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Strategie omeopatiche.
La natura al congiuntivo nell’antropologia filosofica del secondo novecento

di Vania Baldi

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Casey Reas, Image from process 4, 2005





[...] questo essere che manca di qualcosa,
che si strugge nella nostalgia del deserto e che
deve fare di se stesso un’avventura [...]
[...] l’uomo è più malato, più insicuro, più
mutevole, più indeterminato di qualsiasi altro
animale, non v’è dubbio – è l’animale malato.
F. Nietzsche


L’uno [l’animale], quando ha bisogno, sa la
misura di ciò che gli bisogna; L’altro
[l’uomo]
invece ha bisogno e non conosce la misura.
Democrito



La natura umana, ciò che rende l’essere umano una specialità naturale rispetto alle altre forme di vita, concentra su di sé un’attenzione scientifica sempre più rilevante. L’ambivalenza e la complessità che tale natura “incorpora” e riflette la rende del resto tradizionalmente permeabile a molteplici incursioni investigative volte ad individuarne e delimitarne una sorta di statuto teorico.

Gli ambiti di ricerca che storicamente si sono cimentati su tale questione hanno spaziato complessivamente dalla biologia alla fisiologia, dall’etologia all’evoluzionismo, dall’antropologia alla psicologia. La filosofia, senza dubbio, è stata per eccellenza una matrice di tali indagini1, matrice, tuttavia, contrassegnata da interessi prevalentemente metafisici, in cui la domanda sull’uomo non era quasi mai posta riferendosi esclusivamente alle sue prerogative specie-specifiche ed al suo habitat di riferimento (determinazioni e condizioni necessarie per comprendere i suoi passaggi “coevolutivi”), ma estesa ed implicata alla totalità di un mondo cui l’uomo appartenendo doveva costituirne il fondamento più elevato.

Rispetto a questo sfondo culturale, sempre operativo all’interno delle scienze umane, si possono saggiare oggi delle diverse evoluzioni teoriche. Una scienza filosofica dell’“animale umano”, quale quella che qui si vuole tratteggiare attraverso una delle sue espressioni più significative, ha cominciato a delinearsi, per l’appunto, negli ultimi cinquant’anni; avvalendosi sistematicamente dei risultati di ricerche inerenti alla biologia, all’etologia, alla psico-linguistica e prendendo le distanze da una filosofia della storia più fedele alle cose di una logica preordinata che ad una logica delle cose divenienti, tale ambito di ricerca ha tentato di emanciparsi dall’incastro d’una prospettiva onto-teologica.

Approfondimenti e ricognizioni periodiche intorno all’umano, sulla genesi e gli sviluppi dei suoi limiti e delle sue risorse, sono da correlarsi generalmente all’emergenza di nuove prospettive epistemiche, di originali scoperte scientifiche e tecnologiche, nonché alla pressione storica di inediti interrogativi suscitati dalle metamorfosi della condizione umana di esistenza. In particolare tali questioni si intrecciano attualmente a un passaggio d’epoca che colloca l’essere umano come «riproducibile tecnicamente», che lo impiega come «moneta vivente» intercambiabile, che implicitamente ne esalta ed attualizza la potenziale proteiformità antropologica (connessa alle trasformazioni del suo habitat) in derive postumane, che lo riduce ad elementare e generico prestatore d’opera in uno stato di formazione permanente, che lo costringe in un rapporto con il mondo storico schiacciato sul presente, che lo rende, in breve, terreno di coltura di un vasto processo «biopolitico» in cui le diatribe ideologiche tra naturale ed artificiale riemergono prepotentemente.



Unitarietà, sprovvedutezza e motivazione nell’umano

Punto di svolta per tale riflessione teorica sulla natura dell’essere umano consiste, oltre che nel separare nettamente vita animale da vita umana (passo diversamente compiuto all’inizio del secolo scorso da Scheler e Heidegger), nel porre in maniera decisiva la differenza tra la morfologia fisica complessiva della specie Homo sapiens e quella delle altre forme viventi. La problematizzazione e la sistematizzazione di questo percorso di ricerca è stata compiuta dall’espressione più matura di quell’“antropologia filosofica” che ha avuto in Arnold Gehlen uno dei suoi massimi esponenti; partendo da una domanda che riguarda proprio la natura umana e la specificità del “suo posto nel mondo” lo studioso tedesco ha introdotto ad una scienza filosofica dell’animale umano, a quel paradigma, cioè, che applica una riflessione teoretica ai dati provenienti da determinate scienze empiriche:

Nel caso dell’antropologia filosofica è ovvio che un «modello» dell’uomo deve essere in grado di coprire le discipline della morfologia, della fisiologia, della psicologia, della scienza del linguaggio, eccetera, abbastanza ampiamente, che se non i loro concetti specifici e le loro leggi particolari, almeno alcune delle loro categorie fondamentali possano venire poste in relazione.2

Il lavoro di questa antropologia non si concentra dunque sulle differenze culturali, ma tenta di individuarne il loro complesso luogo d’origine. I concetti e le idee impiegati in tale modello devono di conseguenza essere specifici di questo “oggetto uomo” e tuttavia tanto generali da poter essere utilizzati per l’aspetto fisico come per quello psichico; bisogna mirare, tra le suddette scienze, alla ricerca di risultati sperimentalmente convergenti, alla verifica di intersezioni empiriche, su cui poter puntellare così un sistema teorico integrante.

Attraverso questo metodo Gehlen delinea alcune condizioni-chiave fondamentali per la caratterizzazione dell’essere umano. Quelle genetiche e morfologiche, che sono alla base della divaricazione tra animali umani e non umani, vengono direttamente riflesse in un presupposto bioantropologico determinante, e cioè: la cronica povertà istintuale dell’uomo, la sua incompiutezza biologica, la sua costante bisognevolezza e minore specializzazione evolutiva rispetto alle altre specie (Mängelwesen). Correlato a questo principio costitutivo è, a sua volta, la sua «posizione particolare» (Sonderstellung) rispetto all’ambiente, la «mancanza di luogo», la sua «povertà di mondo», il non essere geneticamente conforme a nessuno spazio abitativo. All’uomo, spiega Gehlen,

è negato il soddisfacimento diretto, proprio della naturalità animale, dei suoi bisogni vitali, perché egli difetta della «via breve», della via lungo la quale gli istinti dell’animale trovano, attraverso i sensi sintonizzati sugli stimoli, i loro obbiettivi che la superiore saggezza della natura ha già predisposto.3

Da qui deriva l’acquisita consapevolezza con la quale Gehlen innesta nel suo impianto teorico un’ulteriore fenomeno-chiave distintivo dell’essere umano: si risponde («obbligatoriamente») alla perniciosa carenza organica ed al «disambientamento» originario, e ci si orienta nella ricerca pratica di un «esonero» (Entlastung) dalla conseguente pressione onnilaterale e perturbante di un «presente immediato», per mezzo di quella connaturata e assiduamente coltivata disposizione che riecheggia un verso del Faust di Goethe: «Im Anfang war die Tat» (In principio era l’azione).4

Aspetti morfologici basilari della natura umana, come stazione eretta, tattilità, manualità ed integrazione sensoriale, si confermano allora come parte di condizioni specifiche della sua esposizione/apertura al mondo e del proprio poter/dover essere «compito a se stesso».

Scrive Mazzeo:

La posizione eretta ci stacca da terra, ci espone agli stimoli ambientali favorendo una sensibilità corporea pericolosa e straordinaria. Quello umano è un animale che si contraddistingue per la varietà e non per l’acutezza dei suoi sensi: la sua pelle, priva di difese, trasforma il proprio carattere poiché non costituisce più, come nella maggior parte delle specie animali, un insieme di strutture specializzate e locali ma diventa essa stessa organo primario di percezione generico e diffuso.5

La «somestesia», il percepirsi nell’incontro con un mondo grezzo e imprevedibile attraverso una sensorialità diffusa nell’interezza del proprio corpo «implume», riveste per Gehlen una funzione cruciale nell’articolazione dello specifico umano, costituisce una sua notevole condizione di possibilità che si «coniuga con una motilità particolarmente plastica, con una struttura corporea aperta alle più diverse coordinazioni senso-motorie. Mobilità e sensibilità convergono in un continuo feedback sensoriale: quando l’animale umano si muove, non solo percepisce gli oggetti esterni ma anche se stesso».6

Cogliersi insieme come soggetto e oggetto della percezione struttura, inoltre, il particolare legame tra corporeità (liminare e anfibia) e la complessa interiorità (intrinsecamente partecipativa).

Il linguaggio verbale poggia su tali radici biologiche e materiali, non compare magicamente, frutto del prodigio divino, ma emerge poiché attecchisce in un corpo morfologicamente generico ed ecologicamente sprovveduto che ne ha necessità per andare avanti. L’essere umano, bisognoso cronico di socialità, si distingue dalle altre forme di vita già per la sua predisposizione morfologica al linguaggio, non per quest’ultimo in quanto tale; un corpo non implume e pre-orientato non avrebbe bisogno di parole con cui coprirsi.7

Per Gehlen, difatti:

Si consideri l’insufficiente dotazione dell’uomo, e sarà facile avvedersi che egli deve riconoscere per essere attivo e deve essere attivo per poter vivere l’indomani. Questa semplice formula si complica alquanto all’inevitabile osservazione che già questo stesso riconoscere è assai condizionato: nel caos del profluvio di stimoli non c’è dapprima proprio nulla da riconoscere, e solo il gradualissimo padroneggiamento di tale caos per mezzo di movimenti di maneggio e sperimentali fa nascere i compendiosi simboli, con i quali può avviarsi ciò che può chiamarsi conoscenza [...]. L’uomo che “già la fame futura rende affamato” (Hobbes, De homine, X, 3), “non ha tempo”: se non predispone il ‘domani’, questo domani non conterrà nulla di cui egli possa vivere.8

Tale prospettiva antropologica viene delineando, pertanto, aspetti fondativi della cultura e del divenire storico, partendo da una prospettiva che pone l’uomo, con il suo corredo biologico e spirituale-motivazionale, in una condizione di continuo e necessario apprendistato emancipatore ed incrinando, in tal modo, l’idea ingenua d’una natura umana essenzialmente preculturale.


Plasticità: ovvero la naturale artificialità dell’umano

La spinta ad agire propria di questo progetto particolare della natura che è l’uomo, deve essere, quindi, originariamente forgiata ed orientata sull’organizzazione del domani, sulla capacità di antivedere le condizioni che potranno contribuire a reggere la sua esistenza in futuro. L’abilità nel riuscirci è determinata, anzitutto, dalla «plasticità» delle proprie pulsioni (Freud), cioè da quella facoltà inibitoria degli impulsi appetitivi, che conferma una ridefinizione del senso del biologico in chiave culturale. Nell’atto costruttivo di realtà affidabili e stabilizzatrici l’animale umano non specializzato si trova, di fatto, a confrontarsi anche con la specificità del proprio «versante interno», con quell’«eccesso pulsionale» (l’Antriebsüberschuss, vero e proprio a priori biologico, esito della cronicità delle stesse pulsioni e della lenta maturazione organica), che aprendolo produttivamente al mondo (weltoffen) l’obbliga al tempo stesso alla disciplina di sé, a prendere posizione verso se stesso anche volgendosi contro di sé.9

La natura umana, si potrebbe dire con Gehlen, è omeopatica; nel rischioso rapporto con l’ambiente indeterminato che la circonda, e che l’obbliga a rispondere, deve assecondare le proprie necessità affidandosi a quelle «virtù fisiologiche» che la distinguono. Deve creare un mondo di rimpiazzo «che possa cooperare con il suo deficiente equipaggiamento organico; e fa questo ovunque possiamo vederlo. Vive in una natura artificialmente disintossicata, trasformata in senso utile alla sua vita, ciò che è appunto la sfera della cultura».10 La vita umana garantisce la propria possibilità d’esistenza separando, in queste prestazioni complesse di adattamento, le azioni dalle pulsioni, procrastinando (plasticamente) le risposte agli stimoli pulsionali in ragione di interessi stabili. Lo specifico della cultura, ciò che rende l’uomo un essere «naturalmente culturale» o l’antropologia filosofica una «filosofia della tecnica», sarebbe proprio questa tensione alla trasformazione, di sé e degli ostacoli naturali insieme, ed alla ricerca di ambiti di sicurezza e ordine (esonero), imparando a non cedere ai propri istinti, alla loro soddisfazione immediata (perché non gli garantirebbe l’esistenza), ma a piegarli, con inventività guidata dal confronto con le imposizioni della natura e con la presenza altrui, verso ambiti più adeguati a pratiche significanti.

L’uomo, oltre ad avere bisogni, «coltiva interessi»: mette tra parentesi i propri istinti, li sublima, li indirizza verso un obbiettivo diverso da quello originario. L’interesse è un bisogno contestualizzato, sensibile alle diverse circostanze. L’essere umano dispone della capacità disciplinante di frapporre tra sé e sé uno iato:

questa parola [iato] deve indicare il fatto che l’uomo è in grado di ritenere presso di sé i suoi impulsi, desideri, interessi, di sganciarli dall’azione – e questo può succedere tanto da sé (nello stato di riposo) quanto volontariamente – in quanto non accondiscende ad essi attivamente, per cui questi acquistano una valenza “interiore”. È lo iato che costituisce propriamente ciò che si chiama anima.11

L’eccesso di pulsioni può venire impiegato in tal maniera in occupazioni sgravate, alleggerite, persino ludiche, nelle quali si costruisce un rapporto più mediato e creativo con il (e nel) mondo. Bruno Accarino, ad esempio, sottolinea come la concezione gehleniana della condotta esonerante ed alleggerente, che libera da una condizione di dipendenza istintuale altrimenti autodistruttiva, sia filosoficamente da valorizzare per «il potenziale di critica immanente dell’“ora” e del “qui”: come distacco da una spazialità cogente e da una puntualità temporale che, nel loro essere contingenza allo stato puro, schiacciano gli orizzonti mondani della vita»; l’antropologia elementare di Gehlen «si riassume nel rifiuto di una logica ascrittiva a favore di una logica acquisitiva. Che è quanto esprime l’immagine dell’uomo come di un essere che è posto biologicamente dinnanzi a un compito: di un essere per il quale, cioè, il mondo non è un datum, ma un dandum».12

Per altri versi l’antropologa americana Mary Douglas, riferendosi alla teoria humeana della giustizia, propone una concezione del soddisfacimento e della qualificazione antropologici del tutto simile a quella dell’esonero:

In un essere caratterizzato da bisogni cronici il soddisfacimento di sfondo è […] un’autentica categoria antropologica. […] La coscienza del futuro soddisfacimento di un bisogno, o il soddisfacimento virtuale, è di per sé un’esperienza di soddisfacimento, e non per un particolare “istinto di sicurezza”. Piuttosto la sicurezza è data dalla garanzia anticipata riguardo al bisogno futuro, dall’esonero rispetto all’urgenza con cui si impone attualmente.13

Quelle filosofie, allora, che decantano la creatività di certe pratiche culturali in quanto libere ed indipendenti da ogni presupposto, perché considerate autonome rispetto a un «paradigma referenzialista», svincolate da una legittimazione esterna, che sono enfatizzate in quanto eventi consistenti in sé (si pensi all’esperienza heideggeriana della storia come evento, Ereignis, o dell’arte come salto originario, Ur-sprung), in realtà, dimenticando le condizioni socioantropologiche necessarie alla loro emergenza, ostacolano una loro reale comprensione. Una prassi puramente creativa e gratuita, insieme ludica e performativa, è pienamente concepibile a partire da un’impura «bienfaisante certitude» offerta da un soddisfacimento di sfondo istituzionale, «da quella struttura oggettiva delle possibilità e delle impossibilità che sono inscritte in un campo»14 d’azione qualsiasi.

La facoltà d’inibire internamente la dinamica pulsionale e quella di procrastinarla è espressione, come detto, di plasticità. Questa attività è decisiva poiché propedeutica ad un cammino che conduce, attraverso un’articolazione graduale, e non teleologica, tra esoneri, verso la formazione collaborativa di un sistema di equipaggiamento «istituzionale». Questo processo è a sua volta sostenuto, intessuto e spronato, da un «corredo d’immagini» rispondente all’effetto riflessivo della mediazione degli impulsi. Le pulsioni trattenute presso di sé consentono, difatti, il configurarsi d’una «coscienza ideativa», differente dalla «coscienza strumentale», che per Gehlen sollecita, nelle relazioni reciproche tra uomini, finalità secondarie imprevedibili come quella legalità senza legge che è proprio l’istituzione. Questa la sintesi dello studioso sul percorso antropogenetico tra eccesso pulsionale e forme di conduzione d’esistenza:

1) Le pulsioni sono inibibili e possono essere “contenute”; ciò apre lo “iato” tra esse e l’azione. 2) Sono sviluppate soltanto nel costituirsi dell’esperienza, dunque divengono coscienti del loro obbiettivo nel corso dell’esperienza. 3) Sono corredabili di immagini, di fantasmi, di “ricordi contenutistici”. Se contenute, con queste immagini divengono coscienti quali bisogni e interessi determinati. 4) Sono plastiche e variabili, e possono seguire le modificazioni delle esperienze delle circostanze, concrescere con le azioni. 5) Per questo motivo non sussiste alcuna netta distinzione tra bisogni elementari e interessi condizionati. 6) Su bisogni inibiti possono crescerne di superiori; questi, in quanto “interessi permanenti” si muovono nel futuro e “rimangono interni” rispetto ai mutevoli bisogni del presente. Essi sono sempre i correlati di istituzioni oggettive. 7) Tutti i bisogni e interessi, non appena destati all’esperienza di maneggio e corredatisi di immagini, sono oggetto come tali della presa di posizione di altri interessi virtuali e perciò possono essere respinti oppure “accentuati”.15


Crucialità storica della natura umana: due prospettive recenti a confronto


Su un piano antropologico, lo sforzo teorico di Gehlen si articola complessivamente nell’idea della plasticità della natura umana, in cui prende forma un’immaginazione corporea costitutiva della possibilità stessa del realizzarsi di ambiti di sopravvivenza prima e di fertile creatività culturale dopo, ambiti sorretti istituzionalmente. Ora, il problema cruciale, che ritorna ad impegnare in una rinnovata riflessione sulla natura umana e su un piano non solo antropologico, verte proprio sugli effetti del ruolo svolto nel tempo dai processi istituzionalizzanti. A Gehlen non erano sfuggiti gli aspetti controversi legati alla concezione del potere salvifico dell’istituzione, in particolar modo in quanto implicanti lo sviluppo storico degli ambiti tecno-scientifici. Una volta velocizzatisi i meccanismi del loro funzionamento e ampliate le interdipendenze regolatrici tra le eterogenee strutture esoneranti, si sono create inevitabili condizioni per rapporti sociali autonomizzati dagli uomini, per esperienze sempre più mediate all’interno di “superstrutture” incomprensibili nel loro rapporto concreto con la realtà, condizioni, definite «post-storiche», ri-determinanti un principio d’essere legato alla contingenza.16 Gehlen, appassionato e attento alla costituzione concreta di strutture culturali in chiave socio-morale, non poteva che denunciare, così, l’apparente «inselvatichirsi» e «primitivizzarsi» dei comportamenti sociali, quale esito indiretto della generale astrazione dalla pluridimensionale realtà storica, giacché una buona articolazione tra più istanze etiche/normative «si regge solo se queste sono consolidate in quanto accordate su un minimo di attriti».17

La trama concettuale sinora delineata rimane uno snodo teorico cui, più o meno esplicitamente, ci si riferisce in alcuni studi recenti inerenti le metamorfosi dell’umano. Che abbordino l’argomento da una prospettiva filosofica o sociologica, antropologica o psicolinguistica, tali riflessioni dibattono su quale è la condizione antropogenetica in un tempo «secolarizzato», in cui, inoltre, vengono erose istituzioni di senso tendenzialmente affidabili e ben articolate. L’interesse odierno per tale questione deriva, quindi, da una necessità contingente di ri-comprensione del senso delle nostre forme di vita alla luce delle loro trasformazioni.

È captabile, difatti, la ragionevole persuasione per cui sia divenuto rilevante volgere lo sguardo sulla natura dell’umano, sui suoi requisiti e le sue facoltà, non tanto o non solo per un classico interesse specifico di settore, quanto per un obliquo bisogno storico di ri-individuazione, di ri-cognizione di un proprio da cui poter ri-partire per creare del nuovo. Bisogno legato ad una prospettiva di ri-valorizzazione di ciò che si è, ma non nei termini angustianti d’un solipsismo introspettivo – che si conferma invece essere una deriva delle nostre abitudini presenti – , bensì in quelli della risposta ad una confusione culturale in cui i confini tra self e not-self sono resi vacui; preme acquisire consapevolezza di ciò su cui, nelle nostre forme di vita, fondamentalmente si conta, senza accorgersene, quando si fa esperienza, ma anche, quindi, di ciò di cui si dispone per pensare e inventare prassi ulteriori.

In merito si indicheranno brevemente due posizioni teoriche, diverse, ma tra loro implicate, relative all’atmosfera culturale complice della condizione antropologica presente.

La prima è proposta dal filosofo Paolo Virno; principio della sua riflessione è la constatazione che viviamo «nell’epoca in cui la prassi umana si applica nel modo più diretto e sistematico all’insieme di requisiti che rendono umana la prassi».18 I requisiti cui l’autore fa riferimento sono quelle prerogative specie-specifiche (intese come invarianti biologiche) che contraddistinguono l’esistenza dell’animale umano in quanto essere potenziale: la congenita immaturità morfologica (neotenia), la non specializzazione istintuale, la mancanza di un ambiente univoco e la facoltà linguistica ne attesterebbero i «diagrammi». Se è vero che il momento storico presente è caratterizzato da precarietà e flessibilità professionale, formazione ininterrotta, produzione lavorativa centrata sulla performatività della facoltà di linguaggio, allora è certo che la natura umana sta al centro della nostra esperienza: «Le forme di vita oggi prevalenti non velano, ma ostentano senza remore i tratti differenziali della nostra specie [...]. L’attuale organizzazione del lavoro non smorza il disorientamento e l’instabilità dell’animale umano, ma, tutt’al contrario, li porta al diapason e sistematicamente li valorizza».19

Incompiutezza, immaturità bioantropologica e disambientamento, connesso a un bisogno d’apprendistato continuo (formazione permanente), costituiscono le determinazioni costanti dell’essere umano su cui poggiano e fanno leva le dinamiche dell’«apprezzamento» odierno, conferendogli così il massimo risalto.

L’epoca attuale si contraddistinguerebbe, pertanto, per un’inedita sovrapposizione «tra invariante biologico e variabile sociopolitica». Da qui, suggerisce Virno, un motivo del rinnovato interesse per la nozione di natura umana.

La natura umana torna al centro dell’attenzione non già perché ci si occupi finalmente di biologia anziché di storia, ma perché le prerogative biologiche dell’animale umano hanno acquisito un inopinato rilievo storico nell’odierno processo produttivo [...]. Non è difficile constatare la corrispondenza tra certi caratteri salienti della “natura umana” e le categorie sociologiche che più si attagliano alla situazione attuale20.

Si ri-sperimenta così, sul piano sociale, quel grezzo rapporto circolare tra corpo, mondo e semiosi linguistica: «la pressione incessante e onnilaterale di un mondo che non è mai ambiente», si familiarizza, paradossalmente,

con il profluvio di stimoli percettivi che non si lasciano tradurre in azioni univoche. Questa sovrabbondanza di sollecitazioni indifferenziate non è più vera soltanto in ultima analisi, ma in prima; non è un inconveniente da emendare ma il positivo terreno di coltura dell’attuale processo lavorativo.21

La seconda riflessione presa in esame verte sull’individuazione d’una figura storica altrettanto inedita, definita dal filosofo Mario Perniola con il termine di «superanimale». Premessa di questa riflessione sulle ragioni dell’interesse teorico nei confronti della condizione animale è, anche in questo caso, la presa d’atto dell’emergere d’una condizione storico-sociale in cui smarginano le classiche condizioni (materiali e simboliche) del fare esperienza e dell’agire pratico. Proprio, ad esempio, l’esposizione a un mondo esperibile in tutta la sua indeterminatezza e potenzialità provocherebbe l’ingresso in una dimensione del sentire estetico in senso stretto:

Fintanto che l’essenza dell’umanità è vista nel pensare o nell’agire, il rapporto tra la specie umana e gli animali si configura come un abisso incolmabile. Nell’età delle ideologie e delle burocrazie trionfanti, l’animalità si configura come bêtise, come disumanità e stupidità. Ma oggi, nel tramonto dei poteri ideologici e burocratici e nell’emergere di un potere “sensologico”, connesso cioè con la facoltà di esperire stati di piacere e di dolore, crollano quei bastioni che tenevano separata la specie umana dalle altre forme di vita.22

Quando il fulcro della società si sposta dall’ambito conoscitivo e da quello pratico verso quello sensitivo, «gli animali ci sembrano essenzialmente non diversi da noi». Ne segue che il sentire tipico dell’umano, il suo valore per la conoscenza di sé e degli altri e per la creazione di intense manifestazioni espressive d’identità, cede il passo ad una sua inquietante oggettivazione, cioè al «fatto che il sentire non è più il luogo per eccellenza di un’esperienza soggettiva, ma qualcosa di anonimo di impersonale, di esterno, di altro, qualcosa che non ci appartiene più intimamente».23

Tuttavia, il determinarsi d’una modalità del sentire priva di autoidentità, caratterizzata da «un’emotività senza coscienza», non conduce verso l’uscita da una situazione di dipendenza selvatica dal mondo storico. Il superanimale, l’uomo che sente in maniera desoggettivata, rimane inscritto e cooptato in una sfera culturale (di cui naturalmente è parte integrante come essere altrettanto culturale), che non può non vincolarlo ai suoi richiami storici di «conformità e riuscita sociale, schiacciandolo sul piano dell’effettualità pratica e del successo immediato».24 Che, o quanto, sia responsabilità sua rispetto a quella del clima culturale che abita, qui, ciò che importa è constatare come venga segnalato un curioso incastro (una sovrapposizione storico-naturale) tra esperienze di sé, ossia: in quanto soggetto storico e in quanto animale umano elementarmente virtuoso: «macchina che sente», «moneta vivente che garantisce la scambiabilità di tutte le emozioni, affezioni ed emozioni»25.

Importante, infine, è ricordare come il riemergere, dallo sfondo storico-biologico, delle facoltà naturali dell’umano, sia un esito dei complessi sviluppi storici delle istanze normative e del proliferare dei conflitti etici della nostra «tarda cultura», e non un regresso ad un vissuto presociale. Tornare a fare esperienza dei tratti salienti dell’antropogenesi significa anche, in effetti, sapere (o rammentarsi) di essere già da sempre culturali, dotati, cioè, di quella travagliata capacità creativo-partecipativa riassumibile nella metafora dell’«uomo al congiuntivo» (secondo l’espressione di Gunter Stern); l’essere umano è qui ma potrebbe essere , può aprire varchi trasformativi, per mezzo di apprese disposizioni ideative e adattative, tra vincoli concreti e possibilità realistiche. Il mondo continua ad essere un dandum e l’eredità delle acquisizioni storiche rimane operante; è per questo che la logica del congiuntivo può non essere più confusa con quella della, pur complicata, sopravvivenza.





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1) Si veda in proposito Franco Voltaggio, “L’eredità di Aristotele”, Lettera Internazionale, 80, 2004, pp. 36-39.

2) Arnold Gehlen, Prospettive antropologiche (1961), tr. it. di S. Cremaschi, Il Mulino, Bologna, 1987, p. 191.

3) A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1940), tr. it. di C. Mainoldi, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 378.

4) Cfr. Marco Mazzeo, Tatto e linguaggio. Il corpo delle parole, Editori Riuniti, Roma, 2003, p. 96; oltre al richiamo a Goethe è utile l’indicazione che Mazzeo fornisce sul parallelismo euristico, fondato su tale richiamo, tra autori come il Wittgenstein di Della certezza (1969), tr. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino, 1978, paragrafo 402, ed il Vygotskij di Pensiero e linguaggio (1934), tr. it. di L. Mecacci, Laterza, Roma-Bari, 1992, p. 395. Inoltre, va esplicitato come Gehlen approfondisca le tematiche del disadattamento organico dell’uomo riprendendole soprattutto da autori come Herder, Nietzsche e Fichte.

5) Ivi, p. 95.

6) Ibidem.

7) Riprendendo le analisi di Marcel Mauss, di Lévy-Strauss e di Georg Herbert Mead, Gehlen riflette parallelamente su un correlato naturalmente culturale della facoltà linguistica, ovvero, sulla «reciprocità» come principio essenziale della vita in collettività: «una costante corrente stilistica dell’umano […]. Una “linguisticità” degli stessi impulsi e bisogni. Quando l’assunzione della risposta e del comportamento dell’altro come aspettativa guida già il proprio agire […], allora si può vedere la reazione di conferma dell’altro come un bisogno di durata, che è per così dire immagazzinato in tutti gli altri bisogni [...] Ogni impulso dell’uomo è necessariamente orientato, rivolto, come il pensiero, a trovare il proprio sostegno pubblico»; A. Gehlen, Morale e ipermorale. Per un’etica pluralista (1969), a cura di U. Fadini, tr. it. U. Fadini e A. Bernini, Ombre Corte, Verona, 2001, p. 66.

8) A. Gehlen, L’uomo, cit., pp. 77-78.

9) La questione dell’eccesso pulsionale tematizzata da Gehlen è ripresa, oltre che da Freud, da M. Scheler e A. Seidel, così come il tema della plasticità riprende l’osservazione nietzscheana di Al di là del bene e del male per cui vivere vuol dire «un voler essere diversi da quel che è la natura».

10) A. Gehlen, Antropologia filosofica e teoria dell’azione (1983), a cura di E. Mazzarella, tr. it. di G. Auletta, Guida, Napoli, 1990, pp. 88-89.

11) Ivi, p. 136. Pur meritando un maggiore approfondimento, è interessante segnalare come questa necessaria quanto ricercata disposizione antropologica, che permette di orientare ordinatamente il proprio eccesso pulsionale, è affine al presupposto d’un’esperienza altamente speculativa di genere estetico. Ad esempio, nella ricerca condotta dal filosofo Mario Perniola sulla peculiarità del sentire estetico è rimarcata come precondizione di tale sentire una «distanza psichica nei confronti dell’io pratico coinvolto nei suoi bisogni e progetti»; una sospensione degli affetti basata sul «distacco dal nesso costante delle esperienze personali e l’esclusione del desiderio», accompagnata da un’attività psicologica dedita al sovrainteressamento della realtà oggettiva circostante, offrirebbe la possibilità per cui, pur venendo «a mancare qualcosa della totalità della vita», avvertiamo la mancanza di questo qualcosa «come un pregio»; cfr. M. Perniola, L’estetica del novecento, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 184.

12) Bruno Accarino (a cura di), Ratio imaginis, Ponte alle Grazie, Firenze1991, p. 30.

13) Mary Douglas Come pensano le istituzioni, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 58.

14) Così Pierre Bourdieu critica la mitologia sartriana del «'creatore' increato»: cfr. P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 122.

15) A. Gehlen, L’uomo, cit., pp. 82-83. Da queste prospettive risulta ridimensionata la tesi recente sostenuta da Roberto Marchesini su Gehlen in Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Borringhieri, Torino, 2002. «Il paradigma dell’incompletezza» (pp.10-42) preso di mira dallo studioso italiano sembra considerare (come rapidamente ammette l’autore stesso) più la lettura che di tale teoria ne fa Umberto Galimberti in Psiche e techne, Feltrinelli, Milano, 1999, che quella dello stesso filosofo tedesco. Galimberti, in effetti, facendo seguire all’inadeguatezza organica una visione solipsistica dell’agire umano, continua a promuovere una tradizione antropocentrica. In breve, la difettività che caratterizzerebbe l’uomo come un’eccezione non può trasformarsi automaticamente in principio d’eccezionalità o d’eccellenza. È l’ibridazione con i variegati elementi del fuori, resa possibile da una logica partecipativa immanente al suo agire, che l’individua e rende speciale.

16) In proposito si veda Ubaldo Fadini, Configurazioni antropologiche, Liguori, Napoli, 1991, pp. 131-150.

17) A. Gehlen Morale e ipermorale, cit., p. 53.

18) Paolo Virno, “Diagrammi storico-naturali”, in Forme di vita, n.1, DeriveApprodi, Roma, 2004, p. 104. Si veda, inoltre, sempre dello stesso autore Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana, Bollati Boringhieri, Torino, 2003. Testo in cui è approfondita la tipicità dell’esperienza antropologica attuale, considerandola, però, come specchio di un’esperienza costante (transtorica) della natura umana, ma che si lascia intravedere nei suoi elementi costituenti solo in determinati passaggi storici critici proprio come quello presente: tempo in cui l’umano si esperisce nella storia come in una «ripetizione di secondo grado dell’antropogenesi» o come «emblema d’un’origine permanente».

19) P. Virno, Diagrammi, cit., p. 110.

20) Ivi, p. 111.

21) Ibidem.

22) Mario Perniola, Disgusti, Costa & Nolan, Genova, 1998, p. 51.

23) Ivi, p. 52.

24) Ivi, p. 53.

25) Ibidem.



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