Indice del numero 6

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Soglie (post) umane: la “casa dell’essere” e l’evento del corpo-senza-organi

di Vincenzo Cuomo





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Casey Reas, Image derived from Process 4, 2005



    1. Posizione del problema.


I problemi, soprattutto quelli filosofici, non vengono mai da soli. Vale a dire che non si impongono in quanto tali se non sulla scorta di problematiche più ampie ed urgenti che li precedono e di fatto li impongono all’attenzione teorica. E ciò è quanto è avvenuto e sta avvenendo in questi anni – non solo in Italia – con la questione antropo-filosofica della “natura umana”.

Vi sono pochi dubbi sul fatto che tale problematica si sia imposta in conseguenza dell’affermazione di quelle tecnoscienze, specificatamente dell’ingegneria cognitiva e dell’ingegneria biologica1, che stanno prepotentemente mettendo in discussione la presunta intangibilità della natura umana e le tradizionali e dogmatiche distinzioni ontologiche e/o metafisiche tra ciò che è proprio dell’uomo e ciò che è proprio delle altre dimensioni dell’essere (la dimensione animale, quella vegetale, quella inorganica…).

Ora, nell’ambito di questo rinnovato interesse per la “natura umana” è da rilevare una specifica attenzione critica alle relazioni e alle differenze tra uomo e “animale”, che sta passando attraverso la ripresa di interesse (anche editoriale) per la biologia teorica e l’antropologia filosofica del Novecento2. Che cosa c’è dietro quest’interesse per l’animale? Quale problema più generale (e più urgente) vi si nasconde?

La tesi generale che cercherò di argomentare riguarda proprio le ragioni di questa rinnovata attenzione teorica alle differenze tra uomo e animale. Ritengo, infatti, che la vita “immersiva” in ambienti ad alta tecnologia (info-ambienti), accanto all’incremento del tasso di innovazione delle “forme di vita umane”, comporti anche il rischio, per alcuni versi opposto, dell’impoverimento di mondo.

Tale tesi generale comporta almeno due conseguenze che qui nomino solamente: a) la “provincializzazione” del linguaggio; b) la “reattivizzazione della risposta” (umana). Come tali questioni vadano legate all’evento/avvento di un “corpo-senza-organi” è ciò che mi propongo, infine, di mostrare.




    2. Espropriazione delle soglie (umane) e provincializzazione del linguaggio.


Nel dibattito onto-antropologico degli ultimi quindici anni, di fronte alla pervasiva affermazione della tecnoscienza, mi sembra che due linee interpretative si siano affermate. Si tratta di due concezioni che non determinano un’opposizione teorica, in quanto, implicandosi in qualche modo l’un l’altra, divergono più per l’enfasi posta su un aspetto o l’altro della natura umana che non per una scelta di campo netta.

Da un lato troviamo la riproposizione dell’idea della plasticità “ibridativa” e tendenzialmente “centrifuga” della natura umana, cioè dell’idea che il proprium dell’uomo in quanto specie riposi nella sua capacità di “ibridarsi” con l’alterità ontologica (l’animale, lo strumento, la macchina…) riposizionando le “soglie” dell’umano attraverso la “coniugazione” con essa.

Dall’altro troviamo l’idea che la natura propria dell’uomo riposi nella creazione di sfere biologiche e culturali fondamentalmente “autogene” che, pur modificandosi e riposizionandosi, svolgono la funzione di meccanismi di inclusione ed esclusione dell’alterità ontologica.

Così come l’idea della ibridazione coniugativa include anche quella del riposizionamento-riequilibrio dell’umano rispetto all’alterità, e quindi il concetto di un luogo proprio dell’umano definito da soglie, per quanto instabili e provvisorie, così, l’idea della produzione di “sfere autogene”, include la nozione di modifica delle soglie umane nelle loro interazioni con l’alterità. La differenza tra le due posizioni sembra poter essere rintracciata nell’enfasi centrifuga della prima e in quella centripeta della seconda.

Volendo meglio precisare le due posizioni (e la loro lontananza-vicinanza) mi riferirò a due libri – tra loro molto diversi per impostazione e finalità – che mi sembra possano bene esemplificarle. Si tratta del volume pubblicato nel 2002 da Roberto Marchesini, Post-Human. Verso nuovi modelli di esistenza e della raccolta di saggi di Peter Sloterdijk, dal titolo Non siamo ancora stati salvati, uscito nel 2001 in Germania e, nel 2004, in traduzione italiana.

La tesi principale del libro di Marchesini – volto alla critica di alcuni aspetti della teoria antropologica di Gehlen e, in particolare, di quello secondo cui la “natura umana” sarebbe contraddistinta da “incompletezza biologica” – è che ciò che caratterizza la specie umana sia il bacino di “virtualità ontogenetica”, frutto della ridondanza bio-genetica della specie, “e la tendenza a realizzare ponti coniugativi con l’alterità non-umana”3. Per quanto riguarda la “ricchezza biologica”, egli sottolinea come gli animali superiori, “proprio perché più ricchi di innato, hanno un maggior contenuto di virtualità cognitiva, giacché l’apprendimento si realizza non attraverso l’atto di riempire un contenitore vuoto bensì attraverso l’atto di organizzare una struttura, quella neurale”4. Da tale prospettiva (che si appoggia su argomenti epistemologici abbastanza convincenti) ciò che è apparso come una “carenza” biologica dell’uomo, cui la cultura e la tecnica avrebbero da sempre posto rimedio, è in realtà solo un’illusione di prospettiva dovuta proprio alle protesi tecniche e culturali che, permettendo nuove e inedite prestazioni, producono a posteriori la percezione “dell’improprietà del corpo ad attuare quella prestazione senza un complemento esterno. Come dire: prima nasce la cultura, poi la percezione di una carenza”5. Per Marchesini, che esplicitamente parla di co-evoluzione tra uomo, animali e tecniche, “l’ibridazione è un continuo riposizionamento della soglia dell’uomo ed è quindi un processo dinamico, incompiuto, ma soprattutto non perfezionabile – non esiste una perfezione (o imperfezione) di partenza, ma nemmeno una perfezione (o imperfezione) che attende di essere realizzata”6. Potremmo dire che, in tale prospettiva, l’evoluzione sia contraddistinta da una continua espropriazione, conseguenza di un continuo riposizionarsi in territori che prima erano “fuori” dell’umano, secondo un andamento esplicitamente “centrifugo”. Inoltre, le “soglie” dell’umano non solo sarebbero da considerarsi per natura “instabili” e provvisorie, ma devono essere concepite come vere e proprie zone di indiscernibilità tra umano e non-umano (l’animale e le tecniche innanzitutto).

Prima di tirare delle provvisorie conclusioni da tale discorso, conviene ancora aggiungere qualcosa. Innanzitutto, per chiarire il concetto di “coniugazione”, Marchesini introduce, sulla base delle sue premesse epistemologiche, quelli correlati di attualizzazione e di alterità selettiva. “Attualizzare – egli scrive – significa partire da un pool di potenzialità iniziali, un repertorio di configurazioni che vengono selezionate dalla contingenza esterna, la quale premia alcune virtualità, attualizzandole, e nega un futuro ad altre, selezionandole […]. Ogni attualizzazione è cioè eteroriferita; ciascuna attualizzazione è pertanto il risultato di un processo coniugativo con lo specifico potatore […]. La storia è una sequenza di eventi coniugativi tra un soggetto in evoluzione e un’alterità selettiva”7. Il selettore è ciòè quell’alterità (animale, tecnica) che produce il doppio movimento dell’attualizzazione e della “selezione”: attualizzando alcune “potenzialità” nega l’attualizzazione ad altre. Vista da tale prospettiva – che riprende dichiaratamente la teoria “selezionista” di Gerald M. Edelman8 – la teleonomia del vivente è solo apparente, poiché ogni attualizzazione evolutiva è in effetti “eteroriferita”. Ne consegue che ogni attualizzazione dà vita ad “un’entità ibrida etero-organizzata”9. Per tale ragione la natura umana è da concepirsi come un sistema aperto che “tende ad aumentare la dipendenza del sistema stesso dal contesto esterno e a tenerlo in una condizione di non-equilibrio”10. Ora, condizione di non-equilibrio significa instabilità delle soglie che definiscono di volta in volta l’umano rispetto all’ambiente-contesto con cui e attraverso cui si trasforma. Questo è un punto importante, anche se non particolarmente innovativo. Rispetto agli altri viventi, per cui il modello descrittivo “omeostatico” di interazione con l’ambiente – per quanto comprendente delle soglie di criticità – sembra perfettamente funzionare, quando si ha a che fare con la natura umana le cose cambiano radicalmente, in quanto la cultura (leggi qui fondamentalmente la tecnica) – che, secondo la sua prospettiva teorica, è già un prodotto di “attualizzazioni” dovute a complesse interazioni con l’alterità selettiva – deve essere concepita come un processo di esternalizzazione che, “ad una certa soglia […], diventa autoimplementante, ossia tende a rompere ogni pulsione autoreferenziale e a manifestare un carattere non-omeostatico11. Non è ben chiaro come un processo che diviene “auto-implementante” tenda a rompere ogni “pulsione auto-referenziale”, a meno che qui Marchesini non voglia intendere l’auto-refenzialità, come fa in varie altre parti del suo volume, come un termine connotante la tradizionale concezione “umanistica” dell’umano, “auto-riferita” ed “auto-centrata”, appunto, contro cui, con argomenti anche piuttosto convincenti, egli polemizza. In tal senso, allora, l’auto-implementazione delle “protesi tecnologiche” non deve essere letta come oppositiva all’autoreferenzialità. Fatto sta che qui ci troviamo di fronte ad un punto “critico” di tutto il suo discorso. Cerchiamo di vedere perché. La “protesi tecnologica – come egli scrive – determina una sorta di esternalizzazione di funzione al di fuori del corpo che permette di concentrare la pressione selettiva al di fuori del corpo per quanto concerne la funzione, all’interno del corpo per quanto concerne la capacità di ibridarsi con strumenti sempre più complessi”12. Ora, se interpretiamo bene, tale esternalizzazione di funzioni corporee, avrebbe prodotto, dapprima, la sostituzione, come alterità selettiva, dell’ambiente naturale con un ambiente tecnico, e poi, ad una certa soglia, l’auto-implementazione di tale ambiente tecnico, che tende a diventare ambiente di se stesso, secondo logiche evolutive “interne” ad esso ma “esterne” al partner umano che, sempre ad una certa soglia, comincia ad apparire paradossalmente in costante ritardo evolutivo rispetto all’ambiente tecnologico13. La lentezza dell’evoluzione ibridativa umana ad un certo punto appare in conflitto con la velocità dell’evoluzione dell’ambiente tecnologico. E questo è un problema reale, in quanto la vertiginosa auto-implementazione dell’ambiente tecnologico, con la divaricazione sempre più accentuata tra capacità dell’individuo isolato nel corpo proprio organico (per così dire) e le capacità dell’ambiente tecnologico, sta progressivamente esternalizzando, per così dire, anche le soglie dell’umano, che divengono sempre più le “soglie” di un corpo bio-tecnologico trans-individuale e senza organi, con la conseguenza della progressiva perdita della loro stessa percepibilità (di soglie) da parte dell’individuo “organico” (cfr. infra). Le soglie (post)-umane tendono a diventare paradossalmente in-esperibili (da parte dell’individuo). E ciò produce anche, come conseguenza “psico-sociale”, la diffusione di atteggiamenti fortemente ambivalenti che vanno dalla esaltazione della potenza dell’uomo che, grazie alla tecnoscienza, si sarebbe finalmente liberato da qualsiasi vincolo e da qualsiasi soglia critica (è la tesi fondamentale del movimento transumanista14) alla opposta esaltazione “reattiva” di una tradizione (inventata) di rigorosi “limiti” perduti (e questo mi sembra stia dietro tutti i fondamentalismi contemporanei). In effetti, ciò che è accaduto (e continua ad accadere) è che, nella tendenziale divaricazione tra corpo “organico” (in ritardo) e corpo trans-individuale senza-organi (in anticipo), la percezione delle “soglie” dell’umano diviene sempre più sfuggente e rarefatta. L’uomo “post-umano” è l’uomo che deve imparare a fronteggiare l’evento di una rottura di soglia – prodottasi per essere chiari nel passaggio dall’epoca della tecnica strumentale a quella della tecnica macchinica (in particolare di seconda generazione, vale a dire quella informatica) – che è, nello stesso tempo, un’espropriazione e (forse) una liberazione. Cercherò di accennarvi dopo.


Passo ora al testo di Peter Sloterdijk, che, come dicevo, discutendo anche alcuni degli autori utilizzati da Marchesini, enfatizza un altro aspetto della evoluzione della natura umana. Mi soffermerò in particolare sul saggio – uno dei più noti del pensatore tedesco – intitolato La domesticazione dell’essere. Lo spiegarsi della Lichtung15.

In tale saggio Sloterdijk si pone una domanda teorica a partire esplicitamente (e correttamente) da una esigenza. Quest’ultima si esprime nella preoccupazione di elaborare una teoria che sia capace di fornire delle risposte ai problemi contemporanei dell’umanità. In effetti, per essere più precisi, Sloterdijk, anche se lo esplicita alla fine del suo saggio, ritiene di poter indicare il problema attuale con cui l’umanità contemporanea deve fare i conti: la radicale crisi di quel che, in gergo heideggeriano, chiama la casa dell’essere e che egli stesso, fuori gergo, chiama anche col più importante dei suoi nomi propri: il linguaggio. Indicazione inquietante, se ricordiamo la definizione tradizionale, ma ancora ritenuta inoppugnabile e non ulteriormente riducibile, dell’uomo come zoon legon echon16, animale capace di linguaggio (di discorso).

È a partire da tale esigenza che Sloterdijk si pone la domanda teorica cui cerca di dare una risposta argomentata: in base a quali condizioni ha avuto origine la casa dell’essere? Proprio perché la domanda segue l’esigenza, io credo che non gli si possa obiettare di aver dimenticato, nella domanda, l’origine della domanda17, che qui ho chiamato l’esigenza. Non si tratta, infatti, di spiegare lo “stacco” della cultura dalla natura, ma si tratta di rendere visibili le condizioni che l’hanno permesso, che l’hanno reso possibile. E le condizioni sono rese visibili dall’esigenza. Proprio a partire dall’avvertimento di una crisi radicale del linguaggio e del simbolico (nel senso cassireriano) è possibile indagare, infatti, le condizioni che resero possibile l’avvento della casa dell’essere, e del suo “organo generale”, il linguaggio.

Non avendo qui lo spazio per riassumere le argomentazioni di Sloterdijk18, mi soffermo solo su quello che ritengo sia il punto critico del suo discorso e quello in cui è maggiormente evidente l’esigenza cui tenta di corrispondere.

Innanzitutto, egli si sofferma su ciò che definisce “meccanismi antropogenici” pre-umani e non-umani che resero possibile, attraverso la loro azione reciproca, l’emergere della Lichtung, l’evento della radura dell’essere (egli ne elenca quattro: l’insulizzazione, la liberazione dai limiti del corporeo, la neotenia e la trasposizione). Tali meccanismi antropo-genici non spiegano immediatamente il sorgere della “cultura” nell’alveo della natura, ma chiariscono le condizioni che resero possibile tale emergere (l’emergere della “casa dell’essere”). Essi sono equiparabili a “sfere” (Sphären) autogene che, ad un certo punto dei processi evolutivi naturali, si sono prodotte, istituendo, a loro volta, in base alla loro sinergia, le condizioni del sorgere della cultura umana in senso proprio. Secondo tale prospettiva – da tale punto di vista apparentemente opposta a quella prima analizzata – il prodursi di tali “sfere” – come, in particolare, quella prodottasi attraverso il meccanismo dell’insulizzazione in base al quale, tra gli animali che vivono in branco, quelli che si trovano ai margini producono un effetto di “parete vivente” che produce protezione (vantaggi climatici, protezione dai predatori…) per gli animali posti al centro: le madri animali e i loro piccoli, aggirando, in tal modo, le leggi darwiniane del fitness selettivo19 – implica l’innesco di ciò che Sloterdijk chiama “effetto serra”, che ci dovrebbe far concludere che l’uomo sia stato il prodotto non tanto di un’interazione con l’alterità ontologica, quanto di un meccanismo di auto-feedback, di auto-interazione, per così dire, “interno” alla sfera. Le sfere sono quindi “descrivibili come i luoghi della risonanza interanimale e interpersonale, in cui i modi in cui gli esseri-viventi stanno insieme acquisiscono un potere plastico”20. Esse hanno operato come “aperture mediane” tra “ambiente” e “mondo”, come veri e propri “agenti di cambio” tra le forme di coesistenza corporeo-animali e quelle simbolico-umane21.

Ebbene, in tale ambito discorsivo, Sloterdijk inserisce un elemento alquanto asimmetrico, su cui vorrei brevemente soffermarmi. Tale elemento è il meccanismo antropogenico della trasposizione. Perché tale tassello appare asimmetrico rispetto agli altri e, in qualche modo, dissonante? Perché in esso si nascondono due cose: il rapporto con l’alterità ontologica e il linguaggio.

Il meccanismo di trasposizione appare subito come complementare e opposto agli altri. Infatti, l’effetto-serra interno alle “sfere” autogene, produce un aumento progressivo del grado di differenziazione tra l’interno ed l’esterno (della sfera), in ragione del quale le irruzioni del mondo circostante (del mondo del “fuori”) rischiano di diventare catastrofiche. Allora lo spazio interno implode. Per tale ragione scatterebbe un meccanismo simbolico “immunologico” che è consistito, all’inizio, nella creazione di religioni riparatorie e di riti di ricomposizione e rigenerazione. Ma è il linguaggio l’organo generale della trasposizione, chiarisce subito Sloterdijk, la cui funzione – e questo è un vero e proprio topos filosofico, si pensi ad Hegel e allo stesso Heidegger – consiste, in ultima istanza, nella capacità di far diventare “domestiche” le situazioni di estraniazione e di pericolo, nella capacità di assimilare l’estraneo al proprio, ampliando in tal modo i limiti del “proprio”.

Che cosa sta accadendo ora? Tutto ciò che Sloterdijk ha descritto fino a questo punto risulta, all’improvviso, solo un grande preambolo alla descrizione dell’evento cui stiamo assistendo: la scomparsa della “casa dell’essere”. Il progresso della tecnica non appare più addomesticabile (né semplicemente “trasponibile”). Cresce l’estensione dell’estraneo e dell’inabitabile. È ciò che Heidegger ha chiamato l’assenza di patria, la spaesatezza, ma anche il compimento della metafisica. “Quando Dolly bela lo spirito non è in patria, a casa, presso di sé”22, afferma lapidario. Inoltre, le macchine intelligenti attestano che lo spirito è confutato all’interno delle cose. Sta venendo meno la distinzione metafisica tra natura e cultura. Insomma, “la vecchia ‘casa dell’essere’ si mostra come qualcosa in cui non è quasi più possibile un soggiorno, nel senso dell’abitare o del portare-nella-vicinanza da una lontananza […]. Parlare e scrivere nell’epoca del codice digitale e delle trascrizioni genetiche, non ha più in alcun modo un senso addomesticante. I principi scritti della tecnica si sviluppano al di fuori della trasposizione in ciò che è familiare di ciò che è sconosciuto, e non provocano più nessun addomesticamento e nessun effetto di amicizia con l’esteriorità; al contrario accrescono l’estensione di ciò che è estraneo e inassimilabile. La provincia del linguaggio si restringe23. Questo è l’evento cui dovremmo corrispondere. Ma in che modo? Sloterdijk invoca l’avvento di una nuova logica e di una nuova ontologia. Ma in che modo sono pensabili tali prospettive a partire dalla radicale crisi della capacità stessa di trasposizione simbolica dell’evento tecnologico che ci sta trasformando, senza che si abbia più la sicurezza del linguaggio come casa dell’essere?

E, col venir meno del linguaggio, (o meglio ancora della capacità simbolica dell’uomo), con la sua “provincializzazione”, come si esprime Sloterdijk, come sarà possibile “dire” (non nel senso del descriverlo ma nel senso dell’assumerlo, corrispondendovi) tale evento?



    3. La proliferazione dei mondi.


Ciò che cercherò ora di fare (e di dire) sarà guardare un po’ dentro tale evento. E lo farò isolando in esso due aspetti, che ritengo centrali. Il primo riguarda il rischio dell’impoverimento di mondo in conseguenza dell’immersione nella proliferazione degli info-ambienti. Il secondo, invece, riguarda la differenziazione tra corpo organico e corpo bio-tecnologico senza organi, di cui ho già detto qualcosa. Comincio dal primo.


Sono ormai numerosi i saggi teoretici e antropo-filosofici che riprendono e commentano in modo più o meno approfondito le ricerche biologiche ed etologiche di Jakob von Uexküll pubblicate tra gli anni Dieci e gli anni Trenta dello scorso secolo e, in particolare Umwelt und Innerwelt der Tiere che vide la luce nel 1921, e Streifzüge durch Umwelten von Tieren und Menschen24, del 1934. Il motivo dell’interesse teorico di tali ricerche non riposa solo sulla loro originalità ma anche sul fatto che esse furono molto meditate da Martin Heidegger che vi dedicò ampio spazio nel suo (ormai famoso) corso del 1929-30, dedicato a Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt, Endlichkeit, Einsamkeit25, in cui compare la famosa tesi circa la povertà del mondo dell’animale, tesi assunta direttamente da von Uexküll, compresa la parola chiave: povertà (Armut).

Il mondo-ambiente (Umwelt) degli animali è “povero”. Per la zecca – forse il più famoso degli esempi di von Uexküll – esso si riduce a tre “marche istintuali” cui l’animale reagisce: A) essa è sensibile alla luce, elemento che innesca la reazione istintuale dell’arrampicarsi verso di essa (e, quindi, verso la cima degli alberi); b) è sensibile all’odore dell’acido butirrico (tipico dei mammiferi) che innesca l’azione del “lasciarsi cadere” dalla cima degli alberi sugli animali che vi passano sotto; c) è sensibile, infine, al calore della pelle, che innesca la reazione della suzione del sangue. Il suo mondo è estremamente “povero”: “a nulla giova la sconfinata ricchezza del mondo circostante: tutto si confonde in una sola povera realtà”26. Tuttavia, sottolinea von Uexküll, “la povertà di un mondo siffatto significa sicurezza di condotta: e l’essere sicuri giova più assai dell’esser ricchi”27. Gli animali non hanno un “mondo comune”, come accade all’uomo, ma vivono rinchiusi nelle loro Umwelten, poveri di mondo, ma sicuri e protetti dall’istinto. Per la verità, qui bisognerebbe precisare. Von Uexküll critica aspramente la nozione di “istinto” in quanto la considera astratta e fuorviante. Utilizza, invece, al suo posto la nozione di “piano costruttivo” (Bauplan) o “disegno naturale”, perché il comportamento dell’animale non è concepibile al di fuori della sua interazione, “sistemica” potremmo dire, con l’ambiente. L’animale è una “macchina a risposta” (Antwortmaschine) – come egli si esprime – concepibile solo come pezzo di una macchina di grado più elevato costituita dalla sua interazione “specifica” con il suo “specifico” mondo-ambiente. A sua volta la macchina animale-ambiente è connessa, secondo un piano di cui l’animale non è ovviamente consapevole, ad altre macchine simili. Così accade che il mondo-ambiente della mosca sia connesso con il mondo-ambiente del ragno, senza che né il ragno né la mosca reagiscano l’uno al mondo dell’altro28.

Heidegger riprende ed elabora ulteriormente tali nozioni bio-etologiche all’interno della sua prospettiva ontologica, partendo proprio dall’idea che l’animale sia povero di mondo ma “protetto” dal suo istinto, protetto dalla sua connessione reattiva con l’ambiente in cui vive “immerso” (eingenommen). Heidegger interpreta, come è noto, tale immersione istintuale dell’animale nel suo mondo-ambiente, come stordimento (Benommenheit). Giocando, infatti, sulla omofonia tra benommen (stordito, intontito) e eingenommen (assorbito, preso dentro) Heidegger ha buon gioco nel descrivere l’animale come stordito nel suo ambiente, a motivo del suo esser “preso dentro”, in ragione della sua “immersione” nella (sua) Umwelt. L’animale, per quanto “aperto” nei confronti del suo ambiente, per quanto porti “con sé un cerchio ambientale all’interno del quale può venir colpito da ciò che l’esser-capace-di [le capacità che lo fanno un organismo animale] di volta in volta disinibisce, e che provoca la conversione dell’istinto”29, è weltarm, è povero di mondo. Nonostante abbia accesso al mondo-ambiente reagendo ai “disinibitori” (Enthemmenden), vale a dire a quelle determinate marche ambientali che sollecitano la risposta istintuale – marche/disinibenti che sono il suo mondo-ambiente – l’animale, a differenza dell’uomo, si può dire che è immerso in un ambiente ma non nel mondo; non ha accesso al mondo perché non ha accesso all’ente in quanto tale, aperto dal linguaggio. Per Heidegger, il mondo-ambiente animale, ha commentato Giorgio Agamben, può essere definito in questi termini: “esso è offen (aperto) ma non offenbar (svelato, lett. apribile). L’ente per l’animale, è aperto ma non accessibile. […] Questa apertura senza svelamento definisce la povertà di mondo dell’animale rispetto alla formazione di mondo che caratterizza l’umano”30.

Heidegger ci dice che l’animale non ha accesso all’in quanto e per tale ragione non ha accesso all’ente in quanto ente e, quindi, al mondo in quanto mondo. Che cosa vuol dire? Per rispondere a tale domanda, abbandono volutamente il riferimento ai Grundbegriffe del 1929-30 – sia perché l’analisi sarebbe troppo lunga per la problematica che sto tentando di affrontare, sia perché in quegli anni Heidegger non aveva ancora intrapresa la sua meditazione sul linguaggio come “casa dell’essere”. Mi riferirò, quindi, ad un passaggio centrale della famosa Brief über den Humanismus del 1946, in cui si afferma: “alle piante e agli animali manca il linguaggio proprio perché sono irrigiditi nel proprio ambiente (Umgebung) senza essere mai posti nella libertà della apertura dell’Essere, mentre solo tale apertura è ‘il mondo’. Tuttavia se essi dipendono totalmente dal loro ambiente, senza avere un mondo, non è perché è loro negato il linguaggio. Nella parola ‘ambiente’ si concentra tutta l’enigmaticità dell’essere-vivente. Il linguaggio nella sua essenza non è manifestazione di un organismo, né espressione di un essere vivente. Esso perciò non si lascia mai pensare in modo adeguato alla sua essenza in base al suo carattere di segno, e forse neanche in base al suo carattere di significato. Il linguaggio è il manifestante-occultante avvento dell’Essere stesso31. Anche questo passaggio meriterebbe un’analisi molto ampia. Mi limiterò a segnalare alcune cose. Innanzitutto, Heidegger afferma che agli animali (e alle piante) “manca” il linguaggio non perché sia loro negato ma perché vivono totalmente immersi, irrigiditi nel loro ambiente. In secondo luogo, egli lascia intendere che l’animale sia capace di utilizzare “segni” (specificamente “segnali”) ma non perciò di avere un linguaggio in senso proprio. In terzo luogo, il linguaggio non è pensato adeguatamente neanche in base al suo carattere di “significazione”, poiché è da concepirsi come “il manifestante-occultante avvento dell’Essere stesso”. Pochi righi prima, Heidegger aveva constatato (e confessato) che al pensare umano è più familiare l’essenza del divino che non quella dell’essere-vivente, e che “la parentela fisica con l’animale” è “un abisso difficile da pensare”32. Questione davvero cruciale, anche perché è lo stesso Heidegger che, come si è appena visto, parla e pensa l’animalità dell’animale (potremmo dire l’animale in quanto animale, per una ragione su cui mi soffermerò tra breve). Allora, quando lo fa, ritiene di operare solo di fantasia? Oppure ritiene di dire qualcosa di essenziale, per quanto non definitivo, sulla differenza ontologica tra uomo e animale? E ancora, per quale ragione non ha indagato di più sulla “parentela fisica” con l’animale? E non è che, forse, egli si avvicina al pensiero di tale parentela ogni volta che medita sul sentire (avere sensazioni, patire, gioire…) come terreno comune tra uomo e animale?33

Non potendo discutere tali questioni, vorrei evidenziare qui solo la relazione che Heidegger istituisce tra l’immersione (stordita) nel proprio ambiente e la mancanza di linguaggio. E vorrei anche chiarire la ragione di fondo che gli fa parlare dell’animale come di un “abisso” quasi insondabile. L’animale, dicevamo, mancando di linguaggio, non ha accesso all’ente in quanto ente, perché non ha accesso alla struttura dell’in quanto, che permette la significazione. Grazie a tale struttura, gli uomini hanno un mondo, vale a dire accedono ad un reticolo in-finito di significati, ognuno dei quali è “per altro”, in un gioco di “rimandi” – ma “in vista” del Dasein – che Heidegger analizza magistralmente, per quanto in un’ottica “pragmatica”, nella prima sezione di Essere e tempo. Il mondo che, grazie al linguaggio, si apre allora all’esserci è un mondo infinitamente ricco, e apparentemente non limitato “biologicamente” come quello dell’animale. L’essere-nel-mondo per il Dasein significa ek-sistere in una dimensione di significatività, in un reticolo di significati, a partire dei quali è possibile conoscere l’albero in quanto albero, il martello in quanto martello, il dio in quanto dio, l’animale in quanto animale. Ebbene sì, se si resta sul piano del significare, anche l’animale è conosciuto in quanto animale (tralascio volutamente la domanda sull’ente in quanto ente, assolutamente centrale nella riflessione heideggeriana, ma che mi costringerebbe ad appesantire troppo il discorso). Allora, per quale ragione Heidegger, nella Lettera sull’umanismo, scrive che l’essenza dell’animale è quanto più distante dalla nostra comprensione? Credo che il motivo sia che lì non ha in mente il piano del “significare”, nell’ambito del quale, dal punto di vista della “onto-logia” e della scienza, è sempre possibile fare progressi nella chiarificazione obiettiva dell’ente. Lì Heidegger sta pensando il linguaggio come la “casa dell’essere”. Uscendo fuori dal suo gergo filosofico, potremmo dire che il pensatore tedesco intenda il linguaggio come un processo (trans-individuale) di “trasposizione” (uso il termine di Sloterdijk) del “fuori” nel “dentro” – e fin quando si resta sul piano del significato non si pensa quel che Heidegger chiama il mostrare (Zeigen), concependolo come il “dire originario” volto all’evento del “fuori”. Tutta la tematica dell’Ereignis, inteso come l’evento di un’appropriazione-traspropriazione che “provoca” l’essenza dell’uomo, è comprensibile solo se, nella considerazione del linguaggio, si lascia l’idea che esso possa ridursi alla semplice “significazione”. L’ambito della disvelatezza (l’Essere), grazie al quale il linguaggio dice l’ente, è sempre anche un accoglimento dell’Ereignis, dell’evento appropriante-traspriopriante, e questo movimento dell’accoglimento del “fuori” nel dentro, avviene alle soglie dell’umano e definisce queste soglie stesse e la loro instabilità. In tale prospettiva, il linguaggio è, innanzitutto, un mostrare che accoglie la pro-vocazione del “fuori” e delle sue potenze (per dirla alla Deleuze). A patto che il “fuori” non sia distruttivo o del tutto catastrofico per l’essenza umana stessa, essenza che, come abbiamo visto, non c’è pensatore o scienziato che non concepisca come “plastica”. O che si intenda il linguaggio, con Sloterdijk, come l’organo generale del meccanismo atropo-genico della trasposizione, o che lo si intenda, con Heidegger, come l’ambito (esso stesso “eventuale”) dell’accoglimento “mostrante” dell’improprio, del fuori, come il suo accoglimento nella quadratura (Geviert) del mondo (cielo, terra, mortali, divini)34, si dice, in sostanza, la medesima cosa.

Heidegger, come si sa, a partire dalla metà degli anni Trenta, si dedica ad una lunga e sofferta meditazione su quel che gli appare come l’evento caratterizzante l’epoca contemporanea – e che pensa anche, sintomaticamente, come l’evento della fine delle “epoche” dell’essere. Questo evento è quello della tecnica divenuta mondo – che egli chiama anche “metafisica compiuta”. Esso è gigantesco e terrificante, poiché pone, tutto ciò che è, “fuori della sua essenza precedente”35. Rispetto a ciò, c’è una tesi che Heidegger ripete spesso: allorquando il mondo è ridotto a Ge-stell (im-posizione, impianto tecnico), l’uomo deve confrontarsi con il rischio supremo della sparizione della “casa dell’essere”, perché il Ge-stell “non si limita a nascondere un modo precedente del disvelamento, cioè la pro-duzione, ma nasconde il disvelare come tale e con esso ciò in cui la disvelatezza, cioè la verità, accade36. Di fronte a tale pericolo, come è noto, Heidegger cercherà la strada della “salvezza” in un lungo ed tormentoso meditare sulla tecnica in quanto ποίησις, sulla tecnica in quanto “disvelamento pro-ducente” (her- und vor-bringendes), strada su cui non lo seguiremo. Tuttavia, il punto di svolta (Kehre) della sua lunga riflessione sul pericolo insito non nella tecnica in generale – in cui rientra anche la tecnica strumentale e anche la stessa tecnica “salvifica” della ποίησις – ma nella tecnica “divenuta mondo”, continua ad essere inaggirabile: in questo evento egli vede il rischio di una radicale messa in crisi e di un radicale impoverimento del mondo e del linguaggio, dell’ambito della disvelatezza dell’ente (il mondo) e di ciò in cui tale disvelatezza accade (il linguaggio). Non è un caso che lo stesso concetto di “povertà”, che, seguendo von Uexküll, egli, nei Grundbegriffe, legava esclusivamente al mondo animale, sia stato poi da lui utilizzato sia per caratterizzare il mondo contemporaneo come “tempo di povertà”37, sia per caratterizzare la “povertà della meditazione”38 che potrebbe salvarci dal pericolo. Che cosa, infine, ha in mente Heidegger quando ci parla della crisi dell’abitare39 se non l’incapacità del linguaggio a dare un senso al “fuori” del tecno-mondo, riportando alla “quadratura” del mondo umano, alla “casa dell’essere”, l’estraneità della tecnica divenuta mondo?

Heidegger non ebbe la possibilità di confrontarsi, se non per geniali accenni40, con l’ulteriore trasformazione del tecno-mondo, vale a dire con la rivoluzione informatica e cibernetica. Se avesse avuto l’occasione di riflettere sulle info-macchine di “seconda generazione” (intelligenti e auto-organizzantesi) e sugli info-ambienti in cui sempre più conduciamo la nostra esistenza e la nostra vita, avrebbe di sicuro trovato materia per chiarire (e forse aggiornare) il suo pensiero sulla tecnica, e probabilmente proprio nella direzione di un approfondimento del tema della perdita di mondo.

È ora il momento di dire qualcosa di più sul nesso tra l’operare nei tecno-ambienti e il duplice evento dell’impoverimento di mondo e della marginalizzazione del linguaggio. Prendendo spunto dalle analisi di Heidegger (e von Uexküll) circa lo stordimento immersivo dell’animale nel suo ambiente, domandiamoci se l’immersione dell’individuo umano in un mondo-ambiente sempre più rifratto in una indefinita serie di info-ambienti tra loro connettibili, non comporti una trasformazione tanto radicale dell’esperienza da far pensare ad un progressivo stordimento estetico dell’individuo (post)umano nei suoi tecno-mondi. Infatti, l’elevato grado di immersività che caratterizza l’interazione con le info-macchine, pur non escludendo affatto – anzi, il più delle volte, sollecitandola, come accade per gli hacker41 – l’azione innovativa (la rule following creativity così come la rule changing creativity42), sembra implicare quel che provvisoriamente chiamerei una sempre più ampia “reattivizzazione” della risposta, coerente con l’ottimizzazione della fitness info-ambientale. Reattivizzare la risposta, per quel che cercherò di dire dopo, non implica una re-istintualizzazione del (post)uomo, anche se sembra somigliarvi. Tentando di andare alla radice del problema, si potrebbe affermare che “reattivizzare la risposta”, che è la conseguenza principale della riduzione del mondo ad una serie indefinita e interconnessa di tecno-ambienti, significhi qualcosa di estremamente paradossale, vale a dire la sparizione della percezione del ni-ente, la sparizione della percezione della soglia tra il “dire” e il “fuori” (del dire), in una parola la progressiva sparizione della dimensione del “mostrare” – mostrare che, accadendo sul limite del linguaggio (quindi, dentro e fuori di esso), accade sul limite tra essente e non-essente, e, quindi, tra l’essere dell’essente (il suo disvelarsi nel linguaggio) e il fuori-dal-linguaggio – e in un conseguente impoverimento di mondo e di linguaggio. La “reattivizzazione della risposta” è la conseguenza principale dell’essere-nel-tecno-mondo. Che cos’è la “risposta” umana in generale, infatti, se non risposta all’alterità? E qual è il carattere “proprio” che siamo soliti attribuire all’alterità (all’alterità “ontologica”, come quella dell’animale o della pianta, o della stessa macchina; all’alterità “culturale” dello straniero; all’alterità esistenziale della “singolarità” dell’altro) se non la sua “im-proprietà”, la sua più o meno radicale “esteriorità” al “dire” che dà senso al nostro mondo? Rispondere, in senso fondamentale, è aver a che fare con un’estraneità che impone una domanda rispetto alla quale la risposta resta sempre asimmetrica43. Rispondere implica la percezione del ni-ente che appare con l’altro, implica la percezione di un ni-ente, che non potrà mai essere assorbito dentro il linguaggio inteso come semplice “significazione”, ma con cui il linguaggio inteso come “casa dell’essere” (seguendo la quasi-metafora di Heidegger) ha essenzialmente a che fare, ri-collocando continuamente l’uomo nel gioco del Geviert, nel gioco della “quadratura” del mondo, all’interno della quale egli “soggiorna”, cor-rispondendo all’alterità. E che cosa sono, in tale prospettiva, il simbolo, o anche la stessa allegoria, al di la delle loro profonde differenze, se non le due modalità fondamentali di tale cor-rispondenza?

Detto ciò, che cosa intende in ultima istanza l’espressione “reattivizzazione della risposta”? Intende innanzitutto la progressiva perdita della percezione del ni-ente e, quindi, dell’alterità (le soglie tra umano e non umano); in secondo luogo, significa il progressivo ridursi del linguaggio prima alla semplice dimensione della significatività e poi a quella dell’informatività; infine, intende la progressiva riduzione del “mondo” ad una indefinita serie interconnessa di “mondi-ambienti”, in cui non si fa più esperienza dell’alterità ma solo di un indefinito gioco di differenze44.

Il pericolo dell’impoverimento di mondo passa attraverso la proliferazione di ambienti, e di “ambienti di ambienti”. Non c’è vuoto d’ente, non c’è più spazio per (del) ni-ente.

Ma quale nuova modalità del dire dovremmo cominciare a percorrere per render conto di ciò che sta accadendo? C’è ancora da “dire” dopo la fine del linguaggio come “casa (antropologica, ora possiamo sottolinearlo) dell’essere”?


    4. Corpo organico e corpo (impersonale) senza-organi.


Prima di tentare di tirare le fila di tutto il discorso, come ho anticipato, vorrei dire qualcosa di più sulla differenziazione tra corpo “organico” e corpo bio-tecnologico “senza-organi”, così come prima mi sono espresso.

Come è noto, l’origine del concetto di “corpo-senza-organi” la troviamo nell’opera di Antonin Artaud. Il poeta francese elabora questa “visione”, a partire dalla sua dolorosa esperienza della radicale improprietà del “corpo proprio”, del corpo-organismo, soggetto, “assoggettato” all’Altro (Famiglia, Società, Capitale, Manicomio, Stato). A partire da tale esperienza vissuta, egli elabora la visione di un “corpo-senza-organi”; visione, tuttavia, fortemente ambivalente, in quanto tesa, da un lato, alla “riappropriazione” del corpo espropriato, dall’altro, a far “esplodere” il corpo-organismo verso “l’infinito fuori” (l’infini dehors)45. Il concetto di “corpo-senza-organi” è, successivamente, ripreso da Deleuze e Guattari, a partire dal loro Anti-Edipo fino ad arrivare a Mille-piani46. La versione che essi ne danno elimina l’ambivalenza originaria del concetto artaudiano, esaltando l’aspetto “centrifugo” del CsO (la formula che essi usano per “corpo-senza-organi”). Infatti, essi introducono un’importante chiarificazione concettuale, in base alla quale il CsO non è più concepito “contro” l’organo ma semplicemente contro l’organismo, cioè contro l’organizzazione “stabile” degli organi. Su questo punto della loro proposta interpretativa, che riduce fortemente, se non elimina, l’ambivalenza artaudiana del CsO, forse è opportuno citare direttamente la tesi principale. “Il CsO – essi scrivono – non è per nulla il contrario degli organi. I suoi nemici non sono gli organi. Il suo nemico è l’organismo. Il CsO non si oppone agli organi, ma a questa organizzazione degli organi che si chiama organismo. È vero che Artaud conduce la sua lotta contro gli organi, ma nello stesso tempo ce l’ha con l’organismo […]. Il CsO non si oppone agli organi, ma, con i suoi ‘organi veri’ che devono essere composti e disposti, si oppone all’organismo, all’organizzazione organica degli organi. Il giudizio di Dio, il sistema del giudizio di Dio, il sistema teologico, è proprio l’operazione di Colui che fa un organismo, un’organizzazione di organi. […] L’organismo non è assolutamente il corpo, il CsO, ma uno strato sul CsO, cioè un fenomeno di accumulazione, di coagulazione, di sedimentazione, che gli impone forme, funzioni, collegamenti, organizzazioni dominanti, gerarchizzate […]”47. Deleuze e Guattari concepiscono, in ultima istanza, l’organismo come il risultato di una stabilizzazione degli organi, o, meglio, il risultato di un irrigidimento degli organi in una determinata gerarchia, il prodotto di una “coagulazione”, di una “sedimentazione” di funzioni, connessioni. È ciò che chiamano anche “stratificazione”, cioè soggezione del CsO ad uno strato che lo ricopre e tende ad irrigidirlo. Per loro il “corpo proprio” è concepito in senso autentico – quindi, come corpo “parziale” e provvisorio – solo in quanto attraversato dal CsO. Il corpo “individuale” è concepito come una “macchina desiderante”, cioè come una macchina per connettersi ad altre macchine all’infinito, al di fuori di qualsiasi piano prestabilito; ma la macchina desiderante non è immediatamente identificabile con il CsO, in quanto quest’ultimo non è che il prodotto dell’infinito connettersi delle macchine “parziali”. Il CsO, come essi ripetono, non è, ma deve esser fatto: “Il Corpo senza Organi non lo si raggiunge, non si può raggiungere, non si finisce mai di accadervi, è un limite”48. Il CsO è corpo spinoziano e dionisiaco ad un tempo49. Deleuze e Guattari con forza danno a vedere, forse anche al di là delle loro intenzioni esplicite, la nuova dimensione del corpo che si impone nella contemporaneità. Al centro di tale concezione c’è la differenziazione tra “corpi organici” (parziali) e CsO, inteso come “piano di consistenza”. Più volte essi sottolineano come il CsO abbia bisogno degli “organismi”, per quanto “minimi” e “provvisori”, per farsi. E “disfare l’organismo”, essi scrivono, “non ha mai voluto dire uccidersi, ma aprire il corpo a connessioni che suppongono tutto un concatenamento, circuiti, congiunzioni, suddivisioni e soglie, passaggi e distribuzioni d’intensità, territori e deterritorializzazioni […]. Dell’organismo bisogna conservare quanto basta perché si riformi a ogni alba […] Non si arriva al CsO e al suo piano di consistenza destratificando selvaggiamente […]: La cosa peggiore non è rimanere stratificato-organizzato, significato, assoggettato – ma precipitare gli strati in uno sprofondamento suicidario o demente”50. Il CsO è, quindi, un corpo impersonale che si produce attraverso le infinite connessioni macchiniche e rizomatiche tra i “corpi parziali organici”, che continuamente sono indotti a modificarsi “intensivamente”. Il CsO è un corpo trans-individuale di tutti e di nessuno, potremmo dire, che vive attraversando i flussi di connessione intensiva tra i corpi parziali organici, sempre più destinati a modificarsi, per quanto secondo orizzonti eterogenei. Tale concezione trova un suo luogo di sistematizzazione logica nel breve saggio Rizoma, pubblicato da Deleuze e Guattari nel 1976, quasi come prosecuzione dell’Anti-Edipo. Tra i principi che i due filosofi francesi enunciano per definire le caratteristiche macchina rizomatica (macchina “astratta” che può essere attualizzata, per così dire, in chiave logica, ontologica, etica, estetica) c’è quello della rottura a-significante. Un rizoma – essi scrivono – “può essere rotto, spezzato in un punto qualsiasi, ma riprende seguendo questa o quella delle sue linee e seguendo altre linee”51. E, aggiungono, “ogni rizoma comprende delle linee di segmentalità a partire dalle quali è stratificato, territorializzato, organizzato, significato, attribuito ecc.; ma anche linee di deterritorializzazione per mezzo delle quali incessantemente fugge”52. Il concatenamento tra le cose, che essi chiamano “concatenamento macchinico”, è, cioè, nello stesso tempo, da un lato produttivo di “organismi” (e/o di totalità significanti), e dall’altro di “un corpo senz’organi che non cessa di disfare l’organismo, di far passare e circolare delle particelle asignificanti, intensità pure”53. Il rizoma, in quanto Corpo senza Organi, insomma, è sempre in via di farsi, poiché, prodotto di connessioni “eterogenee” tra i corpi-organici. Esso è ciò che risulta dalla “attualizzazione” del possest, della potenza, della virtualità, di ciascun corpo organico – volendo utilizzare un concetto che Deleuze ricava da Cusano e che, poi, sostanzialmente, ritrova in Spinoza. Insomma, vi sono sempre punti di rottura che, impedendo la chiusura “organica” dei corpi-parziali, permettono a ciascuno di essi di attualizzare potenzialità inesprimibili (e asignificanti) all’interno dell’organizzazione che provvisoriamente detengono. Certo, la loro chiusura reattiva e “paranoica” è sempre possibile, così come è possibile che la liberazione delle “intensità” (del loro possest) possa distruggere la possibilità stessa dell’organizzazione e realizzare una sorta di dittatura schizoide del divenire. Tuttavia, è solo nella possibilità di “fare rizoma” con l’altro – con qualsiasi “altro”, con le piante, con gli animali, con le macchine tecniche – che, secondo Deleuze e Guattari è concepibile una trasformazione/evoluzione dell’umano e, quindi, anche la speranza di forme di vita più felici.

Uno dei motivi più interessanti di questa teoria del corpo-senza-organi è che essa sembra ricalcare un aspetto fondamentale dell’evento della tecnicizzazione del mondo. A parte il fatto che i due pensatori francesi concordano con una concezione fondamentalmente “eteroriferita” dell’evoluzione della specie umana – come quella sostenuta da Marchesini, prima analizzata – , la differenziazione tra corpi-organici e corpo (transindividuale) senza organi ci riporta alla divaricazione tra corpo proprio organico e corpo (transindividuale) bio-tecnologico, cui ho accennato nel primo paragrafo. Con alcune differenze, che cercherò di elencare fra poco.

Prima di farlo, infatti, vorrei, brevemente, riportare il discorso sui Grundbegriffe heideggeriani del 1929-30 e sul concetto, lì esposto e argomentato, di “organo” e di “organismo”.

Heidegger, dopo aver definito le differenze tra l’eteronomia dello strumento (ad esempio, un martello, sempre “pronto all’uso” da parte di altri, dell’altro “umano”) e l’autonomia dell’organo, approfondisce il concetto di “capacità” propria dell’organo, e dell’organismo (in quanto non si danno organi isolati dall’organismo, né organismi isolati dalla relazione essenziale con l’ambiente). Cerco di sintetizzare il suo discorso, per arrivare al punto che mi interessa. Innanzitutto, afferma Heidegger, l’organo è al servizio di una capacità e non il contrario. La capacità crea l’organo. È la capacità di vedere che precede l’organo della vista, ad esempio (è da tener presente che qui il discorso riguarda fondamentalmente l’animale e non l’uomo54). Ma in che cosa consiste questa capacità? È qualcosa di indipendente dalla relazione tra organo-organismo e ambiente? Niente affatto. Riprendendo e ampliando la concezione di von Uexküll, Heidegger concepisce le capacità dell’organismo come dipendenti dalle relazioni tra questo e la sua Umwelt. Le capacità esprimono proprio la stabile interazione tra l’animale (quindi, anche, in qualche modo, dell’uomo in quanto animale) e l’ambiente; esse sono il fondamento della povertà di mondo e della “sicurezza” biologica caratteristiche dell’animale. L’esser-capace è, chiarisce Heidegger, istintuale: “vi capacità sempre e soltanto là dove vi è un istinto”55. Infatti, “un istinto non è mai sussistente, bensì in quanto essenzialmente in cammino verso…, nello spingersi avanti-verso…si sottomette, è in se stesso servizio e al-servizio”56. Tra tali istinti-capacità e mondo-ambiente c’è perfetta armonizzazione, potremmo dire. Tra l’istinto, inteso come uno “spingersi verso” e l’ambiente, chiamato da Heidegger “cerchio ambientale disinibente”, c’è perfetta coerenza. L’originalità di Heidegger consiste, secondo Henri Maldiney – che ha dedicato interessanti riflessioni a questa problematica – “nell’aver concepito l’apertura del vivente alla sua Umwelt come pulsione e nell’aver compreso il comportamento come processo di disinibizione. La pulsione anticipa il suo oggetto anticipando, attraverso la propria interna tensione, qualcosa che fa tutt’uno con essa: la disinibizione della pulsione stessa”57. L’animale è “immerso-stordito” nel ciclo istintuale, come abbiamo già visto, perché l’istinto propriamente non sta nell’animale astrattamente concepito, ma è ciò che regola e stabilizza la relazione, perfettamente armonica, tra l’ animale e il suo mondo.

Ora, è da questo punto che vorrei rilanciare, attraverso (e oltre) Heidegger, la questione dell’interazione (post-)umana nei tecno-ambienti. Infatti, a partire da quelle considerazioni heideggeriane, è ora forse possibile comprendere meglio sia quel che prima ho chiamato il “ritardo” dell’individuo (post)umano rispetto agli info-ambienti in cui opera e – ancora più radicalmente, vive – sia la ragione per la quale l’immersione nei tecno-ambienti produce una reattivizzazione della risposta umana (cfr. supra) ma non una re-istintualizzazione delle relazioni uomo-ambiente. L’istinto, infatti, implica sempre una corrispondenza “armonica” tra organismo e ambiente. Ma è proprio tale corrispondenza che viene radicalmente meno – ben al di là della “povertà istintuale” che caratterizza l’uomo in quanto specie – a partire dall’evento della tecnicizzazione del mondo. L’individuo post-umano non ha alcuna “capacità” per (e di) fare “esperienza” del tecno-ambiente in cui opera e vive. Ciò non significa che non sia capace di “spiegare scientificamente” i processi tecnologici. Significa che sconta – come mai era accaduto prima nella sua storia – un ritardo e una radicale estraneità evolutiva rispetto alla macchine con cui pure con-vive. L’individuo post-umano è così costretto a fare esperienza della “contigenza neuro-corporea” oltre che neuro-culturale58 che lo caratterizza, in quanto zoè, – e che, di fatti, condiziona le sue “forme di vita”. Riprendendo l’esempio fatto prima, quale organo di senso, quale nuova “capacità istintuale” ci potrebbe far fare esperienza, in senso proprio, della tele-presenza? Certo, sappiamo tutto sui processi tecnologici che consentono la “presenza a distanza”, ma non abbiamo la “capacità” di fare esperienza del nostro essere e agire contemporaneamente in più luoghi (e del nostro essere e agire, contemporaneamente, anche in uno spazio, quello della rete, che non è un luogo). Lo stesso discorso potrebbe essere fatto a proposito di tutti gli oggetti-eventi tecno-naturali, caratterizzati da un ordine di grandezza, intensiva o estensiva, che sfiora l’infinitamente piccolo o l’infinitamente grande rispetto ai nostri paramentri percettivi, che, tuttavia, pur strutturano in modo sempre più marcato il nostro ambiente di vita e la nostra stessa “vita organica” (dalla banale cellula fotoelettrica alle nanotecnologie, per intenderci). L’evento del tecno-mondo (dei tecno-mondi) è l’evento di una divaricazione tra con-viventi radicalmente eterogenei, e, cioè, tra (da un lato) la singolarità corporea ed esistenziale del nostro esserci e (dall’altro) il corpo trans-individuale bio-tecnologico, dimensione bio-macchinica che sempre più si connota come un’alterità che non riusciamo ad “esperire” e che non siamo capaci di “dire”, riportandola alla “casa dell’essere”.


Riprendo, ora, in conclusione – in una conclusione, per così dire, “aperta” – la questione della vicinanza, e delle differenze, tra questo evento “tecnico” e il concetto di corpo-senza-organi di Deleuze e Guattari.

Al di là delle facili somiglianze che sarebbe possibile riscontrare tra i due concetti, ad esempio sulla base della nozione di “elaboratore informatico” (computer) inteso come “macchina di macchine”, tra CsO e corpo-ambiente bio-tecnologico vi è un’importante differenza. Mentre il secondo è caratterizzabile, per quanto prima detto, come un’alterità tecnologica con la quale stiamo instaurando una relazione di con-vivenza (tra eterogenei), il primo, il corpo-senza-organi, se interpretiamo correttamente, è concepito da Deleuze e Guattari come una “macchina astratta” che coinvolge nel suo “piano di immanenza” (per dirla con una loro famosa espressione) sia l’umano che il macchinico in senso stretto, ma, questo mi sembra essenziale, senza che vi sia implicata alcuna idea di “armonizzazione” tra le dimensioni dell’essere. Insomma, il CsO appare come l’evento all’interno del quale pensare sia la tecnicizzazione del mondo, sia la relazione tra questa e la natura umana, sia le relazioni tra tutte le possibili dimensioni dell’essere. Il CsO è “ciò che viene” a partire dall’impoverimento di mondo. Detto questo, mi permetto di elencare alcune questioni ancora aperte e che potrebbero essere tema di ricerche e approfondimenti ulteriori:

1. Il corpo-senza-organi è un corpo che non è, ma si fa attraverso connessioni di eterogeneità, che implicano, nello stesso tempo processi di “territorializzazione” e processi di “deterritorializzazione”, così come avviene – secondo uno degli esempi che si trovano in Rizoma – tra la vespa e l’orchidea, ognuna delle quali territorializza il suo essere e, al contempo, lo deterritorializza rispetto all’altro (“l’orchidea deterritorializza formando un’immagine, un calco di vespa; ma la vespa si riterritorializza su quest’immagine; essa nondimeno si deterritorializza, divenendo essa stessa un pezzo dell’apparecchio di riproduzione dell’orchidea; ma essa riterritorializza l’orchidea trasportandone il polline. La vespa e l’orchidea fanno rizoma, in quanto eterogenee”59). Al di là dell’esempio eto-biologico, l’essenziale del discorso dei due pensatori francesi mi sembra consista nella proposta di una idea generale di evoluzione, che essi, citando Rémy Chavin, chiamano a-parallela, e che trova i suoi punti di forza nei concetti di “connessione di eterogeneità” e, appunto, di a-parallelismo evolutivo. Questa nozione appare molto utile a pensare la possibile con-vivenza uomo-macchine, sfuggendo sia all’idea di “dominio” (della tecnica sull’uomo) – idea ancora “umanistica” – sia a quella di “nuova armonia” tecnofila (tra uomo e tecnica) – idea fortemente sostenuta dai teorici del “transumanesimo”. Citando Nietszche, Deleuze ebbe a scrivere: “il superuomo è colui che libera la vita nell’uomo stesso a vantaggio di un’altra forma”60.

2. Un secondo motivo di interesse della teorizzazione deleuziana-guattariana del “corpo-senza-organi” riguarda il linguaggio. Il CsO, in quanto “macchina astratta”, comprende anche la dimensione del linguaggio e della comunicazione in generale. Ebbene, ciò che lo caratterizza, sul piano del linguaggio, è che esso si mostra solo nelle “rotture a-significanti” del linguaggio. Si mostra e si fa nei punti di rottura del linguaggio e non ha a che fare né con i processi di “significazione” né con la dimensione puramente formale dei “significanti”. D’altra parte, la “rottura a-significante” è sì interpretabile come una forma di “comunicazione”, ma non come una comunicazione che comunica “messaggi” – sia nel senso dei “significati”, sia in quello delle “informazioni”, sia in quello del medium comunicazionale – ma come una (paradossale) comunicazione di “eterogeneità” oltre che attraverso l’eterogeneità. Tuttavia, tale comunicazione di eterogeneità ha tutto l’aspetto di quel che ho chiamato “reattivizzazione della risposta”. Ha l’aspetto di una comunicazione tra dimensioni eterogenee senza la “percezione” delle soglie di eterogeneità. E, in tal modo, è una comunicazione che sconta l’assenza non tanto del linguaggio in generale, quanto del suo piano “mostrativo”.

3. Per tali ragioni, si potrebbe affermare che il corpo-senza-organi sia l’evento evolutivo generale del tramonto dell’uomo e dell’avvento della post-umanità, un evento, la cui portata è, con ogni probabilità, molto più vasta di quel che già si sta manifestando. Nell’accadere dell’impoverimento di mondo, della provincializzazione del linguaggio, della progressiva reattivizzazione della risposta, non sembra esserci più spazio per il ni-ente, legato alla “percezione” delle soglie d’alterità. Ciò che ci sta davanti è una progressiva e, apparentemente, inarrestabile divaricazione tra, da un lato, una estrema “singolarizzazione” della vita-che-esiste – la singolarità delle voci, per le quali la percezione della soglia (del vivere-esistere) è essa stessa, conseguentemente, contingente e non universalizzabile – e, dall’altro, una dimensione trans-individuale bio-tecnologica, le cui soglie evolutive non ci appartengono più – benché, paradossalmente, ci riguardino sempre di più, perché da esse dipende, innanzitutto, la nostra sopravvivenza, prima ancora che le nostre forme di esistenza. .......



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1 Utilizzo due espressioni particolarmente efficaci (e sintetiche) coniate da Massimo De Carolis nel suo volume La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p. 10 e sgg.

2 Per una visione generale dell’antropologia filosofica novecentesca, cfr. Ubaldo Fadini, Antropologia filosofica, in La filosofia, a cura di Paolo Rossi, volume primo, Torino, UTET, 1995, pp. 495-523; cfr. anche Mariapaola Fimiani, Antropologia filosofica, Roma, Editori Riuniti, 2005.

3 Roberto Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, p. 47.

4 Ibidem, p. 17.

5 Ibidem, p. 24.

6 Ibidem, p. 33.

7 Ibidem, p. 49.

8 Cfr. Gerald M. Edelman, Darwinismo neurale. La teoria della selezione dei gruppi neuronali, tr. it., Torino, Einaudi, 1995.

9 Roberto Marchesini, op. cit., p. 50.

10 Ibidem, p. 62.

11 Ibidem, p. 27 (corsivo mio).

12 Ibidem, p. 33.

13 Sulla necessità teorica di distinguere il concetto di tecnica strumentale da quella di tecnica macchinica e, all’interno di quest’ultima, tra “tecnologie” e “neo-tecnologie” vedasi essenzialmente Mario Costa, Dimenticare l’arte. Nuovi orientamenti nella teoria e nella sperimentazione estetica, Torino, Franco Angeli, 2005, in particolare il capitolo secondo. Dello stesso Costa, vedasi anche Internet e Globalizzazione estetica, Napoli, Tempo Lungo, 2002. Cfr. anche Vincenzo Cuomo, Del corpo impersonale. Saggi di estetica dei media e di filosofia della tecnica, Napoli, Liguori, 2004, in particolare il secondo saggio dal titolo Il crepuscolo della mano (il filosofo e il martello), p. 29-46.

14 Tra i vari “guru” del movimento transumanista (diffusissimo in rete), troviamo Hans Moravec (Robot. Mere Machine to Trascendent Mind, Oxford-New York, Oxford University Press, 1998); Vernor Vinge (Technological Singularity, in Whole Earth Review, n° 81, dicembre 1993); Eric Drexler (Engines of Creation. The Coming Era of Nanotechnology, New York, Anchor, 1986). Molti di tali autori si rifanno ad alcuni concetti elaborati dal teologo Theilard de Chardin (di cui cfr. L’inno dell’universo, tr. it., Milano, il Saggiatore, 1981). Per un’interpretazione laica e materialistica (“post-umana” ma non transumanista) del concetto di noosfera elaborato da Theilard de Chardin vedasi Mario Costa, Il sublime tecnologico. Piccolo trattato di estetica della tecnologia, nuova edizione accresciuta, Roma, Castelvecchi, 1998, p. 56 sgg.. Sulla questione del rapporto tra “transumanesimo” e religione cfr. molto utilmente la rivista Journal of Evolution and Technology, vol 14, Issue 2, August 2005, dedicato a Religion and Transhumanism. Sulla questione più generale del rapporto tra progresso tecnologico e religione, cfr. David F. Noble, La religione della tecnologia. Divinità dell’uomo e spirito d’invenzione, tr.it., Torino, Edizioni di Comunità, 2000.

15 Peter Sloterdijk, La domesticazione dell’essere. Lo spiegarsi della Lichtung, in Id, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, tr. it. a cura di A. Calligaris e S. Corsara, Milano, Bompiani, 2004, pp. 113-184. Di Sloterdijk cfr. Spären. Makrosphärologie, Band II, Globen, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 2001.

16 Cfr. Franco Lo Piparo, Aristotele e il linguaggio, Roma-Bari, Laterza, 2003.

17 Cfr., sulla questione della “domanda circa l’origine”, le riflessioni di Carlo Sini, non a caso rivolte al rapporto animale-uomo, contenute nel suo L’origine del significato. Filosofia ed etologia, Milano, Jaca Book, 2004.

18 Sulla raccolta di saggi di Sloterdijk, in cui compare quello qui analizzato, cfr. la mia recensione inclusa nel presente numero di Kainos (sezione recensioni).

19 Peter Sloterdijk, op. cit., p. 140.

20 Ibidem, p. 137.

21 Vedi Ibidem, p. 138 sgg.

22 Ibidem, p. 169.

23 Ibidem, p. 167 (corsivo mio).

24 Jakob von Uexküll, Streifzüge durch Umwelten von Tieren und Menschen, tr. it. a cura di F. Mondella, Ambiente e comportamento, Milano, Il Saggiatore, 1967. Su von Uexküll ed Heidegger cfr. Giorgio Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Torino, Bollati Boringhieri, 2002. Cfr. anche Monica Bassanese, Heidegger e von Uexküll. Filosofia e biologia a confronto, Trento, Verifiche edizioni, 2004.

25 Martin Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt, Endlichkeit, Einsamkeit, tr. it. a cura di C. Angelino, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, Genova, il melangolo, 1992.

26 Jakob von Uexküll, Ambiente e comportamento, cit., p. 97.

27 Ivi.

28 Secondo Agamben (op. cit.), laddove la scienza classica “vedeva un unico mondo, che comprendeva dentro di sé tutte le specie viventi gerarchicamente ordinate, dalle forme più elementari fino agli organismi superiori, von Uexküll pone invece una infinita varietà di mondi percettivi, tutti ugualmente perfetti e collegati fra loro come in una gigantesca partitura musicale e, tuttavia, incomunicanti e reciprocamente esclusivi” (p. 45).

29 Martin Heidegger, op. cit., p. 331.

30 Giorgio Agamben, op. cit., p. 58.

31 Martin Heidegger, Lettera sull’umanismo, in Id., La dottrina di Platone sulla verità. Lettera sull’umanismo, tr. it. A cura di A. Bixio e G. Vattimo, Torino, SEI, 1975, p. 90 (corsivo mio).

32 Ivi.

33 Nei Grundbegriffe c’è un riferimento alla frase di S. Paolo (Romani VIII, 19) in cui si parla della “struggente attesa delle creature e del creato” (Martin Heidegger, Die Grundbegriffe, cit., p. 348). Per un differente commento al medesimo passo paolino, cfr. le stimolanti pagine di Giorgio Agamben in Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, p.44 sgg.. Per iniziare finalmente a pensare il rapporto tra animale e uomo, al di là di ogni riduttivismo così come di ogni dogmatismo metafisico, cfr. il saggio di Jacques Derrida, E se l’animale rispondesse (finte e tracce), in aut aut, n° 310-311, 2002, pp. 4-26.

34 Martin Heidegger, La cosa, in Id., Saggi e discorsi, tr. it. a cura di G. Vattimo, Milano, Mursia, 1976, pp. 109-124.

35 Ibidem, p. 110.

36 Martin Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, cit., p. 21 (corsivo mio).

37 Martin Heidegger, Perché i poeti? (1946), in Id., Sentieri interrotti (Holzwege), tr. it. a cura di P. Chiodi, Firenze, La Nuova Italia, 1977.

38 Martin Heidegger, Scienza e meditazione, in Saggi e discorsi, cit., p. 44. Cfr anche la conferenza su La cosa, cit.

39 Martin Heidegger, Costruire, abitare, pensare, in Saggi e discorsi, cit., pp.96-108.

40 Cfr. ad esempio Martin Heidegger, Filosofia e cibernetica, tr. it. a cura di A. Fabris, Pisa, ETS, 1989.

41 Cfr. Pekka Himanen, L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione, tr. it., Milano, Feltrinelli, 2001.

42 Sulla questione della “creatività” umana cfr., molto utilmente, Marco Mazzeo, Reperita iuvant: per una storia naturale della ripetizione, e Massimo De Carolis, La vita (non) è un gioco?, entrambi in L’azione innovativa: quando cambia una forma di vita, in Forme di vita, n° 2-3, 2004, rispettivamente alle pp. 50-71 e 39-49.

43 Sulla fenomenologia della risposta all’alterità vedasi Bernhard Waldenfels, Fenomenologia dell’estraneità, tr. it. a cura di G. Baptist, Napoli, Vivarium, 2002.

44 Nel suo importante volume (La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit.), De Carolis sostiene che, propria dell’uomo sia l’incapacità di separare nettamente i segnali ambientali dal rumore, trasformando continuamente quest’ultimo in una risorsa di senso. In tal modo, egli scrive, “la distinzione tra mondo e ambiente si presenta – più che come un confine ontologico tra l’uomo e le altre specie – come una differenza tra due modalità di elaborazione dell’informazione: una, in cui il flusso informativo è già selezionato in modo da distinguere il segnale dal rumore; l’altra, in cui questa selezione basilare deve ancora aver luogo e può quindi essere impostata, caso per caso, in modo sperimentale e provvisorio” (p. 56). Per quanto su argomentato, dovremmo, tuttavia, concludere che l’impoverimento di mondo di cui stiamo tentando di parlare, non esclude affatto che, all’interno del tecno-mondo, l’uomo continui ad essere caratterizzato dalla capacità di trasformare il “rumore” in “segnale”. Solo che, in tal caso, il “rumore” è tutto interno all’info-ambiente stesso e non ha a che fare col “fuori”. Ha a che fare con “differenze” possibili e non più con “alterità”. Ma, forse, già la scelta della coppia informazionale rumore-segnale, operata De Carolis, esclude a priori dal linguaggio la dimensione del “mostrare” e, quindi, il suo rapporto con il “fuori”.

45 Antonin Artaud, Per farla finita col giudizio di Dio, tr. it. a cura di M. Dotti, Roma, Stampa Alternativa, 2000, pp. 31-33. Per una introduzione generale al concetto artaudiano di “corpo-sensa-organi” vedasi l’antologia, A. Artaud, Cso: il corpo senz’organi, a cura di M. Dotti, Milano, Mimesis, 2003.

46 Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, tr. it. a cura di A. Fontana, Torino, Einaudi, 1975; Id., Come farsi un corpo senza organi?, Millepiani, II, tr. it., Roma, Castelvecchi, 1996.

47 Gilles Deleuze e Félix Guattari, Come farsi un corpo senza organi?, cit., p. 19-20.

48 Ibidem, p. 5.

49 “Perché questa lugubre schiera di corpi cuciti, vetrificati, catatonizzati, aspirati, dal momento che il CsO è anche pieno di gioia, di estasi, di danza? […] Dove la psicoanalisi dice: Fermatevi, ritrovate il vostro io, bisognerebbe dire: Andiamo ancora più lontano, non abbiamo ancora trovato il nostro CsO, non abbiamo ancora disfatto abbastanza il nostro io. Sostituite l’anamnesi con l’oblio, l’interpretazione con la sperimentazione. Trovate il vostro corpo senza organi, sappiatelo fare, è una questione di vita o di morta, di giovinezza e di vecchiaia, di tristezza e di allegria. Ed è qui che tutto si gioca” (Ibidem, p. 7).

50 Ibidem, p. 21-22.

51 Gilles Deleuze e Félix Guattari, Rizoma, tr. it., Parma-Lucca, Pratiche Editrice, 1977, p. 33.

52 Ivi.

53 Ibidem, p. 21.

54 “[…] Il vedere e poter-vedere dell’animale è una capacità, mentre il nostro poter-vedere possiede in definitiva un carattere di possibilità completamente diverso e un modo di essere completamente diverso” (Martin Heidegger, Grundbegriffe, cit., p. 296).

55 Ibidem, p. 293.

56 Ibidem, p. 295.

57 Henri Maldiney, Della transpassibilità, tr. it. a cura di F. Leoni, Milano, Mimesis, 2004, p. 55.

58 Su tali concetti cfr. Vincenzo Cuomo, Contingenza neuro-culturale e in-esperibilità della rete, in Arte o spettacolo?, a cura di Danila Bertasio, Torino, Franco Angeli, 2006 (in corso di stampa).

59 Gilles Deleuze e Félix Guattari, Rizoma, cit., p. 34. Sulla questione si permetta il rimando al mio saggio La vespa e l’orchidea. Cartografia della vita estetica a venire, in Media, corpi, saperi, a cura di Maria D’Ambrosio, Torino, Franco Angeli, 2006 (in corso di stampa).

60 Gilles Deleuze, Foucault, tr. it., Napoli, Cronopio, 2002, p. 173.

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