nella discussione bio-politica per eccellenza: quella che si occupa del modo in cui l’invariante biologico (la presunta ‘natura umana’ individuata non dalle scienze dure, ma con qualche artificio dalla sedicente linguistica ‘scientifica’ post-saussuriana) diventa la posta in gioco del potere politico, l’oggetto della sua governance – il target manipolabile della sua strategia di marketing.
Sarà ormai chiaro al lettore di questa recensione che (a mia volta costretta a prendere posizione dall’enormità della posta in gioco) parteggio per Foucault; perciò ritaglierò la breve argomentazione della mia preferenza, invece che sulla parte ‘politica’ del dibattito – ottimamente analizzata da Virno, e nella quale si rese più chiara la frattura teorica tra i due – sulla prima parte, quella durante la quale i due si diedero, senza scoprirsi e senza scomporsi, alle cortesi schermaglie accademiche.
Quello che parla di più, fin dall’inizio, è Chomsky: Foucault si limita a rispondere telegraficamente, ed a fare le sue velenose “correzioni storiche” (p.20) alle spiegazioni dell’interlocutore. Perché? Perché Chomsky si trova, fin dall’inizio e per tutta la durata del dibattito, nella posizione dello scienziato, del supposto-sapere che deve difendere la superiorità del discorso scientifico, e che solo a partire da questa superiorità può motivare la purezza della sua battaglia politica, mentre Foucault si situa, com’è sua abitudine, nel ‘fuori’ del discorso scientifico, nel non-luogo da cui scrutare, e smontare, la storicità del discorso epistemologico.
Fin dall’inizio, basandosi sull’osservazione empirica di un bambino qualsiasi alle prese con l’apprendimento di una lingua qualsiasi, Chomsky postula l’esistenza, nella mente umana, di “schemi innati” – dunque naturali, ontogeneticamente apriori per tutti gli individui della nostra specie – che rendono possibile trasformare le scarse stimolazioni linguistiche che ognuno di noi riceve da piccolo in una ricchissima e creativa articolazione individuale del linguaggio (cfr.pp.8-11).
Ciò significa, in primo luogo, che la linguistica di cui egli si avvale, e che ritiene implicitamente superiore ad ogni altra, è di tipo formale e funzionalistico: a partire da De Saussure, la linguistica ha smesso di occuparsi di “filologia comparativa” (cfr. p.28) e di grammatica storica, ha smesso cioè di studiare il divenire delle diverse lingue, la loro pluralità e la loro traducibilità. Mentre il XIX secolo ha visto il trionfo dell’ermeneutica e della linguistica comparativa, nel Novecento ci si è concentrati sulla struttura del linguaggio in sé concepito come oggetto astorico, sulla pragmatica, sulla fonetica, insomma su tutto ciò che poteva spazzare via come non-scientifiche le proliferanti ipotesi genealogiche circa l’origine e il destino di una lingua nel suo rapporto con le altre; per dare alla linguistica la limpida (cartesiana) dignità di una scienza esatta, era necessario parlare del ‘come’ (della forma-funzione): creare, per dirla con Foucault, un superiore ‘ordine del discorso’, in grado di escludere come inferiori i discorsi relativi al ‘che’ e al ‘quando’ (alla sfuggente storicità-mutabilità delle lingue).
In secondo luogo, Chomsky può rinvenire l’invariante biologico relativo alla facoltà di linguaggio – la cosiddetta ‘grammatica generativa’ propria della specie umana – , solo prescindendo dalla storicità filogenetica (darwiniana) della stessa specie umana, cioè dal fatto che il nostro DNA è il risultato di mutazioni genetiche avvenute in tempi lunghissimi, ma pur sempre casualmente stratificatesi; dimenticando dunque che il nostro corredo genetico non è fisso, ma variabile, e che questa sua variabilità è un evento, un accadere imprevedibile, che continua in modo impercettibile a modificare qualitativamente, anche se non quantitativamente, la ‘struttura’ intellettiva della specie (cfr. invece quanto egli sostiene alle pp.42-43).
In terzo luogo, la mutabilità storica riguarda anche la plasticità ontogentica di ogni singola mente umana – per dirla con la neuroscienza, del destino di ogni corteccia cerebrale: non è possibile codificare una modalità standard, e per di più fortemente “creativa” (cfr. p.31), di potenziare la facoltà innata di linguaggio, facendo astrazione dalle differenze che intercorrono tra un individuo e l’altro nel modo di apprendere e declinare (come idioletto) la medesima lingua. Non si può in altri termini fare finta che esista un invariante biologico ‘normale’, normativo, circa la facoltà di linguaggio, senza interrogarsi sul fatto che si tratta di una facoltà differenziale e differenziante: alcuni individui parlano (e scrivono) più e meglio di altri; alcuni ‘resistono’ al linguaggio o ne restano fuori (folli, afasici, sordomuti); altri se ne appropriano per esercitare un potere su altri ancora, e così via. L’unico fattore strutturalmente (non biologicamente) invariante, nel gioco linguistico, è la sua capacità di differenziare gli attori che vi partecipano; in questo senso, ogni singolo potenzia o de-potenzia idio-logicamente la “grammatica universale” di Chomsky, e, trovandosi a parlare in un determinato luogo e in un determinato tempo, lo fa avvalendosi di uno spettro linguistico diverso da quello di ogni altro individuo.
L’imponderabilità di questo fattore, per la linguistica che si pretende ‘scientifica’, è evidente. Essa non venne sottolineata da Foucault nel corso del dibattito – forse perché avrebbe potuto essere scambiata per una sorta di individualismo o soggettivismo differenziale che egli, attento com’era a de-personalizzare la propria posizione, evitava accuratamente – , ma fa parte integrante delle obiezioni genealogiche che, sulla sua scia, si possono formulare nei confronti della posizione chomskyana sulla ‘natura umana’.
La natura umana non è soltanto un trascendentale storico, o un concetto sorto dall’episteme moderna per stabilizzare il neonato oggetto delle scienze umane; essa è piuttosto l’orizzonte plastico in cui ogni individuo ‘diventa’ umano solo differenziandosi da altri – nel modo di articolare il linguaggio, di esercitare il potere, di vivere il desiderio o di conquistare la padronanza di sé. Ed è inevitabile che in questo processo avvengano delle esclusioni, si affermino delle gerarchie, si rovescino dei valori. In questo senso, lo sguardo di Foucault resta, anche politicamente, quello di Nietzsche (cfr. pp.66-67: Chomsky: “il fine da raggiungere non può che essere giusto”; Foucault: “Se non le dispiace farò un po’ il nietzscheano a riguardo”, cioè riguardo alla giustizia), ed è per ciò che, a differenza di quella di Chomsky, la sua opera non può essere compatibile con le ingenuità teoriche del cosiddetto movimento no-global: là dove Chomsky indica come invariante biopolitico, sulla scorta della sua grammatica universale, i valori dell’umanesimo: giustizia, libertà, dignità, concepiti indimostrabilmente come condizioni di possibilità di un armonico sviluppo linguistico e dunque morale dell’uomo (segno, questo, di una vaga contaminazione con la posizione schilleriana già espressa dal Marcuse di Eros e civiltà), Foucault, dal canto suo, indica nell’umanesimo il prodotto di una determinata configurazione epistemica della cultura occidentale: la biopolitica è il nome che egli ha dato alle strategie governamentali con cui i suddetti valori sono stati venduti come desiderabili alle popolazioni; ma essa è anche il campo in cui ogni singolo, ogni gruppo, può combattere, vincere o perdere la sua fetta di potere senza bisogno di concepire questa lotta come figlia di una natura perfetta o perfettibile (Foucault: “si fa la guerra per vincere e non perché sia giusta”; Chomsky: “su questo, personalmente, non sono d’accordo”, p.63); la biopolitica è in sostanza il territorio desertico, e perciò disumano, su cui la vita rivela e sopporta la propria infondata, e infondabile, politicizzazione.



(Eleonora de Conciliis)












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