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Dopo l'uomo.
Tra rivoluzione e catastrofe

di Tonino Bucci



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Casey Reas, TI, 2004 (foto da installazione)






«Se vi è un compito filosofico il cui assolvimento viene richiesto in maniera particolarmente pressante dalla nostra epoca, è quello di un’antropologia filosofica. Intendo una scienza fondamentale dell’essenza e della costruzione essenziale dell’uomo; […] una scienza della sua origine metafisica essenziale e del suo inizio fisico, psichico e spirituale nel mondo; delle forze e delle potenze che lo muovono e che egli muove; una scienza delle tendenze e delle leggi fondamentali del suo sviluppo biologico, storico-spirituale e sociale, tanto delle possibilità essenziali di questo sviluppo quanto delle sue effettualità»1. Erano ancora gli anni ’20 quando Max Scheler, autore di queste parole, pensava fosse necessaria una nuova disciplina, autonoma, perché desse un «fondamento» di cui avevano bisogno le scienze che si occupavano dell’oggetto «uomo». Si faceva portavoce di un’esigenza del tutto comprensibile in un tempo che nella cultura filosofica vedeva protagonista un “nuovo umanesimo”, presente in tutte le maggiori tendenze dell’epoca, nell’esistenzialismo, nella fenomenologia, nello spiritualismo.

Oggi risulterebbe difficile parlare con altrettanto ottimismo di essenza umana. Non solo sarebbe arduo definire che cosa sia costitutivo dell’uomo, ma si dovrebbero affrontare un monte di problemi anche soltanto per stabilire un confine certo tra il campo dell’umano e la vita, e non è detto che sia possibile. Scheler poteva ancora indicare, con la certezza di avere dalla propria parte le scoperte delle scienze del proprio tempo, un principio che spiegasse il salto qualitativo, irriducibile dell’intelligenza dell’uomo rispetto alle forme di vita animali e vegetali. Poteva ancora chiamare «spirito» la libertà che l’uomo ha, a differenza delle altre specie, di dire no agli stimoli dell’ambiente esterno. L’uomo di Scheler può comportarsi da asceta ed esattamente come l’uomo di Freud può reprimere le sue pulsioni per sublimarle in attività simboliche. E tanto bastava per gettare un fossato invalicabile tra umano e organico. Ma oggi lo sviluppo delle tecnologie ha reso problematico persino distinguere l’intelligenza umana, l’intelletto sul quale si fondava il soggetto cartesiano-idealistico, dall’intelligenza artificiale. La stessa linea di frontiera tra organico e inorganico, bisogna ormai ammettere, è ogni giorno sempre più mobile. L’oggetto «uomo» si è dissolto, l’io ha scoperto di non possedere più un centro – che tradizionalmente la filosofia indicava nell’autocoscienza del cogito – e di essere determinato dal di fuori e al suo stesso interno da istanze e forze che sfuggono al suo controllo: l’inconscio, il linguaggio, la produzione economica. E anche qualora l’uomo continuasse a ritenersi fondamento del mondo, non potrebbe comunque chiamarsi fuori dalla storia che egli stesso produce. Non c’è uomo al di fuori dell’orizzonte storico, è nel tempo che il genere umano si viene costruendo senza che possa invocare il soccorso di qualche essenza umana immutabile e intemporale – del resto, anche il DNA ha la sua storia e il patrimonio genetico è tutt’altro che immodificabile.

L’uomo è plurale, non solo per il continuo differire delle identità culturali nella globalizzazione, ma anche – sembrerebbe – per la molteplicità irriducibile dei punti di vista che hanno le tante discipline che si occupano dell’umano, dalla bioetica alle neuroscienze, alla psicoanalisi, alla genetica fino alle biotecnologie. Ma l’uomo rischia di dissolversi anche perché il mondo che l’umanità ha prodotto al culmine del proprio sviluppo scientifico è diventato così complesso da sfuggire al suo controllo. Proprio quando lo strumento principale della sua volontà di potenza, la tecnica, è giunto all’apice della capacità di produrre, la realtà non ci appare più in forma antropomorfa, a misura d’uomo. Ci sembra piuttosto governata da forze anonime e impersonali. Il vecchio soggetto dell’umanesimo ha perso il proprio primato e deve inventarsi nuove categorie per pensare il suo presente e, perché no, anticipare il proprio futuro. Ma le parole per esprimere la transizione dall’umanesimo moderno verso un altro tipo umano mancano. Nell’attesa l’unica espressione che soccorre è quella di post-umano.

Ma, come spesso accade per tutti i termini che iniziano con il prefisso “post” – ormai abbondanti nel lessico filosofico attuale – anche questa categoria deve scontare una certa dose di ambiguità. Il prefisso post potrebbe essere letto, ad esempio, come il sintomo di un trauma epocale, di una cesura netta, di un passaggio da una condizione affermativa a una situazione di mancanza, di vuoto o, anche, di negazione e rielaborazione della fase precedente all’interno di quella che starebbe per nascere. Post-umana potrebbe essere la società che si annuncia nella globalizzazione, ma con caratteristiche che non lasciano spazio al compiacimento. La realtà che incombe è così complessa da assomigliare a un dispositivo tecnico che va per conto proprio, tanto da mettere fuori gioco la capacità dell’uomo di governarla in vista della sua felicità. Una parte dei filosofi contemporanei ha ben presente i rischi di un mondo spersonalizzato in balia di una téchne che ha aumentato indefinitamente la capacità di realizzare scopi e di abbattere ogni limite nel controllo sulla natura. E ha profetizzato all’umanità un destino pieno di incertezze riguardo al proprio futuro. «L’orizzonte antropocentrico è già dissolto, perché il potere non è più dell’uomo, ma della tecnica che detta al presunto detentore del potere (l’uomo) la sua utilizzazione, rendendo quest’ultimo esecutore passivo delle possibilità tecniche, le quali si esercitano sulla natura che passivamente le subisce»2. Non è più il potere dell’uomo sulla natura ma il potere della tecnica sull’uomo e sulla natura in virtù di un’eterogenesi e di uno scambio tra mezzo e fine.

In questo senso il post-umano verrebbe a significare la crisi e la scomparsa dell’umanesimo, intendendo con questo termine tutte quelle filosofie post-cartesiane che, in un modo o nell’altro, hanno riconosciuto all’uomo il ruolo di legislatore sulla natura e sulla storia, oltre a quello di soggetto di una prassi legittimata a trasformare il mondo. Ma paradossalmente proprio lo strumento di cui l’uomo occidentale si è servito per realizzare i propri scopi, ha finito per affermarsi come un meccanismo impazzito, lanciato ad accrescere indefinitamente la propria potenza. L’uomo, da soggetto che era, si è scoperto mezzo di cui la tecnica si serve per potenziarsi e prendere il suo posto. La téchne ha permesso la realizzazione dell’epoca moderna, è stata il correlato della razionalità scientifica e dell’uomo cartesiano che ha mandato in frantumi il cosmo degli antichi greci. Ma è stata anche il motivo della sua dissoluzione. L’uomo greco, pur con l’arte di Prometeo, restava impotente rispetto alle leggi immutabili della natura e la sua esistenza non poteva che avere il significato tragico di una faticosa ricerca del proprio senso. L’uomo cartesiano, invece, non intende più ricevere le sue norme e le sue leggi né dalla natura né da Dio, ma pretende di fondarle lui stesso a partire dalla propria ragione e dalla propria volontà3. Da questo momento in poi non c’è sfera della cultura umana – dalla morale al diritto, alla politica – che possano fondarsi in un ambito extraumano. Il sapere che meglio incarna questa procedura di fondazione del cosmo immanente alla razionalità umana sarà la scienza, mentre alla tecnica spetterà il compito di tradurre in prassi quello che la scienza realizza nella contemplazione e nella conoscenza. Ma nel momento di massima realizzazione del primato dell’uomo attraverso le possibilità tecniche è insito il capovolgimento: quel che era mezzo diventa fine, un sistema di effetti reversibili che sottrae all’agire umano senso e controllo di sé4. La volontà di potenza della tecnica si è estesa fino ad affermare il proprio potere sulla natura, il bios, la zoé, la vita nella sua struttura biologica più intima. La macchina ha incorporato anche la più spirituale delle doti umane, l’intelligenza.


Il disprezzo per la modernità

Ma non bisogna neppure sottovalutare il possibile esito “conservatore” connesso a questa identificazione negativa tra tecnica ed epoca moderna. Non è poi così lontano il rischio che le filosofie post-heideggeriane approdino nella loro antimodernità a una sorta di disprezzo aristocratico e a posizioni politiche molto poco democratiche. Considerare le società tecnologiche di massa come teatro dell’inautentico nelle quali le masse si muovono come greggi addomesticate dal falso mito dell’egualitarismo ha come proprio contraltare l’esaltazione dell’individuo al di sopra delle norme, del superuomo che tiene in odio tutto quello che ha a che fare con la tradizione illuministica, il socialismo, le classi subalterne e la lotta politica per l’eguaglianza. L’universalismo dei diritti, ai suoi occhi, è solo la fastidiosa manifestazione di una ragione livellatrice e calcolante. Forse, come spiegava Adorno ai suoi studenti, non c’è granché di cui compiacersi nella crisi della metafisica, se oggi, dopo aver visto la tecnica all’opera nelle “procedure” di genocidio ad Auschwitz, non siamo più in grado di attribuire un senso al mondo5. A differenza di Heidegger, Adorno non cerca una via d’uscita dalla filosofia, verso una meditazione che si ponga in accesso immediato con l’Essere, in un punto di vista dell’essere sull’essere, per così dire. Stigmatizza, anzi, quelli che «si salvano nella teologia» davanti alla disperazione di non disporre più di un progetto cosmico in grado di spiegare ciò che accade nel mondo. Essi finiscono per fare di Dio «un abisso» a tinte fosche, un fondamento negativo, insondabile, qualcosa di tremendo. Demonizzano l’Assoluto e, così facendo, trasformano le teorie teologiche «nel loro contrario, cioè in una fosca mitologia o demonologia»6. Ma egli stigmatizza anche coloro che assolutizzano la crisi della metafisica, che pensano a un «nuovo inizio» e monopolizzano per sé «il concetto di distruzione». «E qui penso di nuovo al Signor Heidegger […] si sentiva come il vero distruttore, cioè il distruttore positivo che con la demolizione di tutto ciò che era prodotto di scarto della cultura, di ciò che era pensiero alienato e deificato, avrebbe portato nell’autenticità delle cose, alla ragione così amata. Ma in seguito si è poi mostrato – e questo è irrevocabile, direi – che questo tentativo di demolizione della cultura, questa forma di distruzione nel senso della speranza di guadagnare un accesso immediato all’Assoluto, dopo che è scomparso tutto ciò che è semplicemente thesei – questo pensiero ha appunto portato, da parte sua, alla barbarie e al fascismo […] mentre la cultura è certo fallita, ed è fallita per sua propria colpa, che si ritorce contro se stessa, la barbarie diretta, che viene prodotta dal suo fallimento, è sempre la cosa peggiore»7.

Adorno non trova motivo di appagamento nella crisi, la sua non è una filosofia post-metafisica, semmai è solidale con la metafisica proprio nel momento della sua caduta. Il suo pensiero recupera la questione metafisica almeno nel senso di non gettare al macero l’esigenza di «commisurare la realtà semplicemente data a qualcosa che comunque la trascende, a un’essenza che sta oltre l’immediatezza». Perché proprio qui si apre «il varco dove può insinuarsi la riflessione critica, che mette appunto la realtà in contraddizione con un criterio di verità o di razionalità non schiacciato sull’immediatamente dato»8. In analogia al discorso di Adorno si potrebbe dire che l’unica alternativa all’impresa teorica che delinea, sarebbe il sentirsi appagati nell’immediatezza di un mondo così com’è, spersonalizzato, senza speranza di salvezza. Pensare d’essere condannati a vivere nel non-senso è una bestemmia non meno della fiducia ingenua nel senso del mondo dopo Auschwitz.

Adorno sa bene che «la trasformazione della metafisica che stiamo conoscendo è un cambiamento nel più profondo dell’Io e della sua cosiddetta sostanza; è la liquidazione di ciò che nella vecchia metafisica si è voluto designare attraverso una psicologia razionale» e una dottrina dell’anima. Sa che i «problemi più profondi» della metafisica sono legati alla «questione della liquidazione dell’Io o della spersonalizzazione», al fatto che al posto della formula brechtiana «un uomo è un uomo» ci appare oggi soltanto una vuota tautologia senza significato. Il materialismo critico al quale aderisce non gli fa sfuggire che la spersonalizzazione è qualcosa che avviene all’interno dei rapporti capitalistici di produzione, come se la liquidazione dell’io ad opera della società fosse lo scotto da pagare per le proprie colpe, per «ciò che un tempo ha commesso con la sua auto-posizione». In altre parole, quel che la metafisica ha da sempre tentato di dimostrare – vale a dire l’identità dell’individuo empirico con l’essenza umana universale, dell’uomo singolare con la propria anima – si è per paradosso realizzato proprio nella società capitalistica, fondata, dice Adorno, sul principio dell’autoconservazione, sulla lotta di tutti contro tutti per il soddisfacimento dei bisogni materiali. Che cosa dimostra l’esperienza quotidiana? «L’assoluta fungibilità e sostituibilità di ogni singolo uomo, anche nella condizione di libertà formale che oggi, nell’attuale organizzazione del lavoro, è stata raggiunta», cioè «il fatto che ogni uomo sia sostituibile con ogni altro uomo e in fondo perciò sostituibile senz’altro; la sensazione perciò della superfluità e, se volete, della nullità di ognuno di noi per il tutto»9. E per tragica ironia della storia il culmine della nullità dell’esistenza umana raggiunto ad Auschwitz – lo sterminio dell’umanità – ha realizzato un «satanico rovesciamento» del pensiero metafisico che voleva sublimare l’uomo fatto di carne e ossa nell’anima eterna e celeste. Quel che per i metafisici doveva essere l’affermazione assoluta dell’uomo, gli «sbirri delle SS» l’hanno rovesciata nella «negazione assoluta d’ogni vivente», nella formula aberrante formula «domani salirai in cielo come fumo da questo camino». Ma finché gli uomini vivranno «sotto il principio universale del profitto» saranno spinti dall’istinto dell’autoconservazione a non avere più altro da perdere che loro stessi e la propria vita. Dovranno riconoscere come senso della propria esistenza una vita che, per altro verso, sentono come svuotata, indifferente, priva di senso, ridotta mezzo e a lavoro per poter sopravvivere – con echi, qui, che ricordano il Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844. Risolvere la crisi della filosofia significa per Adorno uscire da questa «terribile», «spaventosa» antinomia: da una parte, la riduzione dell’individuo, dell’Io a una nullità, la sua liquidazione e, dall’altra, il suo essere-gettato-indietro appunto al fatto che «non ha altro sé che questo sé che già viviamo»10.

Da tutto questo si comprende come il post-umano possa caricarsi di allusioni diverse, talvolta molto distanti tra loro. Può evocare il rischio dell’estinzione della specie umana in un mondo spersonalizzato, non più antropomorfo, svuotato dall’ipertrofia della tecnica. Ma – ricordando le parole di Adorno – la disperazione per un mondo senza senso può portare anche a cattivi consigli, al rifiuto aristocratico della modernità, al disprezzo per l’uomo-massa e al culto dell’eroe che spicca dal gregge. E, infine, post-umano può essere un sostituto simbolico del nome che ancora manca per definire l’uomo del futuro. L’unico nome che venga in soccorso per indicare in una parola la transizione a un tipo umano più libero ed emancipato in questi tempi di dissoluzione e scomposizione del vecchio11.


Foucault, l’io è un errore epistemologico

In quest’ultimo caso il post-umano contiene una promessa o una speranza di un mondo non tanto spersonalizzato, quanto liberato dall’antropocentrismo, dal dominio soggetto-centrico del genere umano. Anche per l’uomo si schiuderebbe la possibilità di vivere diversamente la sua stessa umanità. La fine del soggetto inteso come sostanza, come identità stabile, l’avvento di una soggettività libera, fluttuante e disseminata coinciderebbe con la liberazione della politica dalla volontà di dominio e dalla presunzione soggettivistica del passato.

Il tema di un trapasso oltre l’umano, oltre l’umanesimo antropocentrico è, del resto, un’idea che circola nella filosofia novecentesca già a partire dagli anni Sessanta, quando lo strutturalismo – anche nei suoi sviluppi successivi – invoca una “filosofia senza soggetto”. L’obiettivo è sempre quello di superare l’antropocentrismo, ma senza toni apocalittici e disperanti, senza evocare lo spettro annichilente di una tecnica ipertrofica che da mezzo diventa scopo assoluto dell’esistenza. Non è l’incubo della distruzione del mondo a costituire l’unico esito immaginabile, l’unica maniera di mettere fine al dominio scriteriato dell’uomo sulla natura. Gli strutturalisti provano a farlo con una riflessione filosofica più ampia, mettono in discussione le strutture teoriche della metafisica tradizionale e dell’epistemologia nel sapere moderno. La rivoluzione dello strutturalismo, ad esempio, riuscì a penetrare in tutte le discipline con una vocazione “enciclopedica” – dall’antropologia alla critica letteraria, dalla semiologia alla psicoanalisi – proprio grazie alla fecondità del concetto di struttura che implicava la riduzione del ruolo dell’uomo. L’idea di struttura, che nasce in origine in ambito matematico12, sovverte il modo di pensare epistemologico secondo cui la conoscenza e la realtà sarebbero qualcosa di “derivato”, cioè risultato di una serie di atti isolati di cui il soggetto sarebbe sempre e soltanto l’Io. Nel caso degli strutturalisti è un diverso modo di fare scienza e di pensare il mondo che mette ai margini della scena l’uomo fino ad allora protagonista assoluto. Da Althusser a Foucault, da Lévi-Strauss a Lacan fino agli intellettuali post-strutturalisti si fa strada una filosofia antiumanistica caratterizzata, tra diversi accenti e ambiti oggettuali, dall’idea di totalità e dalla rivolta contro il soggetto o, meglio, contro la categoria di individualità. Non è, insomma, la suggestione di un apparato tecnologico futuristico che progressivamente si installa al governo del mondo al posto dell’uomo, ma un’esigenza epistemologica, filosofica, teorica – e, si vedrà, politica – a spingere la schiera degli strutturalisti sulla strada della rivolta contro l’umanesimo. Qui non è la tecnica a impersonare il nuovo «golem»13, il soggetto impersonale e astratto, artificiale e innaturale, mosso da una logica autonoma e irrimediabilmente destinato a distruggere la natura, l’ambiente, il pianeta – fino ad annullare le condizioni materiali di riproduzione dello stesso genere umano. Per i pensatori post-strutturalisti – che pure si dispongono in un registro di sviluppo critico o dissolutivo dello strutturalismo – la rivolta contro l’umanesimo si pone nei termini di un programma filosofico, di un progetto politico, di una speranza di emancipazione e liberazione anziché nella laconica presa d’atto dello sviluppo ipertrofico della téchne nel mondo che non lascia altra prospettiva all’infuori di una catastrofe planetaria e dell’estinzione del genere umano, senza alcuna possibilità salvifica e di redenzione.

In un certo senso il concetto di struttura diventa nelle mani dello strutturalismo una sorta di grimaldello teorico per scardinare e sovvertire la filosofia, nella misura in cui questa si presenta come la filosofia ereditata dalla tradizione, appesantita da tutte le forme del soggettivismo umanistico, curvata dai residui di spiritualismo e psicologismo, solcata da venature esistenzialistiche e fenomenologiche. In quello che scriveva Piaget nel saggio Lo strutturalismo del 1968, la struttura è simile al concetto hegeliano, una totalità, un insieme di relazioni, una forma in continuo sviluppo dotata di un proprio principio propulsivo senza bisogno dell’intervento di una forza esterna, meno che mai del soggetto14. Rispetto all’intero dotato di ordine e vita propria l’individualità non è altro che una delle forze e delle “energie” – per usare un termine caro ai post-strutturalisti – che danno movimento e fisionomia alla struttura.

Quale sia il radicalismo epistemologico e la curvatura politica dell’antiumanismo appare per esempio nel percorso di Foucault fin dalla sua prima opera importante, Folie et déraison: histoire de la folie à l’âge classique, pubblicata nel 1961, sotto forma di uno smascheramento dell’umanesimo e dei suoi buoni propositi. Se l’intero progetto della scienza moderna poggia sull’impresa di spiegare e costruire un mondo a misura d’uomo, l’archeologia foucaultiana mostra invece con il suo scavo nei presupposti culturali il capovolgimento della ragione scientifica negli effetti più nefasti e regressivi. Dal punto di vista della storia della follia il volto rassicurante dell’umanesimo che vuole addomesticare il mondo perché l’uomo si senta a proprio agio, si rivela per quello che è nel volto terribile e distruttivo della ragione borghese che crea e segrega la follia nell’istituzione psichiatrica. Foucault ricostruisce la “storia del presente”, ma il suo programma ha un obiettivo: fare a meno della ragione universale, del soggetto trascendentale vale a dire di una metafisica idealistica destinata a produrre una visione del mondo troppo antropomorfica e, per ciò stesso, al fallimento. Ai suoi occhi, come a quelli degli altri strutturalisti, il modello cartesiano è il vizio d’origine della razionalità moderna. Il fatto che il soggetto prenda se stesso come oggetto di conoscenza e punto di partenza di un sapere certo significa cadere nel primato di una coscienza auto-trasparente ed eludere, invece, la ricerca delle determinazioni inconsce del pensiero. E’ una sorta di narcisismo trascendentale che spinge il soggetto a contemplare se stesso e appagarsi di «questa casalinga, umanizzata visione della realtà»15 di cui è imbevuta la filosofia europea. Ma come è potuto accadere, si chiede Foucault, che l’uomo potesse considerare se stesso oggetto di una possibile conoscenza? E a quale prezzo? Qual è l’«episteme», si chiederà ancora ne Le parole e le cose, la forma di pensiero inconscia, l’apriori depositato a un livello profondo della vita collettiva che ha reso possibile l’umanesimo? È in quest’opera pubblicata nel ’66 che Foucault dà seguito al programma filosofico della sua “archeologia” del sapere, un lungo viaggio di erudizione nella cultura europea, dal Rinascimento all’epoca moderna fino alla soglia del ‘900. Arte, letteratura, filosofia, scienze naturali, economia, linguistica, tutto diventa terreno di caccia per scavare e portare alla luce le epistemi, quelle griglie concettuali che in maniera inconscia e anonima, cioè indipendentemente dal fatto che gli individui possano avvertirle, determinano le forme di sapere di ciascuna epoca. Così se la «somiglianza» è il tratto chiave dell’episteme rinascimentale e la «rappresentazione» quello della episteme classica (da Cartesio alla fine del XVIII secolo), la caratteristica più significativa dell’episteme moderna è, invece, la «nascita dell’uomo». Il soggetto che all’epoca della rappresentazione restava fuori dalla scena – come nel famoso quadro emblematico Las Meninas di Velázquez dove il re compare solo allo specchio come una sorta di fuori-rappresentazione – diventa, da De Sade e Kant in poi, oggetto di conoscenza, in un caso nella versione empirica di desideri e pulsioni che esplodono sulla scena, nell’altro come proiezione dell’individuo empirico nel soggetto trascendentale. Alla nascita dell’uomo fa da contrappunto un sapere che si dirige al di là della superficie visibile delle cose per cogliere l’organizzazione profonda dei fenomeni.

Dove prima, come nell’episteme classica della «rappresentazione», dominavano la tassonomia e la mathesis, la classificazione e l’ordine, ora prevalgono il bisogno di storicizzare e umanizzare. Nella vita, nel lavoro e nel linguaggio le nuove discipline emergenti – biologia, economia, filosofia – vanno alla ricerca di forze oscure e profonde che turbano la regolarità del vecchio mondo. La biologia, con Georges Cuvier, prende il posto della storia naturale e della tassonomia; lo studio della produzione e del lavoro nella teoria economica di Ricardo soppianta l’analisi degli scambi e della moneta; il linguaggio, infine, con Franz Bopp, cessa di essere lo specchio trasparente del pensiero e diventa un sistema autonomo in continua evoluzione. Le nuove discipline, per l’esattezza, sorgono non al posto di quelle precedenti, ma nei punti in cui queste non esistevano affatto, nello spazio lasciato in bianco.

Ma al di sotto di questa visione energetica e storica dei livelli profondi della realtà – si tratti di vita o lavoro o linguaggio – fa la sua comparsa l’uomo. Solo quando emergono biologia, economia e filologia, solo quando si spezza l’unità fusione tra parole e cose tipica delle epistemologie delle epoche precedenti, solo allora i tempi sono maturi per l’invenzione dell’uomo. «Un’invenzione recente», precisa Foucault, che ha per effetto quello di scindere l’uomo, contemporaneamente, in soggetto di conoscenza e oggetto di conoscenza delle moderne discipline. L’uomo è sì riconosciuto nelle scienze umane come individuo fattuale e contingente, ma al tempo stesso è anche soggetto trascendentale, «un essere tale che in esso verrà acquisita la conoscenza di ciò che rende possibile ogni conoscenza»16. Lo stesso raddoppiamento nell’io empirico e nell’io trascendentale è all’origine della duplicazione del sapere che dalla superficie visibile dei fenomeni risale al livello profondo e strutturale – la stessa duplicazione che compie Kant nel passaggio dai giudizi delle scienze empirici alle forme a priori dell’intelletto. Le scienze moderne nascono nel registro dell’uomo-doppione, «allotropo empirico-trascendentale», dirà Foucault. Ma dire che l’uomo è un’invenzione epistemologica significa ammettere anche la possibilità che scompaia in una prossima rivoluzione epistemica, in un prossimo sovvertimento dei saperi. Foucault, com’è noto, non si limita a evocarne l’eventualità, ma profetizza per l’uomo addirittura un destino di morte, naturalmente non nel senso di un’estinzione della specie umana, bensì di una scomparsa dell’uomo come spazio di conoscenza.

«L’uomo è un’invenzione di cui l’archeologo del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima. Se tali disposizioni [epistemiche] dovessero sparire come sono apparse, se, a seguito di qualche evento di cui possiamo tutt’al più presentire la possibilità ma di cui non conosciamo per ora né la forma né la promessa, precipitassero, come al volgersi del XVIII secolo accadde per il suolo del pensiero classico, possiamo senz’altro scommettere che l’uomo sarebbe cancellato, come sull’orlo del mare un volto di sabbia»17. Perché?

L’uomo non può durare, è un’invenzione sospesa a un filo. Il paradosso che lo mantiene in vita, ma ne decreta al tempo stesso il destino, è che l’uomo inizia a rappresentarsi come “soggetto” del mondo nel preciso istante in cui si scopre nelle scienze moderne oggetto e destinatario di processi e totalità che lo sovrastano e lo determinano, appunto, come “oggetto”: oggetto di processi biologici, oggetto di formazioni storiche sociali ed economiche, oggetto di strutture linguistiche. Ad ogni livello dell’esperienza l’uomo è messo sotto scacco da istanze totalizzanti che in tanto determinano e sono all’origine della sua soggettività – la vita, il lavoro, il linguaggio – in quanto sfuggono tuttavia alla sua volontà cosciente e alle sue scelte consapevoli. Strutture come l’inconscio, la cultura, il linguaggio sono per il soggetto l’Altro impensabile. La rivoluzione dello strutturalismo porta a maturazione il fallimento della pretesa soggettivistica, unilaterale, antropomorfica dell’uomo d’essere fondamento e centro del mondo, tanto più evidente – agli occhi di Foucault – in quelle che definisce le controscienze umane: nell’etnologia, nella psicoanalisi e nella linguistica è ormai evidente che l’uomo è un essere finito e fondato.

«Dal momento in cui ci si è accorti che ogni conoscenza umana, ogni esistenza umana, ogni vita umana, e forse persino ogni ereditarietà biologica dell’uomo, è presa all’interno di strutture, cioè all’interno di un insieme formale di elementi obbedienti a relazioni che sono descrivibili da chiunque, l’uomo cessa, per così dire, di essere il soggetto di se stesso, di essere in pari tempo soggetto e oggetto. Si scopre che quel che rende l’uomo possibile è in fondo un insieme di strutture, strutture che egli, certo, può pensare, può descrivere, ma di cui non è il soggetto, la coscienza sovrana»18. Foucault non potrebbe essere più chiaro. Ma dove la condizione di finitezza dell’uomo e l’impossibilità a essere sovrano della sua stessa esistenza è più evidente, è nelle vesti di “soggetto parlante”. Espressione quest’ultima che, se presa alla lettera, rischia d’essere fuorviante e illusoria nella misura in cui il soggetto non è “parlante” ma “parlato” dal linguaggio. Foucault tiene conto non solo della linguistica strutturale, non solo della domanda lacaniana “chi parla?” e dell’istanza del Grande Altro, ma anche delle suggestioni poetiche del “secondo” Heidegger19. Lo strutturalismo scorge nel linguaggio l’esito estremo e «annuncia che l’uomo è finito, che raggiungendo la cima di ogni parola possibile egli non perviene al cuore di se stesso, ma all’orlo di ciò che lo limita»20. Il paradosso è compiuto, le scienze umane – a dispetto del proprio nome – non portano affatto alla scoperta di ciò che sarebbe l’“umano”, ma hanno piuttosto a che fare con sistemi, strutture, combinazioni, forme. Coerentemente con questi presupposti Foucault lancerà la provocazione dell’inutilità, anzi della dannosità dell’umanesimo nella politica. Cercare l’uomo sarebbe non soltanto una chimera, ma un pericolo. Potrebbe ripetersi il dramma – così frequente nella storia – che proprio in nome del bene dell’uomo e della felicità umana vengano legittimati i peggiori modelli di società, le scelte politiche più diverse e più dannose. «Credo che l’umanismo, almeno sul piano politico, potrebbe essere definito come ogni atteggiamento che considera che il fine della politica è di produrre la felicità. Ora, credo che la nozione di felicità non sia veramente pensabile. La felicità non esiste, la felicità degli uomini ancor meno»21. Anche i tradizionali meccanismi di legittimazione della politica vengono scardinati dallo strutturalismo. Non è più nell’antropologia, in nome dell’uomo, che le diverse scelte politiche possono essere vagliate e adottate. Non si tratta, ancora una volta, di mettere in risalto che l’uomo è un’invenzione epistemologica, una chimera ideologica: bisogna aggiungere che è un’idea dannosa, un’operazione – a sua volta – politica di dominio, funzionale cioè a un progetto politico di controllo sull’intera società da parte del potere. Come mai l’uomo diventa oggetto di conoscenza e a quale prezzo? La nascita dell’oggetto “uomo” nel campo epistemologico e teorico è anche una pratica sociale. Un oggetto diventa tale perché c’è un sapere intorno ad esso. E insieme al sapere deve esserci anche una pratica, una disciplina, in questo caso la politica. Perché qualcosa emerga come un oggetto è necessario un sapere che lo faccia risaltare e lo costituisca: solo allora l’oggetto di conoscenza – il suddito, il cittadino, il lavoratore, il malato, il pazzo – può diventare oggetto di una terapia, di una disciplina, di governo, di controllo e così via. L’operazione da smascherare, secondo Foucault, è che ci sia prima un fine della politica – la felicità dell’uomo – e poi la tecnica di governo, il controllo, il potere. Le cose stanno esattamente al contrario: proprio perché esiste la possibilità di controllo e di far funzionare la società, la politica – il potere – inventa un fine in nome del quale legittimare le proprie pratiche.


L’antiumanismo politico di Deleuze

Meno che mai l’io potrebbe significare una dimensione autentica e sostanziale per un antiumanista radicale come Deleuze che, attraverso una lettura originale di Nietzsche, costruisce una visione energetica della realtà equivalente a un conflitto permanente di forze irriducibili. Anche il soggetto della tradizione filosofica viene spazzato via dalle pulsazioni energetiche di questo mondo fluido. L’io non può che apparire come un’istanza autoritaria, d’ordine per una filosofia come quella di Deleuze che prende le parti della «vita» e della sua affermazione in tutti i suoi aspetti plurali e molteplici. La bestia nera è quel soggetto idealistico che appare troppo carico di residui spiritualistici, troppo sbilanciato sul lato dell’identità e della negazione a discapito del molteplice e dell’affermazione della vita. Non dell’io, non della coscienza, non dell’uomo parla Deleuze, bensì di «corpi sociali». «Poiché ogni forza ha un rapporto di dominio o di obbedienza con altre forze, un corpo verrà a definirsi in base al rapporto tra forze dominanti e forze dominate. Affinché si costituisca un corpo – chimico, biologico, sociale, politico – è sufficiente che due forze qualsiasi, diverse l’una dall’altra, entrino in rapporto tra di loro. Un corpo è perciò sempre frutto del caso, nel senso nietzscheano del termine; è la cosa più “meravigliosa”, molto più della coscienza e dello spirito»22. In questo passo esplode lo sprezzo polemico di Deleuze nei confronti del soggetto cartesiano-idealistico, contro il quale fa scendere in campo un’ontologia materialistica della realtà, interpretata a sua volta come una mappa plurale di rapporti di forze immanenti. La nozione di corpo intacca il concetto di uomo dell’umanesimo tradizionale sotto due aspetti. Da un lato, il corpo è plurale, molteplice, conflittuale al proprio interno, un effetto di superficie di forze profonde – a differenza del soggetto cartesiano che è monolitico, identitario, risolto nell’autotrasparenza del cogito. E’ irriducibile nella sua differenza rispetto a ciò che lo circonda tanto da non poter essere, in alcun modo, risolto come un momento interno alla logica di un processo necessario. E’ la casualità degli incontri tra le forze a costituirlo. Il corpo è la manifestazione di un livello profondo della realtà, traboccante di energie che spingono alla produzione e all’affermazione di sé. Di nuovo, qui, Deleuze marca la distanza del corpo dalla coscienza spiritualista che si stabilisce, all’opposto, per via di negazioni: negazione del corporeo, negazione della materia, negazione dell’affettività a favore di una ragione ascetica e astratta.

Dall’altro lato, il corpo deleuziano è instabile, risultato di configurazioni e rapporti di forze sempre in evoluzione e, perciò, aperto a esiti imprevedibili. E’ la manifestazione di eventi, di una storia, nulla a che vedere con la concezione di una natura umana universale, astorica, immutabile della vecchia antropologia umanistica. Non a caso la teoria nietzscheana del corpo risulta in sintonia con le idee di Deleuze sull’engagement politico, con le spinte libertarie delle avanguardie filosofiche e artistiche, con le esperienze di autogestione dei movimenti. Questo Nietzsche insolito, recuperato a una lettura di “sinistra”, è quanto di più irriducibile si possa trovare contro l’irreggimentazione, il dirigismo burocratico, lo statalismo. I corpi sono «un processo continuo di composizione e decomposizione attraverso gli incontri sociali su un campo di forze immanenti»23, ed è su questa pluralità che Deleuze individua una risposta filosofica ai problemi politici del suo tempo, soprattutto alla crisi dei modelli organizzativi del movimento operaio e marxista.

Vale la pena insistere ancora sul fatto che il corpo è un affermazione di vitalismo che non si lascia inquadrare né in una sintesi né in un sistema calato dall’alto. È il tratto che rende la filosofia nietzscheana «un’antidialettica assoluta» e che Deleuze ritiene centrale per costruire una lettura materialistica della realtà. Se la dialettica è sintesi, negazione della negazione, la vita è, al contrario, affermazione di entrambi gli opposti. L’eroe nietzscheano è Dioniso, colui che dice sì con gioia e leggerezza a qualsiasi manifestazione della vita e che accetta il gioco plurale delle differenze senza la tentazione di negarle in nome di un presunto valore superiore. «Affermare non è farsi carico, assumere ciò che è, ma liberare, togliere peso a ciò che vive. Affermare è alleggerire: non far carico alla vita del peso dei valori superiori, ma creare nuovi valori di vita che la trasformino in leggerezza e attività»24. Niente più separazione tra filosofia e vita, dunque. Qui si colpiscono il pensiero ascetico e i valori sublimi che hanno l’effetto di spogliare e degradare il mondo. Più d’ogni altra cosa Deleuze teme l’uomo «reattivo» che armato di una metafisica meschina e di risentimento contro la vita finisce prigioniero di piccole soddisfazioni quotidiane, unica fonte di consolazione in un mondo desertificato dal nichilismo. Non è azzardato sospettare che sia proprio una sorta di disprezzo aristocratico nei confronti di quest’umanità ordinaria a spingere, in fondo, verso un superamento dell’uomo, verso un nuovo modo di pensare e di vivere, verso una prospettiva fuori dell’uomo, verso – infine – lo Übermensch nietzscheano. Deleuze sogna un universo de-soggettivizzato di forze impersonali e immanenti dove è abolita l’interiorità del borghese, lo psicologismo, la mentalità dell’uomo ordinario che lo spaventa così tanto. Qui, soltanto a questo punto, la vita sarà vissuta momento per momento in tutte le sue manifestazioni e possibilità. E con leggerezza. Perché questo sogno si avveri dovrà essere abolito l’uomo reattivo, proprio l’uomo che, per dirla con Nietzsche, ha ucciso Dio nella pretesa di sostituirlo e ha negato tutti i valori nella sua foga nichilista, per rinchiudersi, infine, in se stesso, solo in un mondo deserto. L’uomo che ha ucciso Dio è un uomo reattivo – qui Deleuze pensa con l’aiuto di Nietzsche – e perciò non può sopravvivere, è destinato a scomparire storicamente. Perché?

La risposta sta nella sua visione materialistica del mondo: l’essere è ripetizione delle differenze, le forze si incontrano e producono i corpi. Ma non tutto è caso. Se è sufficiente che due forze qualsiasi si incontrino casualmente perché un corpo si costituisca, tuttavia deve esserci qualcos’altro, un principio, che decida in ultima istanza della quantità e della qualità delle forze che si contrastano. Non è un mondo caotico quello che il filosofo ha da interpretare, ma un mondo dotato di una struttura organizzata. Nelle forze si manifesta un principio plastico che le condiziona dall’interno, un principio immanente e “irrazionale”, nel senso che non ha nulla a che fare con facoltà soggettive o con la psicologia. È la «volontà di potenza» che determina «sia la differenza di quantità di forze che siano tra loro in rapporto, sia la qualità che, in questo rapporto, è propria a ciascuna forza»25. E’ la volontà che decide la quantità delle forze – se «dominanti» o «dominate» – e la loro qualità, cioè «attive» o «reattive». E da tutto questo dipende se la volontà è «affermativa» o «negativa». Affermazione e negazione costituiscono «la catena del divenire e insieme la trama delle forze: l’affermazione ci fa entrare nel mondo glorioso di Dioniso, l’essere del divenire; la negazione ci precipita nel fondo inquietante da cui scaturiscono le forze reattive»26. E’ un passaggio importante perché solo a questo punto si guadagna un punto di vista etico in uno scenario di forze e volontà impersonali. In queste pagine dense di Nietzsche e la filosofia Deleuze monta la trappola nella quale dovrà cadere l’uomo «reattivo», l’uomo della modernità – certo non riprende le immagini più crude e più compromesse del pensiero nietzscheano con le successive interpretazioni naziste, quelle in cui Nietzsche esalta la «magnifica bestia bionda che vaga bramosa di preda e di vittoria», non riprende la definizione della vita come «appropriazione, offesa, sopraffazione di tutto quanto è estraneo e più debole, oppressione, durezza, imposizione di forme proprie». E, ancora, non c’è traccia, in Deleuze, del Nietzsche che considera l’uguaglianza, la pace, il rispetto dell’altro segni di «una volontà di negazione della vita, un principio di dissoluzione e di decadenza». Né, infine, si fa cenno al sarcasmo razzista riservato alla «dottrina del socialismo»: «devono essere razze o uomini falliti, che escogitano tali teorie». No, Deleuze sceglie un Nietzsche più digeribile alla sinistra della contestazione radicale, ma tuttavia, nella furia di sbarazzarsi dell’uomo moderno, lo stesso Deleuze non è immune da un certo disprezzo aristocratico per l’individuo prodotto dall’umanesimo, ai suoi occhi troppo mediocre.

Ecco, quindi, che entrano in scena termini per indicare, da un lato, la forza attiva e la volontà affermativa come «nobile», «alto», «padrone» e, dall’altro, la forza reattiva e la volontà negativa, etichettate con «basso», «vile» e «servo». Per il Nietzsche di Deleuze «solo la forza attiva afferma se stessa, afferma la propria differenza, ne fa oggetto di godimento e di affermazione, mentre la forza reattiva, anche quando obbedisce, è già posseduta dallo spirito del negativo e limita la forza attiva ponendole dei vincoli e delle restrizioni parziali»27. Il primo è il momento della creazione, della vita che si espande fino all’estremo delle proprie possibilità. Nel secondo caso, la forza è reattiva perché non potendo arrivare al limite delle sue potenzialità, essendo cioè separata da ciò che è in suo potere, non può far altro che rivolgersi contro la forza attiva e scomporla, impedirle di realizzarsi. Se le forze reattive si spingessero così in alto da sottrarre potere alle forze attive, ciò significherebbe che gli schiavi avrebbero sostituito i padroni. Ma proprio questa sarebbe, in fondo, la prospettiva insopportabile, lo scenario disgustoso, l’insostenibile insopprimibilità del carattere umano28. E per un attimo soltanto lo stesso Deleuze sembra prendere in considerazione l’eventualità che tutti i tratti dell’uomo «piccolo, meschino, reattivo» siano per davvero costitutivi della natura umana, che «il risentimento, la cattiva coscienza, il nichilismo non sono tratti psicologici ma costituiscono piuttosto il fondamento dell’umanità nell’uomo, il principio dell’essere in quanto tale». E se fosse proprio così? «E’, questo, il senso del “grande disprezzo” e del “grande disgusto” di Zarathustra per gli uomini». E se il superuomo fosse coerente dovrebbe, in fondo, «glorificare pure loro»29, i pecoroni, il gregge, anche qualora dovessero prevalere, perché anche loro sarebbero manifestazione di volontà, istinto di affermazione. Non resta altro, per scongiurare lo scandalo dell’uomo, che sognare la sua scomparsa, la sua abolizione nel superuomo – che in fondo è l’estremo tentativo di sublimazione dell’uomo dopo la morte di Dio30. Per rimediare all’empasse Deleuze sostiene che «l’eterno ritorno è selettivo, che torna solo ciò che ha la forza di tornare, e che c’è una buona volontà di potenza “affermativa”, diversa dal risentimento e dall’istinto del gregge». Ma la contraddizione rimane: se dovrà abolire l’uomo meschino non sarà anche il superuomo una forma celata di “reazione”? Anche il superuomo, nel momento stesso in cui promette di realizzare il sogno di emendare il mondo della presenza dell’uomo meschino, riprodurrà il comportamento che per definizione appartiene a quest’ultimo, la reazione appunto. Tutto il contrario di quella forza d’affermazione, di quella capacità di trasformare la vita in gioia, leggerezza e attività creatrice.

Non va dimenticata, però, l’altra istanza del discorso di Deleuze che accompagna la sua avversione per l’antropocentrismo: la preoccupazione per la prassi e la trasformazione che, almeno ai suoi occhi, non può partire davvero se prima non si realizza una forza creatrice plurale, immanente alla realtà e all’essere, dispersa nelle differenze e nelle pieghe del mondo, tutt’altro che monolitica e quindi sfuggente a qualsiasi tentativo di intrappolarla nella categoria dell’io. La soggettività forte della modernità sarebbe, piuttosto, un impedimento sulla via della politica gioiosa e creatrice che deve oramai ambientarsi in una realtà dove le identità differiscono continuamente – in fondo, questo è il senso della ripresa dell’eterno ritorno nietzscheano, una continua produzione di differenze. L’uomo, giocoforza, deve fare i conti con questa trasformazione, in un mondo – «quello della volontà di potenza, in cui tutte le identità precedenti sono abolite e dissolte» – nel quale non può pretendere di conservare la propria (identità) e la sovranità che su questa era fondata.

La singolarità deve essere fluida se vuole sfuggire alle definizioni e alle trappole del potere, deve dare prove di “nomadismo”, per usare una fortunata – e forse abusata – espressione deleuziana. Qualcosa del genere si ritrova anche in Spinoza, un altro pensatore che non a caso ha suscitato una lettura “politica” nella filosofia francese, ripreso dallo stesso Deleuze31 e, in anni più recenti, da Etienne Balibar. Anche Spinoza fornisce una teoria che spiega l’individuo oltre l’individuo, anche se muove da un altro interesse, dalla ricerca di quali meccanismi siano più efficaci nel neutralizzare la fluctuatio animi, il conflitto psichico nella moltitudine tra egoismo e relazionalità perché lo Stato non abbia a temerne per la propria conservazione. Gli preme – nell’interpretazione che ne dà Balibar – comprendere le passioni collettive, l’immaginario e i legami affettivi delle masse, l’oscillazione dei sentimenti tra pulsioni disgregatrici, da un lato, e istanze gioiose e affermative dei legami sociali, dall’altro32. Scopriamo che la costituzione dell’individualità e quella della moltitudine nell’immaginario sono un solo e identico problema, un solo e identico processo. Le passioni fondamentali, la gioia e la tristezza, l’amore e l’odio, «non sono una modalità del rapporto tra “me” e “l’altro” [tra persone o tra coscienze]. Sono rapporti trasversali (per non dire trasferenziali) che passano da un oggetto all’altro, al di qua e al di là dell’individualità corporea. Non sono il prodotto di una coscienza, ma producono l’effetto di coscienza, ossia la conoscenza inadeguata della nostra molteplicità corporea, inscindibile dal desiderio stesso, dunque dalla gioia e dalla tristezza, dalla paura e dalla speranza, ecc.»33. Quello che intendiamo abitualmente per coscienza è quindi solo un’illusione di prospettiva, un effetto di superficie, ma le passioni che lo muovono sono in realtà «immagini», «affezioni» reciproche tra i corpi. Anche per Spinoza c’è un livello di consistenza più profondo al di sotto dell’individuo isolato, «considerato astrattamente come esemplare del genere umano». Ogni individualità è il sovrapporsi – meglio, la combinazione – tra due processi: l’uno riguarda le «forme di individualità inferiori» che si compongono in essa senza dissolversi, l’altro le «forme di individualità superiori» nelle quale essa può entrare. «In realtà, senza che scompaia l’idea di individualità (ossia di stabilità di un composto), senza la quale non vi sarebbe desiderio né forza (conatus), è il processo stesso, la rete affettiva che attraversa ogni individuo, passando e ripassando attraverso le sue “parti” e attraverso le loro idee o immagini, che diviene ben presto il vero oggetto (o il vero soggetto). Ogni uomo, ogni individuo, come tale singolare, è sempre a un tempo simile e dissimile a se stesso e agli altri, e il suo isolamento soggettivo è solo una finzione»34.

È lo stesso concetto filosofico sul quale scommette Deleuze, anche se la sua “scoperta” è avvenuta nelle letture nietzscheane: l’individuo è un effetto di superficie di rapporti più profondi. Lo spiegherà ancora in un’intervista realizzata pochi anni dopo la pubblicazione di Nietzsche e la filosofia: «Mi sembra che ciò che oggi si sta per scoprire è un mondo che pullula di individuazioni impersonali, o anche di singolarità preindividuali (è il “né Dio, né uomo” di cui parla Nietzsche, è l’anarchia incoronata). I nuovi romanzieri non parlano d’altro: fanno parlare queste individuazioni non personali, queste singolarità non individuali. Ma la cosa più importante è che tutto ciò risponde a qualcosa del mondo attuale. L’individuazione non è più racchiusa in una parola, la singolarità non è più racchiusa in un individuo. È molto importante, anche politicamente; il loro elemento è la lotta rivoluzionaria, è la lotta di liberazione… e nelle nostre società ricche, per quanto le forme di non integrazione siano diverse, per quanto le forme di rifiuto da parte dei giovani siano differenti, sono forse anch’esse di questo tipo. Lei capisce che le forze repressive hanno sempre bisogno di fare affidamento su un “io”, di esercitarsi su individui determinati. Quando diventiamo un poco fluidi, quando riusciamo a non farci assegnare un “io”, quando non ci sono più uomini su cui Dio possa esercitare il suo rigore o da cui possa farsi sostituire, allora la polizia perde la testa»35. La politica e la filosofia – se quest’ultima vuole essere creazione di nuovi modi di pensare e di vivere – devono fare i conti con il cambiamento del soggetto. Morte dell’uomo e superuomo continueranno a essere presenti nel suo pensiero – non tanto di ripensamenti ma di continuità si dovrebbe parlare. Deleuze ci ritornerà ancora molti anni dopo, per anticipare questa volta una dissoluzione dell’umano non più ad opera di una provvidenziale volontà di potenza ma delle nuove tecnologie. «Che l’uomo sia una figura di sabbia tra una bassa e alta marea – il riferimento è al Foucault di Le parole e le cose – è un fatto che deve essere inteso letteralmente: si tratta di una composizione [di rapporti di forza] che appare solo tra altre due, quella di un passato classico che l’ignorava e quella di un futuro che non la conoscerà più. Non è il caso né di compiacersi né di lamentarsi. Non è forse un’opinione comune che le forze dell’uomo sono già entrate in rapporto con altre forze, quelle dell’informazione che vengono a comporre qualcosa di diverso dall’uomo, dei sistemi indivisibili “uomo-macchina”, e cioè sono entrate in rapporto con le macchine della terza generazione? Un’unione con il silicio più che con il carbonio?»36. L’umanità è una specie in via d’estinzione. Queste riflessioni datate a due decenni fa prefiguravano già lo scenario della società telematica o postumana che, oggi, ogni giorno di più, sembra rendere possibile la creazione di vita intelligente non biologica37. Un incubo o un sogno? Forse proprio l’impossibilità di un giudizio morale, di potersi compiacere o lamentare è il dramma. L’uomo non esiste da sempre e non esisterà sempre. Ma dopo di lui non è detto che verrà il paradiso.






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webmaster: andrea bonavoglia 2006

NOTE AL TESTO CON RIMANDO AUTOMATICO

1  M. Scheler, Uomo e storia, in Lo spirito del capitalismo e altri saggi (Guida, Napoli 1988, p. 257).

2  Di questo filone di pensiero si fa interprete nello scenario filosofico italiano attuale Umberto Galimberti, soprattutto nell’opera monumentale Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica (Feltrinelli, 1999, pp.816, qui p. 484), prosecutore a propria volta della scuola di Emanuele Severino. La tecnica come esito paradossale del concetto greco di divenire permeato di violenza e dominio costituisce il filo conduttore della riflessione della riflessione severiniana della quale vale la pena ricordare Il destino della tecnica (Rizzoli, 1998). Ma i riferimenti esterni alla scena italiana sono tanti e attraversano l’intera filosofia novecentesca da Karl Jaspers a Arnold Gehlen e Günther Anders.

3  Cfr. Alain Renaut, L’individuo. Riflessioni sulla filosofia del soggetto (Ipermedium libri, trad. it. di Guido Vitello, 2003, pp. 108). «Questo potere di scelta, costitutivo della libertà dei Moderni, ha senso solo sullo sfondo di un contingenza assoluta dell’avvenire, di un’indeterminazione, se non addirittura di un disordine del mondo, che la cosmologia greca – di cui l’opera di Aristotele costituisce una delle tematizzazioni filosofiche più compiute – non si è mai stancata di negare». E, ancora, «almeno rispetto al suo principio, la libertà greca, lungi dall’essere concepita sul modello dell’autodeterminazione (auto-nomia), s’inscrive nel registro dell’hetero-nomia (dov’è l’esteriorità che detta legge)» (ivi, p.35).

4  Non è solo dall’universalizzazione della tecnica a sistema-mondo che l’umanesimo si vede oggi minacciato. Anche la cultura di massa e l’edonismo consumista è visto come potenziale pericolo per la centralità assegnata all’individuo dalla tradizione filosofica moderna. È la tesi di Alain Finkielkraut in un saggio ormai dell’89, La sconfitta del pensiero. L’argomentazione ripropone la classica critica di derivazione heideggeriana alla modernità: la logica utilitaristica del consumismo avrebbe degradato la vita alla mera dimensione biologica, in una sequenza senza fine di piaceri e bisogni da soddisfare. La stessa cultura sarebbe stata appiattita a oggetto di consumo nel mondo dei mass media. Ma per questa via la critica alla modernità rischia di sfociare in una negazione tout court dell’individualismo democratico ritenuto dai teorici della nuova destra come la principale causa del livellamento, della spersonalizzazione e della disumanizzazione nelle società avanzate contemporanee.

5  Adorno dedica alla «liquidazione dell’io» un’intera lezione, la quattordicesima per la precisione, tra quelle che compongono il semestre estivo del 1965 all’università di Francoforte e che sono state appena ripubblicate di recente nella traduzione italiana con il titolo Metafisica. Concetto e problemi (a cura di Stefano Petrucciani, Einaudi, Torino 2006)

6  T. W. Adorno, Op. cit., p. 146.

7  Ibidem, p. 154-55.

8  Il tema meriterebbe d’essere sviluppato perché qui si chiarirebbe il rapporto complesso di Adorno con la crisi della metafisica come giustamente mette in rilievo Stefano Petrucciani nella sua bella prefazione alla Metafisica (ivi, p XVI). «Se come la dialettica ci ha insegnato, nessuna determinazione positiva può essere bloccata, assolutizzata, allora […] non solo non si deve dare troppo credito alla persistenza granitica dei rapporti sociali vigenti, e delle forme di pensiero che li accompagnano, ma non può essere neppure assolutizzata, su un piano per così dire “metafisico”, la mancanza di senso, la dolorosità e la caducità della vita umana di cui facciamo quotidianamente esperienza, l’insuperabilità della morte. L’affermazione metafisica di un mondo “pieno di senso”, divenuta una bestemmia dopo Auschwitz, non può essere posta come assoluto; ma non lo può neppure l’affermazione del non senso, dell’intrascendibilità del ciclo naturale senza speranza e senza redenzione» (ibidem, p. XXVI).

9  Ibidem, p. 132.

10  Ibidem, pp. 132-33.

11  Hegel pensava la propria epoca come uno stato di transizione simile a questo. Nella prefazione alla Fenomenologia dello spirito usava parole che potrebbero adattarsi al nostro presente. «Lo sgretolamento che sta cominciando è avvertibile solo per sintomi sporadici: la fatuità e la noia che invadono ciò che ancora sussiste, l’indeterminato presentimento di un ignoto, sono segni forieri di un qualche cosa di diverso che è in marcia».

12  Il successo dell’idea strutturalista nella cultura filosofica e scientifica francese si deve soprattutto al programma di un gruppo di matematici, i “bourbakisti”, alla ricerca, dal 1939 in poi, di una rifondazione della matematica su basi alternative alla prospettiva intuizionistica. Lo spiega bene Franca D’Agostini in Breve storia della filosofia nel Novecento. L’anomalia paradigmatica (Einaudi, 1999, pp. 404). Per struttura si intende un oggetto matematico astratto di “secondo grado”, un qualsiasi sistema di relazioni tra elementi di qualsiasi tipo. Lo strutturalismo matematico si incontra poi con lo strutturalismo linguistico che ha fino agli anni ’50 una storia autonoma risalente al Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure. L’incontro tra queste due correnti avrà per effetto quello di cambiare il modo di pensare al reale: come una totalità capace di autoregolarsi nel proprio sviluppo, dotata perciò di autosufficienza.

13  Un secolo dopo il progetto di Leonardo dell’uomo artificiale comincia a circolare a Praga il mito dell’automa, il «golem». Secondo la Kabbala, la versione “popolare” della mistica ebraica, «il golem è inteso come una “cosa” ancora avvolta, ancora informe o embrionale: insomma è un qualcosa che potenzialmente potrebbe vivere come in egual misura potrebbe restare ab aeternum in uno stato amorfo» (Pippo Battaglia, L’intelligenza artificiale. Dagli automi ai robot “intelligenti”, Utet, 2006, p. 62).

14  Anche per l’oggetto, si potrebbe dire, le cose non vanno meglio. Lo strutturalismo mette in discussione anche un certo modo d’intendere l’oggettività del lavoro scientifico nel senso che la struttura non può essere intesa come un oggetto realmente esistente e osservabile. Ricorda piuttosto l’apriori kantiano, è un modo di osservare la realtà secondo una trama di opposizioni e analogie, regolarità e anomalie. Con la differenza che il trascendentale kantiano non ha la medesima apertura alla storia e allo sviluppo.

15  L’espressione è di José G. Merquior nel suo famoso saggio Foucault (Laterza, 1988, qui pag. 13).

16  M. Foucault, Les mots et les choses, Paris 1966 (trad. it. di E. Panaitescu, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, qui p. 343).

17  Ibidem, p. 414.

18  M. Foucault, in P. Caruso (a cura di), Conversazioni con Lévi-Strauss, Foucault, Lacan (Mursia, Milano, 1969, qui pp. 107-08).

19  Un capitolo a parte meriterebbe l’antiumanismo del secondo Heidegger. Dopo la pubblicazione di Essere e tempo l’ontologia non è più affidata all’analitica dell’esserci, in altre parole la struttura esistenziale dell’uomo non è più centrale nel discorso sull’essere. Semmai sarebbe ora di riconoscere che tutta la storia della metafisica altro non è stata che un progressivo antropomorfizzarsi dell’essere. Metafisica, filosofia e umanesimo diventano per Heidegger sinonimi di un unico atteggiamento conoscitivo, anzi di uno stesso modo di vivere e stare nel mondo che è tempo, ormai, di oltrepassare a vantaggio di una dimensione più autentica. Metafisico è il modo antropomorfo di pensare l’essere, sul modello della “strumentabilità” e degli “enti semplicemente presenti” disponibili alla volontà umana di manipolazione propria della tecnica. Uscire dalla filosofia e uscire dal punto di vita troppo umano sono la stessa cosa. Quale sia, poi, l’accesso al punto di vista dell’essere stesso, alla meditazione dell’essere sull’essere Heidegger lo spiegherà soprattutto con una serie di concetti-metafore a partire dall’Evento (Ereignis). Ma è il linguaggio e, ancor più, la poesia la manifestazione privilegiata dell’essere: più che una struttura è un evento, un accadere e un darsi dell’essere all’interno del quale soltanto uomo e mondo possono essere pensati, e non il contrario.

20  M. Foucault, Le parole e le cose, op. cit., p. 414.

21  M. Foucault, Qui êtes-vous, professeur Foucault? (intervista con P. Caruso, ripubblicata on line sul sito http://www.kainos.it).

22  G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino 2002, qui p. 60.

23  Per questa lettura filosofico-politica si veda M. Hardt, Gilles Deleuze, un apprendistato in filosofia (a/ch’ange, Milano 2000, p. 173).

24  G. Deleuze ne La philosophie critique de Kant (trad. it. pp. 211-12).

25  G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, op. cit., p. 75. La volontà di potenza è principio, ma non si può separare dalle forze, è immanente a esse, è plastica, «non si estende al di là di ciò che condiziona». Ma, precisa Deleuze, «inseparabile non significa identica», la funzione della condizione non va confusa con il condizionato.

26  Ibidem, p. 81.

27  Ibidem, p. 83.

28  Va in questa direzione il giudizio di Eleonora de Conciliis nell’articolo La persistenza dell’umano pubblicato sulla rivista on-line «Kainos» (http://www.kainos.it). «Il “tipo superumano” immaginato da Nietzsche deriva dal carattere insopportabile dell’umano, e dunque è anch’esso – ironia del pensiero – eminentemente reattivo, è il risultato di una reazione di disgusto, cui Deleuze aderisce senza riserve. Solo il superuomo “sopporta” – negandola – l’esperienza angosciante dell’eterno ritorno dell’uomo, la sopporta e la morde fino a spezzarla. Ma ciò avviene solo nel sogno filosofico di Nietzsche e di Deleuze».

29  Maurizio Ferraris, Se Superman ha l’influenza, articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore del 23 giugno 2002.

30  «Il sogno del superuomo assomiglia ad una volontà-desiderio, da parte del soggetto (qui nella inedita triade anti-soggettivista Nietzsche-Foucault-Deleuze), di denunciare la propria morte per facilitarla ma, nello stesso tempo, di esorcizzare la mediocrità e l’inferiorità dei Menschen, degli uomini: il sogno del superuomo è l’ultimo tentativo di deificazione dell’umano, grazie alla sua abolizione-superamento» (E. de Conciliis, La persistenza dell’umano, op. cit.).

31  G. Deleuze, Spinoza et le problème de l’expression (Spinoza e il problema dell’espressione, trad. it. di Saverio Ansaldi, Quodlibet, Macerata 1999).

32  L’originalità di Spinoza sta nel fatto che «la massa è il principale oggetto d’indagine», la massa con le sue differenti modalità d’esistenza. Agli occhi di Balibar la paura delle masse è un tema fondamentale nell’Etica e nel Trattato teologico-politico in due sensi: da un lato, perché nella collettività possono prevalere passioni distruttive come la tristezza, l’odio e la paura e, dall’altro, perché la moltitudine può incutere paura allo Stato. Balibar ha dedicato a Spinoza il saggio Spinoza, l’anti-Orwell. La paura delle masse pubblicato in La paura delle masse. Politica e filosofia prima e dopo Marx (Mimesis Eterotopia, Milano 2001, pp. 33-57). Altri studi su Spinoza sono stati pubblicati in traduzione italiana in Spinoza. Il transindividuale (Ghibli, Milano 2002).

33  E. Balibar, La paura delle masse, op. cit., p. 51.

34  Ibidem, pp. 51-52.

35  Conversazione con Gilles Deleuze (di Jean-Noël Vuarnet in G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, op. cit., p. 301).

36  G. Deleuze, Foucault (1986) (Cronopio, Napoli, 2002).

37  Una rassegna abbastanza dettagliata delle teorie del postumano nella società telematica si può trovare in Homo cyborg. Il corpo postumano tra realtà e fantascienza di Naief Yehya (elèuthera, 2004).