numero 7
KAINOS
Emergenze

2007

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fame / sazietà


EMERGENZE

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Secolarizzazione e fame[*]

di Emmanuel Levinas

(Università di Parigi)



Giuseppe rispose loro: non abbiate paura, sono io forse al posto di Dio? Voi certo avete pensato di fare del male contro di me; ma Dio ha pensato di convertirlo in bene, per fare quello che oggi vedete, per conservare in vita un gran popolo …

Genesi, 50, 19-20


La mistica richiede la meccanica …

Henri Bergson, Le due fonti della morale e della religione


Il riso è la sparizione della materia. Ridendo, non siamo semplicemente scrollati, ma talvolta voliamo, siamo trasportati, saltiamo al di fuori del nostro corpo, evaporiamo e forse addirittura per un istante usciamo dalla nostra anima …

Ridendo ci sradichiamo dal luogo in cui siamo – ci slanciamo … Tutto ciò che non è assoluto è ridicolo. Là dove si dà misura e peso, peccato e sangue, il Revisore non mancherà di venire. Dirà: questo non esiste! Questo è un inganno! Seguitemi! Avete compreso?!

Abram Terz (Siniavski), All’ombra di Gogol(Testo russo, pp. 180-182)



I. Il cielo stellato

La trascendenza significa etimologicamente un movimento di traversata (trans), ma anche di ascesa (scando): essa esprime un doppio sforzo: di scavalcare il vuoto dell’intervallo e di scavalcarlo elevandosi, cambiando livello. A voler pensare questo movimento nel suo significato letterale di cambiamento di luogo – prima di ogni metafora di cui, forse, traccia il modello – si capirà come abbia potuto assumere il tratto dello stra-ordinario, dell’immediatamente sovra-naturale. In un’epoca in cui ogni movimento verso l’alto è limitato dalle linee delle cime montuose, i corpi celesti sono assolutamente intangibili. Stelle fisse – o che percorrono traiettorie determinate, schemi per atti di identificazione – questi corpi si offrono allo sguardo e disegnano così, per la vista, un firmamento di qualcosa che resta inaccessibile, denominato il cielo.

Questo cielo richiede uno sguardo altro rispetto a quello di una visione che, già mira o intenzione, procede dal bisogno, è una caccia alle cose. Questo cielo richiede occhi purificati da ogni bramosia, uno sguardo altro che non quello degli animali ragionevoli o astuti, sguardi di cacciatori precursori del movimento in cui si intercalerà, tra l’avvicinamento e la morsa, la presa in mano e la messa in riserva e, così, il sequestro, l’acquisizione. Gli occhi volti verso le stelle si separano dal corpo in cui sono impiantati. In questa separazione si disfa la complicità dell’occhio e della mano, ordita da una qualche fame, e più antica e più forte nella sua trama naturale, innata, che non le nostre distinzioni tra il conoscere e il fare.

Lo sguardo che si eleva verso il cielo incontra il sacro. L’intoccabile è il nome di una Impossibilità, prima di essere quello di un Interdetto. L’intervallo che si estende tra il cielo e l’uomo – insuperabile per il movimento e attraversato dalla visione – è la trascendenza. Scalata impossibile, ma relazione o deferenza che, per l’uomo, è immediatamente meraviglia e culto: stupore davanti alla stra-ordinaria interruzione dell’altezza da parte di uno spazio che resta chiuso al movimento e alla manomissione. L’altezza delle stelle assume la solennità del Superiore. Assolta dal va e vieni terrestre, essa si dice divina. La trascendenza spaziale di questo sguardo è letteralmente idolatria. In che misura tutte le forme del numinoso – nelle loro innumerevoli variazioni o inversioni – derivano da questa idolatria originaria? Lo spazio cosmico, per essere pieno di dei, non ha bisogno di retro-mondi.

Sotto l’agitazione in cui si dibatte l’epithemeticon, sotto i movimenti empirici e gli arresti dei movimenti che esso comanda, sotto gli spostamenti verso la mira in cui l’occhio, tradendo la sua bramosia, anticipa soltanto sul gesto della mano, sotto tutta questa corsa incessante alle cose – la volta del cielo dalle stelle fisse o dalle stelle che ritornano su se stesse in traiettorie cicliche, conferma la quiete imperturbabile della terra ferma. Questa quiete regna: verso l’autorità stessa del Sovrano si leva dal fondo delle pupille meravigliate, rimettendosi alle stelle di una fedeltà anteriore ad ogni giuramento, la religione. Quiete nella sua enfasi di regno, ordinato nella luce degli astri che non illuminano solamente, ma, brillando, si mostrano, si rendono divinità visibili e, facendosi normativi, esaltano il dominare stesso delle norme: l’eccellenza della Superba, la gerarchia, l’ordine stabilito da sempre, il luogo naturale e inalienabile che lo straniero non disturba, che esclude commercio e novità.

Aristotele (Metafisica, I, 982 b 15-20) ha creduto di cogliere nell’ammirazione che suscita la raccolta del meraviglioso nei miti lo stupore in cui, per lui come per Platone, incomincia il sapere filosofico. Ma egli ha interpretato lo stupore come il riconoscimento di una ignoranza da parte di se stessa, facendo così derivare il sapere già dall’amore del sapere; rifiutando così al sapere ogni origine a partire dalle difficoltà pratiche della vita agitata sulla terra e del commercio tra gli uomini, a partire dalle difficoltà, quali che siano, della mano impigliata nella materia che essa modella o degli uomini che non riescono a comunicare tra di loro.

Il regno della quiete astronomica in cui risplende l’intangibile non è forse fin da allora, nella sua meraviglia, l’aspettativa del sapere da parte dell’ignoranza che lo vuole e lo intuisce, vale a dire la premessa, o una delle premesse del razionalismo dell’Occidente? Questo assoggettamento prima di ogni giuramento non è forse, nella sua dimensione immemorabile – più antica di ogni storia e di ogni pre-istoria – il segreto dell’a priori dell’identità, il segreto dell’intelligibilità del Medesimo, ancora ignorata in quell’antichità che precede le categorie della sintesi del giudizio, alle quali questo regno è già necessario e in cui Kant – che ha rivolto la sua attenzione alle strutture analitiche della logica formale – ha saputo distinguerle? Il sapere dell’Occidente non è forse la secolarizzazione di un’idolatria? Nella rottura straordinaria della trascendenza che è l’idolatria, la quiete della terra sotto la volta del cielo non finisce forse per prefigurare il regno del Medesimo? Nella meraviglia dell’idolatria lo stupore è la confessione che fa l’ignoranza del sapere di cui dubita e che identifica l’identico. Nascita della Ragione: di quell’inglobamento che abbraccia l’universo facendone un universo, della comprensione che raccoglie il diverso – del pensiero. Nascita del pensiero al prezzo di un restringimento che riunisce in un punto il volume del corpo umano. Non proietterà più alcuna ombra sulla terra che, fino ad allora, calpestava, e tutto avverrà come se gli occhi stupiti, che trascendono l’altezza, non avessero più in loro alcuna cavità. Punto presto chiamato unità dell’appercezione trascendentale, fissato non si sa dove, o unità del concetto collocata nello spazio stesso che comprende. Fino al giorno in cui questo restringimento non sarà denunciato come scandalo o empietà che non lasciano più all’uomo, un tempo piantato sulla sua terra, né polmoni, né alcuno spazio respirabile. Ma non ci si domanderà affatto se un’altra trascendenza non si annunci in questa fine dell’idolatria, se non si disegni alcuno spazio sociale per compensare nella natura pensata e oggettivata la perdita del luogo inalienabile.

Come che sia, la contemplazione passa dal suo significato etimologico, che è ieratico, al suo senso ovvio che è quello dell’intuizione e della conoscenza: dallo stupore alla filosofia, dall’idolatria alla razionalità o all’ateismo. Nella fissità astronomica si dispiegano le “gesta” immanenti e il regno (e il reame) dell’essere, Quiete o positività, ostensione nel sapere, sulla superficie piana del tema, indifferenza nei confronti dell’altezza, e come una presenza sulla vetrina di un’esposizione: essere della presenza che ricomincia, dappertutto la stessa, che ricomincia dal Medesimo, essere in quanto essere, come l’atto della quiete sotto le specie dell’identificazione, che apre alla sua opera di atto a mo’ di rap-presentazione di enti da parte di uno spirito. Essere in quanto essere che avviene in questa identificazione stessa, essere in quanto essere che è il suo essere attraverso la sua intelligibilità, e dunque essere che è secondo l’ontologia. Indifferenza, nella sua positività tematica, rispetto ad ogni altezza insuperabile, ad ogni cielo, ad ogni trascendenza. Il cosmo che assicurava tutta questa quiete si mostra, esso stesso, nel tema. Platone già si fa beffe, nella Repubblica, di Glaucone che crede ancora all’altezza del cielo.

Il soggetto della rappresentazione è anch’egli sottomesso al regno dell’essere, appartiene al suo reame. Regno dell’essere che non è stato esposto qui, come dato empirico. Il richiamo all’altezza del cielo non mirava, né sarebbe bastato, a demistificare o a de-costruire la trascendenza (e l’ontologia che la secolarizza) riducendola a questi e quegli stati di fatto, vestigia di un periodo passato in cui i viaggi intersiderali non potevano neanche essere immaginati. La rivoluzione di questo periodo e la secolarizzazione della trascendenza idolatra in un mondo in cui regna la quiete metterà in risalto, come ogni rivoluzione, significati del non ancora compiutamente passato.[1] La trascendenza dell’idolatria trasparirà nel sapere al quale essa avrà apportato il disinteresse della teoria, la serenità del pensiero ricercata invano dai fenomenologi e dagli psicologi nei soli recessi della coscienza pratica dell’uomo che sembrava, cronologicamente e di per sé, essere la prima; coscienza pratica legata al conatus essendi dal quale non sarà escluso, a nessun titolo, l’umano. Ma d’altra parte, che la trascendenza idolatra, in un mondo in quiete, sia uno stato di fatto è una verità incontestabile, senza che ci sia alcuna riduzione possibile di questo fatto ad un “dato dell’esperienza”. Si tratta del “già fatto” della stabilità, è lo stato o lo statuto già compiuto e passato rispetto ad ogni esperienza come tale. Nelle gesta dell’essere, ormai pensate e comprese – da un pensiero e una comprensione che appartengono essi stessi a queste gesta – questo passato è la positività dell’oggettivamente dato in cui acquistano solamente senso, fondamento e pre-supposizione – termini questi che evocano l’architettura degli edifici poggiati sulle loro basi – i modelli di razionalità nella nostra tradizione occidentale.[2]


II. La Secolarizzazione

Ma la secolarizzazione della trascendenza che diviene il Medesimo dell’Essere non trova nello stupore che la sua possibilità. Affinché il sapere esca effettivamente dallo stupore, affinché l’ignoranza si sia effettivamente riconosciuta come tale, affinché la trascendenza dell’idolatria si riducesse alla serenità del sapere, affinché l’essere avvenisse in quanto essere, occorreva così che la luce del cielo rischiarasse l’astuzia e l’industria degli uomini.

La luce – di cui lo sguardo ammira il fuoco celeste – è la stessa che rischiara gli occhi che si volgono verso il dato. La lucentezza delle stelle e del sole non diventa forse un fuoco rapito al cielo? Questi occhi con la loro innata bramosia – questi occhi che prendono la mira e percepiscono – questi occhi astuti di cacciatori avranno appreso la pazienza contemplando il cielo che ricopre col suo cappello stellato il più imperturbabile dei terreni, il più fondamentale – la terra; questi occhi si fanno sguardo industrioso. La grande quiete dell’essere, la positività delle cose, la verità del sapere ben si addicono all’intervallo necessario tra la visione e l’acquisizione e la consumazione dei nutrimenti terrestri, ma anche alla loro comprensione e al loro scambio. Ciò che conta nella storia del sapere razionale e tecnico non è l’innalzamento dalla preoccupazione alla teoria impassibile, né la nascita dell’atto nella serenità speculativa. La bramosia dello sguardo e la curiosità del desiderio – è già il dominio immemorabile di Messer Gaster! Ciò che conta è la pazienza del concetto a partire dalla secolarizzazione dell’idolatria.

Giacché esiste un’affinità tra la secolarizzazione dell’idolatria che diventa ontologia ovvero questa filosofia prima elaborata dai Greci che segnerà il destino dell’Occidente in cui nacquero le scienze esatte – che nessuna civiltà umana potrebbe ricusare e che ciascuna sembrava attendere come il proprio destino – tra questa intelligibilità del Cosmo, dove spirito equivale a conoscenza, e la correlazione sapere-essere, rappresentazione e presenza, che si misurano l’un l’altro e si eguagliano, si verificano reciprocamente – affinità tra l’ontologia e il buon senso pratico degli uomini inquieti per la fame, che si procurano le cose, percepiscono, uomini chiamati a prendere prima di consumare e così ad acquisire e ad immagazzinare, a starsene in casa, presso di sé, e a costruire, e ad assicurarsi della presenza delle cose e a rappresentarsele e, di argomento in argomento, ad accedere alle fonti stesse della luce celeste che un giorno si ridurranno alla loro essenza fisico-chimica. La genialità della Grecia è la saggezza delle nazioni. Ogni relazione pratica con il mondo è rappresentazione o si fonda su una rappresentazione, e il mondo rappresentato è economico. C’è una universalità della vita economica che lo apre all’universalità della logica e dell’essere. Esiste una replica terrestre al gesto materialista di Prometeo. L’umanismo viene da una umanità affamata ed universale malgrado le varietà di ciò che chiamiamo le culture. Messer Gaster è il primo maestro d’arti del mondo.

Ma gli uomini avranno appreso nella trascendenza delle stelle a far pazientare gli appetiti e a trarre le loro tecniche dal fondo delle teorie. La Grecia non sarà stata che il punto in cui questa affinità sarà diventata congiunzione riconosciuta nella definizione di una animalità ragionevole.

Allo stesso modo nulla è più comprensibile agli uomini che la civiltà occidentale con le sue matematiche e le sue tecniche e il suo ateismo o la secolarizzazione rispetto agli dei visibili – civiltà assimilabile dalla saggezza delle nazioni – valori europei assolutamente esportabili! Questi sono assimilabili dagli uomini senza eccezioni, quali che siano stati gli smarrimenti dell’idolatria originaria che è servita a dar loro civiltà, mitologia e costumi e che non hanno saputo secolarizzare.

Affinità tra Prometeo e Messer Gaster? Quest’ultimo risulta innanzitutto semplicemente una parte dell’anima – quella bassa, l’inferiore; diventerà poi la soggettività intera, ma sarà consacrato primo maestro d’arti del mondo, ben prima del materialismo ufficiale. Fonte dell’Umanità e della Ragione, fine dell’animalità e della bestialità! Ratto del fuoco celeste da parte dell’uno o dell’altro? Ma l’idolatria della trascendenza si fa geometria, astronomia e balistica celeste, la luce si fa chimica dell’intangibile, la contemplazione ricerca della verità in cui, in maniera generale, il dato risulta colmare la mira dello sguardo – il che poi diventa un’identificazione. Così moriranno gli dei visibili. E, come per celebrare con un rito questa morte, i viaggi intersiderali toccheranno nei misteri del cielo stellato rocce ormai fredde o le fotograferanno in fusione.


III. Le tecniche

Nessuno è così folle da disconoscere le contraddizioni e gli errori di calcolo della tecnica, i suoi pericoli micidiali e il nuovo asservimento e le mitologie che minaccia di alimentare e l’inquinamento che ne risulta e che avvelena, nel senso più proprio del termine, perfino l’aria che respiriamo. Ma il bilancio dei profitti e delle perdite che si profila non si regge, a dire il vero, su alcun principio rigoroso di contabilità. Le contraddizioni messe in evidenza possono non significare altro che una dialettica incompiuta, la denuncia delle mitologie[3] che genera l’età della tecnica e che ne comprometterebbe il preteso razionalismo si fonda su nozioni puramente formali del mito e del sacro,[4] il che non basta al giusto apprezzamento dei danni che i nuovi idoli comporterebbero, a nostra insaputa, per l’emancipazione umana. La condanna della tecnica – diffusa peraltro nell’opinione pubblica grazie a tutti i perfezionamenti nella tecnica della divulgazione – è diventata, anch’essa, una retorica confortevole, dimentica delle responsabilità alle quali chiama un’umanità sempre più numerosa “in via di sviluppo” e che, senza lo sviluppo della tecnica non si saprebbe più come nutrire.

Ora la tecnica, in quanto secolarizzazione, conta: essa distrugge gli dei pagani e la loro falsa e crudele trascendenza. Grazie ad essa alcuni dèi – più che Dio – sono morti; alcune potenze misteriose degli elementi nelle profondità del mondo o dell’Anima inducono al riso nonostante la loro fierezza o il loro segreto – il che, per un mistero così come per un dio, equivale alla morte: divinità dell’orgoglio e del dominio, divinità della congiunzione astrale e del fatum, divinità della terra e del sangue, inalterabili come la traiettoria dei corpi celesti – divinità locali e divinità del luogo e del paesaggio dei territori imperturbabili, tutte queste divinità che “in basso sulla terra o nelle acque al di sotto della terra”, nelle acque chete – che rovinano i ponti! – al di sotto della coscienza, riflettono o ripetono, nell’angoscia o nel terrore, gli dei visibili dei cieli. Non è alla leggera, senza dubbio, se tra tutte le caratterizzazioni del paganesimo proprio l’adorazione delle “milizie celesti” assume nella Bibbia la funzione della denominazione più propria. In questo senso la tecnica che li spoglia della loro divinità, che ci insegna – attraverso il potere che ci dà sul mondo – che queste divinità sono del mondo, vale a dire cose e che le cose non sono, dopotutto, un granché, che c’è dell’inganno nella loro resistenza ed oggettività e del marcio nel loro splendore, che occorre piuttosto riderne che non piangere davanti a loro, la tecnica secolarizzatrice si colloca tra i progressi dello spirito umano ovvero, più esattamente, giustifica o definisce l’idea stessa di progresso ed è indispensabile a questo spirito, anche se non ne è affatto la fine.


IV. L’altra trascendenza

Ma il senso pratico degli uomini che, in un mondo in quiete, pensano positivamente, a partire dall’essere e riportano ogni significato alla posizione – vale a dire alla positività del mondo in cui si trova un dato da prendere, il pane quotidiano, dei beni da accumulare, da mettere in deposito come riserva o da esporre come mercanzie – la saggezza universale delle nazioni si riduce forse agli effetti dell’empirica congiuntura tra l’organismo indigente dell’uomo e la contingente apparizione di una animalità ragionevole? L’empiria animale dell’umano non è forse anch’essa il bagliore delle “gesta” dell’essere che conducono tutti gli esseri? Bagliore in cui si apre una breccia o una fessura – un esito o qualcosa di simile, poco importa! – ma una direzione verso l’aldilà di un altro Dio? Si sono misurate le profondità della fame? Profondità in cui, certamente, a prima vista, il Medesimo non cerca che di confermare la sua identità, in cui l’essere-mondo pone fine ai giochi senza regole né poste in gioco, alla libertà affrancata dalle sue conseguenze – in cui il Me umano si tende su se stesso e, sordo al linguaggio (“ventre affamato non ha orecchie”) si chiude ad ogni serenità, ossia ad ogni ideologia rassicurante, a ogni equilibrio che non sarebbe poi che quello della totalità. La fame è di per sé il bisogno o la privazione[5] costitutiva – se così si può dire – della materialità e della grande franchezza della materia. Ma privazione la cui acutezza consiste nel disperare di questa stessa privazione e nel non potersi consolare di un mondo “spiritualmente ordinato” in cui gli storici – dei passati reali o utopici – trovano dei miserabili saziati dall’odore degli arrosti, paghi del suono delle monete e consolati dalla coscienza che ebbero dell’armonia d’insieme del corpo sociale e della perfetta definizione del loro statuto. La fame, che nessuna musica placa, secolarizza tutta questa eternità romantica. Privazione la cui acutezza consiste nel disperare di questa stessa privazione, abbiamo detto: non si può descrivere la disperazione come uno stato. È un ricominciare incessante della fame che si dibatte contro la stessa superficie di pietra, testa picchiata contro un muro, ma come se si affidasse ad un qualche rovescio del Nulla. Appello senza orazione. Né visione e neppure prospettiva, né tematizzazione, né interpellanza. Certamente. Ma come una versione pre-intenzionale, come una deportazione fuori del cosmo: preghiera pre-orazionale, richiesta o mendicità. Senza alcuna posizione o affermazione – questione; questione senza dati; questione che non è neanche posizione di una tale questione, questione aldilà, ma non verso un qualche retro-mondo; questione nell’oscillazione dei termini di un’alternativa – ambiguità della morte o di Dio. Questione irriducibile semplicemente ad una modalità problematica verso la quale sarebbe derivata qualche doxa assertoria o apodittica. Para-dossale, si dibatte nella profondità della sua interessenza. La trascendenza è così un fuori non-spaziale, come un bagliore, nel cuore del Medesimo, della questione all’Altro e sull’altro, secondo un questionare che precede ogni ontologia. La secolarizzazione attraverso la fame è una questione su Dio e a Dio, ma perciò meno e più che un’esperienza. Non riceve infatti forse alcuna risposta, se non qualcosa come un’eco enigmatica, vale a dire ambigua della questione stessa? Non si tratta certo con questo di rendere soggettiva la trascendenza, ma di stupirsi della soggettività in cui l’elemento metafisico si svolge o si involge, della soggettività come il modo stesso del metafisico.

Messer Gaster non regna senza riserve. Tra tutti gli appetiti nei quali si afferma il conatus essendi, la persistenza nel proprio essere dell’essere di quaggiù, l’interessenza, la fame è stranamente sensibile, nel nostro mondo secolarizzato e tecnico, alla fame dell’altro uomo. Tutti i valori sono usati, tranne quello. La fame d’altri risveglia gli uomini dalla loro sonnolenza di satolli e fa loro passare la sbornia del sussiego. La nuova trascendenza è il rifiuto di credere a una pace in altri a causa di un’armonia qualsiasi nella totalità; la certezza che nulla può ingannare la fame dell’altro uomo.

Non ci si stupisce abbastanza, a proposito del termine banale della compassione, della forza del transfert che va dal ricordo della mia stessa fame alla sofferenza e alla responsabilità per la fame del prossimo. Non ci si stupisce abbastanza dell’unicità stessa del me – traccia di un impossibile sottrarsi e, così, dell’inaccessibile responsabilità – che individua ancora colui che, sazio, non comprende affatto l’affamato. Non smette, in effetti, di sottrarsi alla sua responsabilità senza sfuggire a sé, vale a dire alla sua singolarità di enigma. Ma nella possibilità che ho di abbandonare il concetto edificante del Me e di essere, alla prima persona, il primo a cedere il passo, a smettere d’esser me, la vita trattiene il respiro e la sua vitalità di “forza che va” per preoccuparsi del sordo messaggio che proviene dall’aldilà dell’essere nella questione stessa che andò verso di esso.


(Traduzione dal francese di Gabriella Baptist)