Indice del numero 6

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Il robot che viene dal freddo.

Čapek, Witkiewicz, gli automi, le masse


di Giuseppe Russo





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Costretti tra la Rivoluzione d’Ottobre e la nascita dei totalitarismi nazifascisti, gli anni Venti del XX secolo registrarono un ampliamento senza precedenti della riflessione intorno alle conseguenze da incubo della società di massa ed in particolare di alcune sue caratteristiche: la produzione industriale su vasta scala, la mobilitazione di piazza ed il culto della personalità, gli scenari del possibile futuro dopo regimi politico-sociali omnicomprensivi e caratterizzati dalla velleità di essere il capolinea della storia. Si possono ricordare alcune stazioni di questo percorso artistico e letterario, che ebbe dimensioni continentali: Ernst Toller ultimò la sua pièce Masse-Mensch nel 1921, e l’anno successivo ricevette un successo di poco inferiore con I distruttori di macchine (Die Maschinenstürmer); il manifesto surrealista di Breton (1924) individuò nella massificazione della cultura uno dei nemici privilegiati dell’individualismo creativo; Fritz Lang sgomentò il pubblico europeo con Metropolis nel 1926; Mejerchol’d mise in scena nel 1928, con uno straordinario impatto visivo, il mondo futuro, minerale e netto di ogni fattore umano de La cimice di Majakovskij.

In due tra i principali paesi slavi rinati dopo la Grande Guerra, la Cecoslovacchia e la Polonia, tali preoccupazioni ebbero occasione di venire elaborate in chiave letteraria da due autori molto diversi tra loro: un ex giornalista, Karel Čapek (1890-1938), incurabile ottimista, che amava i bar, le piazze della vecchia Praga e qualsiasi altro luogo di socializzazione; un ex fotografo nevrotico con velleità in tutti i campi dell’arte, Stanisław Ignacy Witkiewicz (1885-1939), estremista dello scetticismo, che amava solo se stesso e viveva nella certezza compiaciuta dell’incomprensione pubblica. Entrambi poco noti in Italia, molto più in Francia e nei paesi anglosassoni, questi due talenti notevolmente dissimili tra loro hanno fornito un contributo rilevante nell’elaborazione dell’immaginario novecentesco del “mondo dopo l’umano”, partendo da paure molto attuali per i loro tempi ma trattandole in qualità di scenari fabbricati pur sempre dall’uomo, perciò in ogni caso penetrabili dall’intelletto e richiudibili nel circuito della comprensione razionale. Si tratta, in realtà, di un procedimento logico abbastanza classico per la storia della cultura, analogo a quello adoperato da Ariosto o da Cervantes per consegnare all’incipiente società borghese due interpretazioni soggettive dell’intera civiltà dell’aristocrazia cavalleresca; solo che in questo caso l’oggetto dell’elaborazione riguarda piuttosto il futuro prossimo che non il passato, e di conseguenza il destinatario è il pubblico del presente (dell’epoca) molto più che la posterità.

Le due opere che qui maggiormente ci interessano sono R.U.R. (1920), lavoro di Čapek concepito come teatrale ed effettivamente rappresentato al Národní Divadlo di Praga l’anno seguente, e Nienasycenie (Insaziabilità, 1927) di Witkiewicz, romanzo-contenitore grondante di digressioni filosofiche e scientifiche, improvvise drammatizzazioni alla maniera tardo romantica, falsi apografi con funzione di disorientamento. Altri loro testi forniscono numerosi punti di contatto con queste due opere, in alcuni casi approfondendone ansie laterali, in altri rielaborandone angosce in sospensione, ma qui ci limiteremo all’essenziale.

Riassumiamo in poche parole le due trame. In R.U.R. un tipico scienziato pazzo è riuscito ad inventare degli automi per svolgere il pesante e ripetitivo lavoro di fabbrica al posto degli uomini. Il suo scopo sembra condivisibile: «volevo che nessuna anima si rincretinisse presso le macchine degli altri … volevo che l’uomo diventasse padrone»1; ma gli automi finiscono per sviluppare una propria volontà di potenza, emancipandosi dall’uomo, moltiplicandosi senza controllo ed infine rovesciando il rapporto servo-padrone in un conflitto che può essere considerato il primo esempio compiuto e maturo di science fiction caratterizzata dal tema della lotta tra uomini e robot, con svariati decenni di anticipo su Isaac Asimov o Michael Crichton. Vanno sottolineate due ulteriori circostanze: 1) durante il suo soggiorno in Inghilterra, nel 1924, Čapek conobbe H.G.Wells ed ebbe con lui numerosi colloqui amichevoli, ma l’autore inglese non gli sembrò molto moderno nella sua capacità creativa, ed infatti nelle Anglické Listy ne parla con un certo distacco, quasi con delusione; 2) dopo il fantasy, genere al quale appartiene anche il romanzo Krakatit (1924, inedito in Italia), Čapek mostrerà abilità notevoli anche nel poliziesco2, e tutto ciò quando nel suo Paese ancora non esistevano definizioni né per l’uno né per l’altro genere: erano semplicemente considerati čtená literatura (letteratura “letta”, di consumo), in opposizione alla narrativa psaná (“scritta”, ossia destinata a restare). Dunque, è legittimo considerarlo un autore pionieristico su entrambi questi fronti.

Nienasycenie è invece una sorta di parodia del Bildungsroman, nel quale un giovane “vitalista” – un po’ personaggio dannunziano e un po’ scemo del villaggio – tenta di non farsi coinvolgere da una sorta di rivoluzione centripeta che sta spingendo l’intera popolazione europea ad abbracciare una variante alquanto misteriosa e molto inebetente del comunismo, che ha come obiettivo di fondo quello di «imporre un mondo meccanizzato e asessuato»3, e che in Polonia giunge in ritardo solo perché in Polonia (eterno antemurale difensivo dell’Occidente) ogni cosa, secondo l’autore, arriva in ritardo. Ovviamente Genezyp, il protagonista della vicenda, data la sua scarsa consistenza psicologica, in opposizione diametrale alle sue velleità da improbabile Zarathustra decadente dell’Alta Slesia, sarà invece tra i primi a convertirsi alla nuova dottrina ingerendo volontariamente le “pillole di Murti Bing”, esotiche pasticche che provocano una sorta di disidratazione della mente in modo da agevolare il processo (pubblicamente vituperato, ma in realtà desiderato come atarassia risolutiva) di dissolvenza dell’individuo nell’organismo sociale, rimuovendo in un colpo solo tutti gli ostacoli cerebrali.

Lo scenario economico-sociale che in Čapek funge da motivo di incubo bisognoso di elaborazione è il capitalismo fordista per la produzione di massa, e la ragione dell’angoscia sta nella sua capacità di schiacciare l’individuo riducendolo ad animal laborans: un timore che negli anni Venti è maledettamente concreto e che Čapek in più occasioni accosterà (per dinamiche e per conseguenze) ai ritmi disumani della lavorazione industriale programmata dell’allora neonata Unione Sovietica, con la sua indifferenza per le ripercussioni in termini di costi umani pur di conseguire obiettivi fissati e ritenuti preziosi per la collettività, non certo per il singolo. Speculare a questo è lo spunto motore dell’angoscia elaborata in chiave letteraria da Witkiewicz: il comunismo inteso come sistema in grado di abolire le differenze individuali tra gli uomini e rendere l’omologazione totale un fenomeno irreversibile, in direzione di una completa automatizzazione della vita. Per iperbole, l’autore polacco preferisce spostare il baricentro del bolscevismo in Cina, paese evidentemente ritenuto più idoneo – forse per la sua doppia tradizione religiosa: confuciano-pecoresca per le masse, taoista-elitista per la classe dirigente – ad accelerare i tempi di accettazione di questa dottrina e di diffusione delle sue istituzioni politiche e sociali.

È proprio il caso di ricordare che, nel breve arco cronologico che separa le due opere, Fritz Lang realizza Metropolis (1926), circostanza che tutti gli studiosi amano ribadire per individuare relazioni e parentele, ma non c’è solo il regista austriaco. Nel 1924 era apparsa l’edizione inglese di Noi di Evgenij I. Zamjatin, di cui quattro anni dopo verrà pubblicato il testo originale russo su una rivista di emigrati sovietici a Praga: il romanzo – che presenta una società prossima ventura nella quale il collettivismo socialista ha raggiunto la perfezione, abolendo qualsiasi elemento di individualismo – costò l’esilio del suo autore e fu vietato sull’intero territorio sovietico. L’anno seguente (1929) il boemo Jan Weiss pubblicò Dům o tisíci patrech (La casa dai mille piani): storia di lavoratori persuasi da un dittatore a sottomettersi al suo potere come veri e propri schiavi, in cambio di improbabili viaggi astrali della cui realizzabilità essi si convincono solo grazie alla sua abilità oratoria. Dunque, sia la distopia allusiva da dissidente che la fantascienza a sfondo politico iniziano già alla fine degli anni Venti nell’Europa orientale ad ampliare il catalogo sfornato da Čapek e Witkiewicz, prima che gli occidentali si accorgano del loro valore e ne raccolgano la successiva eredità. Ma torniamo alle due opere qui scelte e misuriamone alcune differenze di struttura.

R.U.R., dall’autore definito “dramma collettivo in un prologo e tre atti”, deve rispettare scansioni narratologiche e temporali della messinscena teatrale; alcuni personaggi non sono affatto necessari ma rappresentano delle enfatizzazioni di singoli aspetti del problema trattato4; i features di Primus e di Helena esistono quasi unicamente per esigenze diegetiche, ossia in quanto destinatari della funzione di avvio di un nuovo genere umano successivo al superamento del conflitto uomo-macchina. Nienasycenie può invece spaziare liberamente tra generi letterari e suggestioni estetiche, e lo fa in maniera incessante, anche contraddicendo alcuni nessi logici tra gli avvenimenti, ed in ciò anticipando soluzioni più o meno analoghe rese poi celebri da Witold Gombrowicz, autore della generazione successiva. Ma diversi, come già accennato, sono soprattutto i caratteri dei due autori, che provocano atteggiamenti quasi opposti di fronte a questo timore della scomparsa della soggettività: Čapek teme l’imminenza del pericolo perché crede ancora molto nell’uomo e nelle sue capacità di opporsi ai cambiamenti indesiderati5, Witkiewicz pensa invece che non valga nemmeno la pena domandarsi cosa ci sarà dopo l’umano perché il suo pessimismo lo induce a sostenere che si tratterà in ogni caso di qualcosa in linea con la mediocrità, «questo tratto caratteristico della nostra epoca»6 rispetto al quale tutti i sistemi sembrano ai suoi occhi equivalersi (vsë ravnò, «è tutto lo stesso», dice il suo narratore onnisciente più volte, e sempre in russo, la lingua del nemico).

L’essenziale è tuttavia in comune: l’angoscia per la possibile scomparsa della soggettività, che in Čapek genera uno struggle for life con un epilogo relativamente felice (che diventa ancor più evidente e forse sempliciotto in Krakatit, fino a raggiungere soluzioni carnevalesche e francamente deprecabili nel romanzo Továrna na Absolutno), mentre in Witkiewicz è semplicemente proposta come ormai già in fieri, poiché il suo pessimismo è tale da convincerlo del fatto che l’uomo tenda spontaneamente a rinunciare ai tratti di differenza dalle macchine, e dunque presenta questo bolscevismo ideale come una dottrina accettata con gioia. Inesorabilmente attaccato al pensiero positivo fino a rasentare il terreno scivoloso dei luoghi comuni, Čapek non ha mai avuti molti dubbi sulla vanità di certi eccessi ideologici di fronte alle leggi cicliche della Storia. Per lui è semplicemente impensabile che la vita continui realmente senza l’uomo, con qualche altra cosa al posto dell’uomo, con un nuovo tipo (non umano) di soggetto. «Natura, natura, la vita non perisce! (…) Saranno demolite le case e le macchine, s’infrangeranno i sistemi e i nomi dei grandi cadranno come foglie, e soltanto tu, amore, fiorirai sul cumulo delle rovine e affiderai ai venti il seme della vita»7, fa dire all’ingegner Alquist nel monologo conclusivo di R.U.R., indicando la nuova coppia adamitica cui è affidato il compito di riavviare la storia umana. Il robotico, il macchinale, sono pertanto considerate solo delle stazioni particolarmente appariscenti lungo un percorso che, in fondo, è sempre lo stesso dall’età della pietra: potranno vincere singole battaglie, non vinceranno mai la guerra.

Per natura incline al tragico, Witkiewicz non poteva invece fare a meno di vivere sulla propria persona i fattori patogeni dai quali tentava vanamente di liberarsi attraverso la scrittura: si tolse la vita il 18 settembre 1939 alla notizia dell’invasione della Polonia da parte dell’Armata Rossa, due settimane dopo l’ingresso della Wehrmacht da Occidente e dieci giorni prima della capitolazione di Varsavia. Anche Čapek visse con terrore autentico il dispiegamento del potere nazista, al quale dedicò un’altra opera di science fiction ricca di allusioni politiche, Válka s mloky8 (1936), ma una malattia gli risparmiò per poche settimane la vista del suolo natale occupato dalle panzer divisioni.

In comune ai due autori vi è anche l’interrogazione più o meno implicita su come sia possibile il fascino del dittatore sulle moltitudini, fenomeno che rappresenta forse il primo motivo logico di premura (o, come nel caso di Witkiewicz, vero e proprio disprezzo) nei confronti della massa. Come questione di rilevanza filosofico-politica, sappiamo bene che saranno soprattutto gli intellettuali del secondo dopoguerra ad elaborare teorie convincenti, fino alla poco classificabile riflessione di Canetti; ma già negli anni Venti e Trenta questo argomento provoca pruriti in non pochi cervelli, sovrapponendosi ad una certa incredulità per determinate manifestazioni del fenomeno, allora in pieno svolgimento. Questo problema è immediatamente collegato all’oggetto della nostra trattazione: gli individui che rinunciano così facilmente alla propria soggettività per diventare tessere di un illimitato mosaico collettivo – e che nel farlo sembrano perfettamente a proprio agio, come se non rinunciassero a nulla – sono da ritenersi ancora appartenenti alla concezione occidentale dell’homo-animal-rationale o fanno già parte di un dopo? Gli automi più o meno meccanizzati che fanno la loro prima apparizione nella letteratura e nella cinematografia di questi due decenni, sono davvero fantascienza o hanno già fatto il loro ingresso nel reale?

L’autore boemo stenta a prendere una posizione chiara sull’argomento, affrontandolo piuttosto dall’alto, ossia in termini di opposizione tra piani logici: se ancora esiste tra gli uomini la frònesis (virtù dianoetica per eccellenza, nella sua visione del mondo) allora non è possibile il trionfo dell’irrazionale, alimento principale del sistema totalitario. «Chiunque fabbrichi una verità, proibisce tutte le altre verità», polemizza un Giuseppe di Arimatea rivisitato in chiave aristotelica nei confronti del dispotico governatore romano della Giudea nel racconto Il credo di Pilato, presente nella Kniha Apokrifů (stesura presumibilmente risalente al 1935). E continua con un esempio concreto: «Come se un falegname che facesse una nuova sedia, vietasse di sedersi sulle altre sedie che qualcuno ha fatto prima di lui. Come se, per il fatto che si fa una nuova sedia, dovessero essere abolite tutte le vecchie sedie»9. A parte una certa ingenuità dell’argomentazione, è evidente che nell’orizzonte čapkiano ancora alla metà degli anni Trenta il popolo non è diventato massa novecentesca: può svolgere quel ruolo per un periodo, ammaliato dalla destrezza recitativa del dittatore di turno, ma prima o poi rinsavisce e si dimostra migliore dell’oppressore. Già nel 1923, durante il suo viaggio in Italia, Čapek aveva osservato le folle che animavano le strade di Roma e di Napoli e, pur non condividendone certi comportamenti teatrali, aveva trovato conferme alla sua concezione: che si adatti a qualche rivoluzione o che vi resista, «il popolo infine torna spontaneamente e istintivamente alle proprie radici e si rigenera da se stesso»10. Dopo il 1935, tuttavia, questa fiducia nel popolo autocefalo sparirà e fino alla morte dello scrittore non se ne troverà più traccia.

Molto più spregiudicato ed iconoclasta, Witkiewicz sostiene invece una posizione che anticipa in modo lineare l’analisi di tanti studiosi futuri del totalitarismo, e che sembra molto più avanzata di quella che sosterrà pochi anni dopo Wilhelm Reich nella sua Psicologia di massa del fascismo (1933). In un momento di totale sincerità, il suo protagonista pensa a voce alta: «Che infernale voluttà avere un capo; poter credere in qualcuno al di sopra di se stessi e di ogni cosa! (…) essere un atomo della sua potenza, una fibrilla di un suo fascio muscolare. E nel fondo, un sentimento vile: scaricarsi di ogni responsabilità!»11. Hannah Arendt ha solo vent’anni quando l’autore polacco giunge a formulare una simile affermazione; Canetti ne ha ventuno. È che per Witkiewicz il pericolo del post-umano rappresenta ormai una faccenda della vita quotidiana, e solo il suo disprezzo per l’uomo forgiato dalla modernità gli fa preferire non interrogarsi più di tanto sulle dinamiche della sua realizzazione storica, della sua diffusione nella società per trasformazione anziché per sostituzione12, come invece accadrà in epoca postbellica, soprattutto in àmbito cinematografico (vedi la facoltà mimetica dei Body Snatchers oppure la dimensione epica di I, robot) e nella narrativa della science fiction più comune.

Eppure, paradossi della storia, è proprio Čapek a inventare la parola «robot», mentre Witkiewicz è uno dei primi ad utilizzarla come se fosse un termine di uso corrente. R.U.R. infatti, ora possiamo chiarirlo, significa Rossum’s Universal Robots, ossia “fabbrica di robot universali Rossum”, dove “rossum” è una sorta di eponimo che può far pensare al nome del fondatore dell’industria, ma in realtà è solo una grafia parzialmente alternativa di “rozum”, ossia “intelletto”; dunque: automi dotati di una forma di intelligenza. Per convenzione internazionalmente riconosciuta si ritiene che sia stato proprio Čapek a coniare il termine “robot”, utilizzando un tema verbale interslavo perduto: robit (“fare”, in senso concreto, come nel tedesco machen), da cui provengono il polacco robić (“fare”), l’ucraino robyty (stesso significato) e il russo robotat’ (“lavorare”, nel senso di “faticare”, forse basato sulla consonanza col tedesco arbeiten). Probabilmente l’autore boemo scelse questo semema per il suo neologismo, perché ai primi del Novecento era ancora in uso il termine robota, che indicava una prestazione di lavoro obbligata e pesante analoga alla corvée romanza, ma su questo non c’è la certezza. È invece fuori discussione che il termine robot, come ha dimostrato per primo Otakar Vočadlo, «entrò nelle lingue occidentali [proprio] dopo il successo londinese di R.U.R. (1923)»13. Appena quattro anni dopo quell’allestimento, Witkiewicz la usa due volte nella stessa pagina, senza avvertire la necessità di precisarne o rammentarne il significato14.

Data la nascita in ambiente praghese, numerosi studiosi hanno approfondito l’analisi della filiazione ideale del robot čapkiano dalla leggenda del Golem e di Rabbi Loew. L’argomento in questa sede non è pertinente e perciò non lo affronteremo, ma c’è un particolare che è stato rilevato da molti e che sembra invece interessante nonché opportuno. La creazione del Golem, appartenendo a pieno titolo a quella tradizione magico-cabbalistica che si propone di scimmiottare l’opera di Dio attraverso l’uso della parola, è un evento “uno a uno”: un singolo mago dà vita ad un singolo Golem, che rimane singolo fino alla sua distruzione, per analogia con la creazione di Adamo da parte di Jahwè. I robot immaginati da Čapek, al contrario, nascono già plurali, sono subito una moltitudine in produzione industriale (il luogo in cui vengono assemblati è una fabbrica); rappresentano perciò un evento “uno a molti”, ed il loro numero – già rilevante fin dall’inizio, ma destinato a crescere a dismisura quando, per esigenze di intreccio, si emancipano dall’uomo e possono autofabbricarsi – è il primo elemento di angoscia per i loro creatori. Allo stesso tempo, la loro moltiplicazione rapida e non arrestabile suggerisce immediatamente l’analogia con la massa dei regimi totalitari, con le folle delle adunate e delle marce ritmate, e dunque va ad alimentare la credibilità di questa creazione come prodotto caratteristico dell’immaginazione artistica (dalla pagina scritta alla soluzione cinematografica) degli anni Venti e Trenta.

La successiva riflessione sulla robotica non avrà difficoltà a proseguire l’indagine anche sul piano filosofico, e lo stesso Heidegger – in una conferenza del 1965 dedicata, nella prima metà, proprio a questa problematica – sosterrà senza traumi che, esattamente con l’affermazione progressiva della cibernetica, «nasce l’idea di determinare la libertà dell’uomo come qualcosa di pianificato, cioè di controllabile. Giacché, anche per la società industriale solamente la cibernetica sembra concedere all’uomo la possibilità di abitare in quel mondo tecnico che s’impone in modo sempre più deciso»15. Sicché, anche in questa ramificazione del pensiero dell’autore di Sein und Zeit è possibile individuare le tracce dello sconvolgimento culturale determinato più o meno direttamente dai due autori che qui abbiamo voluto ricordare, la cui eredità è stata dunque rilevante.




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1 K. Čapek, R.U.R. e L’affare Makropulos, ediz. ital. a cura di Angelo Maria Ripellino, Torino, Einaudi 1971, pag. 59.

2 In Italia è infatti noto soprattutto per i Racconti da una tasca e i Racconti dall’altra tasca, raccolte pubblicate entrambe nel 1929, sviluppate in una prospettiva di falsa detective story ma che in realtà inaugurano articolazioni umoristico-allusive del poliziesco alla Gaboriau.

3 S.I. Witkiewicz, Insaziabilità, a cura di Pietro Marchesano et alii, Milano, Garzanti 1978², pag. 428. Questa edizione è in realtà una riproposizione della De Donato del 1970, a tutt’oggi unica traduzione italiana del romanzo.

4 Alcuni hanno per nome delle crasi di definizioni comuni: c’è un Busman (da “businness-man”), un Alquist (sciarada interlinguistica tra il latino “aliquis” e il ceco “alchymist”), un Fabry che sembra proprio un calco aggettivale singolare maschile di “faber”, etc.

5 In una lettera alla moglie, parzialmente riportata in appendice all’edizione italiana, scrive: «Volevo mettere in guardia contro la produzione di massa e gli slogans disumanati, e a un tratto mi strinse l’angoscia che un giorno sarà [proprio] così, forse presto, che ormai non servirà a nulla il mio avvertimento»: cfr. R.U.R. e L’affare Makropulos, ed. cit., pag. 176.

6 Cfr. S.I. Witkiewicz, Insaziabilità, ed. cit., pag. 329.

7 K. Čapek, R.U.R., ed. cit. pag. 89.

8 Trad. ital.: K. Čapek, La guerra delle salamandre, a cura del grande slavista Bruno Meriggi, Roma, Editori Riuniti 1961. A parte i riferimenti più o meno palesi al cuore della dottrina nazista nel sistema di sostituzione industrializzata dell’umano con il militare (direi quasi: con il numerico), anche il rumore agghiacciante nella sua ritmica ripetitività che fanno le salamandre quando escono dalle acque per combattere i resistenti è un’evidente allusione del calpestìo cadenzato degli stivaloni della Wehrmacht.

9 K. Čapek, Il libro degli apocrifi, ediz. ital. a cura di Luisa De Nardis, Roma, Editori Riuniti 1989, pag. 77.

10 K. Čapek, Fogli italiani, ediz. ital. a cura di Daniela Gallo, Palermo, Sellerio 1992, pag. 84.

11 S.I. Witkiewicz, Insaziabilità, ed. cit., pag. 310.

12 In Nienasycenie, infatti, sono gli uomini che, per contagio mentale accelerato dall’ingestione delle suddette “pillole di Murti Bing”, diventano robot; l’automa non è una cosa altra rispetto all’umano, né come forma alternativa né tanto meno in qualità di replicante. Dunque non c’è frattura ontologica tra l’uomo e la macchina.

13 Cit. da A.M. Ripellino in: K. Čapek, R.U.R., ed. cit. pag. 173, n.4.

14 Nell’edizione qui usata come riferimento, la doppia voce è a pag. 221.

15 M. Heidegger, Filosofia e Cibernetica, ediz ital. a cura di Adriano Fabris, Pisa, ETS 1989, pag. 35. Tra l’altro, il curatore dell’edizione italiana (cfr. pag. 10) ricorda come Norbert Wiener, il padre del termine “cibernetica” (guida, controllo delle informazioni), ammise di aver pensato a questa parola nel 1948 partendo dal sostantivo greco kubernétes (timoniere), verosimilmente passato attraverso la corruzione latina governor. Potere di guida sulle masse tramite il controllo delle informazioni, limitazione predeterminata delle libertà dell’uomo, erosione delle differenze individuali, occupazione dello spazio residuo tra gli individui da parte della tecnica. E così il cerchio si chiude.





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