numero 7
KAINOS 
Recensioni

2007

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fame / sazietà


RECENSIONI

Luca Colombo, Fame. Produzione di cibo e sovranità alimentare
Milano, Jaca Book, 2002, EAN 9788816405912, Euro 14,50



Luca Colombo, nel libro Fame. Produzione di cibo e sovranità alimentare, compie una necessaria operazione di chiarezza su quella che può essere considerata la più aspra e amara contraddizione del nostro tempo. Colombo, membro del Consiglio Direttivo del Comitato Italiano per la Sovranità Alimentare e suo rappresentante nei negoziati con la FAO, fa innanzitutto piazza pulita da un punto di vista terminologico: la fame non è quella causata dalle carestie o da altre cause contingenti ingovernabili; se di carestia si tratta, sarà semmai carestia strutturale, carenza permanente di cibo e di alimentazione adeguata, riconducibili al sottosviluppo economico, al deficit democratico, all’insufficienza di capacità produttiva e di infrastrutture, e alla povertà. Per Colombo, occorre liberarsi del fardello emotivo delle immagini dei bambini denutriti delle emergenze alimentari; questa chiave emotiva, anche se associata all’idea di solidarietà e diffusa nella dimensione mediatica, contiene un potenziale tasso di inquinamento intellettuale. Il libro concentra invece la sua analisi sui meccanismi e sulle dinamiche che meno vistosamente rendono vulnerabili centinaia di milioni di persone. Non bisogna allora parlare di fame, ma di insicurezza alimentare; la sicurezza alimentare, che comprende i due concetti connessi, meglio espressi dalla lingua inglese, di food security e food safety, indica i problemi legati ai fabbisogni alimentari e quelli connessi alla qualità e salubrità del cibo.

Non si tratta, ovviamente, solo di purismo terminologico. Occorre restituire la problematica della sicurezza alimentare all’ambito dei diritti umani, con l’obiettivo di perseguire la sovranità alimentare, un concetto che implica questioni legate alla democrazia e alla partecipazione, il diritto delle popolazioni e dei paesi a determinare le loro politiche agricole e alimentari, le questioni del commercio, i prezzi, il dumping, ecc.. All’interno di queste coordinate, si comprende allora come il concetto di sicurezza (security) alimentare, diffusosi negli anni ’70 e riaffermato dal World Food Council della FAO nel 1983 e dal Vertice Mondiale sull’Alimentazione di Roma nel 1996, debba essere declinato in termini di diritto (entitlement) all’alimentazione. Come dice il Premio Nobel per l’Economia Amartya Sen, «la fame è il risultato del non avere abbastanza da mangiare, […] non […] del non esserci abbastanza da mangiare». In quest’ottica, la lotta contro la povertà e per la democrazia economica è pertanto l’unica strategia possibile per conseguire concretamente la sicurezza alimentare.

Colombo sgombera il campo dalle illusioni malthusiane che nel ‘700 hanno messo in rapporto causale crescita demografica e fame. In realtà, la produzione agricola mondiale è cresciuta sino ad oggi ad un ritmo superiore all’incremento demografico. Il paradosso attuale è quello della fame in un mondo di abbondanza, e questo paradosso è presente almeno a partire dagli anni ’30 del XX secolo. La sicurezza alimentare si può raggiungere soltanto mediante un complesso insieme di fattori che devono integrarsi per garantire l’adeguatezza dell’accesso al cibo. L’accesso al cibo viene definito come quantità, varietà, composizione nutrizionale (presenza di elementi nutritivi essenziali), sanità (assenza di tossicità o contaminazione), qualità organolettica e rispetto delle convinzioni culturali e religiose.

Presupposto di qualsiasi politica e programma che abbia come obiettivo la lotta alla fame non può che essere la sostenibilità in agricoltura, vale a dire lottare contro la disponibilità limitata di terra, la desertificazione del suolo, risolvere i problemi connessi all’irrigazione, all’intervento chimico spregiudicato e relativi fenomeni di resistenza ai pesticidi da parte dei parassiti e della scomparsa dei loro antagonisti naturali. L’indus­­­­trializzazione dell’agricoltura costituisce infatti un esempio di come i sistemi ecologici vengano ormai forzati ad una maggiore produttività. La pratica della monosuccessione colturale (vale a dire la pratica di coltivare solo una specie, spesso una sola varietà, su grandi estensioni, con avvicendamenti stretti di poche colture) determina il pullulare delle popolazioni fitofaghe; la diversità delle specie e le loro interconnessioni risultano fortemente ridotte, e l’omeostasi, ossia l’equilibrio ecologico, tende ormai a scomparire, richiedendo un intervento umano sempre più massiccio e costante.

L’agroecologia diviene quindi il fondamento della sicurezza alimentare; si tratta di un’agricoltura basata sull’uso integrato di diverse tecnologie e pratiche per la gestione delle malattie delle piante, dei nutrienti del suolo e dell’acqua, in un contesto in cui vengono favoriti i processi naturali ed in cui i residui di un’attività diventano un apporto per quelle successive. Si tratta di un approccio basato sulla diversificazione colturale degli agroecosistemi, in grado di migliorare lo sfruttamento delle risorse e di avvalersi del controllo esercitato dai meccanismi omeostatici naturali.

Ma non è stato questo il modo in cui è avvenuta la modernizzazione agricola del Sud del mondo. La cosiddetta “Rivoluzione Verde” (il pacchetto tecnologico elaborato dal GGIAR - Consultative Group on International Agricultural Research, un pool intergovernativo di Centri di ricerca agricola), ha dettato una strategia di incremento della produttività e della redditività delle produzioni agricole basata sull’introduzione della meccanizzazione, su varietà di colture ad alta resa, su sistemi di irrigazione e sulla chimica della fertilizzazione e del controllo dei parassiti. Il risultato è stato spettacolare dal punto di vista produttivo, ma ha causato un’elevata problematica ambientale, costi finanziari crescenti negli anni, la marginalizzazione dei contadini che non potevano o non volevano usufruire del “pacchetto tecnologico”, e la progressiva dipendenza da risorse esogene da parte delle comunità agricole e degli stati poveri.

L’«affaire biotecnologico» si inserisce in questo contesto. La FAO, già nei documenti preparatori al Summit Mondiale per l’Alimentazione (WFS), ha introdotto l’idea di una seconda Rivoluzione Verde basata sulle biotecnologie e indirizzata verso le regioni a maggiore potenziale produttivo, nelle quali gli incrementi marginali sarebbero più ampi, sacrificando le aree marginali. Dalle biotecnologie, però, la sicurezza alimentare ha tutto da temere, sia nel senso della security che della safety: la sicurezza sanitaria può essere compromessa a causa della tossicità, allergenicità e alterazione della persistenza agli antibiotici, mentre l’accesso al cibo può essere leso dal cambiamento della natura, struttura e titolarità dei sistemi produttivi. La concentrazione societaria della ricerca e diffusione delle colture transgeniche, e la detenzione dei brevetti nelle mani di poche compagnie statunitensi ed europee, rappresentano un altro serio pericolo per la sicurezza alimentare, già fortemente minacciata dall’iniquità e dalla concentrazione dell’offerta alimentare, non dalla scarsità in valore assoluto della sua produzione. La maggior parte delle colture transgeniche (tutte commodities di interesse industriale quotate alla Borsa di Chicago: mais, soia, colza e cotone) vengono ormai coltivate al 98% in tre soli paesi (USA, Canada e Argentina). Queste colture sono basate su varietà biotecnologiche che riproducono semi sterili inutilizzabili per la successiva semina, o che sono resistenti a determinati tipi di trattamenti chimici prodotti dalle stesse società biotecnologiche; gli agricoltori sono quindi costretti a riacquistare nuovi semi transgenici e sostanze chimiche da queste società del settore privato presenti nei paesi industrializzati. La preoccupazione per il diffondersi delle colture transgeniche non ha per oggetto soltanto i timori per gli effetti imprevisti a lungo termine delle modificazione genetiche o per la scomparsa della varietà dal paniere alimentare. Come si è verificato in passato, forme rustiche di alcune specie si sono rivelate determinanti per risolvere pericolosi attacchi parassitari. Solo per fornire alcuni esempi, un solo gene di orzo etiope protegge dal virus del nanismo una quantità di orzo californiano pari al valore di 160 milioni di dollari; il gene di una vecchia specie di grano della Turchia, altamente resistente alle malattie, o una pianta perenne del Messico simile al mais, è resistente a sette gravi patologie e ad alta adattabilità ai suoli marginali, ha permesso il risparmio di 4,4 miliardi di dollari di trattamenti pesticidi su frumento e granturco con le quali sono state incrociate, senza ricorso alle biotecnologie.

La biodiversità è quindi il cardine dell’agricoltura sostenibile e della sicurezza alimentare del pianeta, ed è uno strumento di stabilità e di potenziale ricchezza; l’integrazione dei piani colturali delle specie “minori” gioca un ruolo cruciale sotto il profilo tecnico, sociale ed etnologico.

Analizzando la dialettica città-campagna alla luce della sostenibilità, Colombo spiega come per i consumatori urbani, che cercano nelle pietanze anche delle valenze extranutritive, gli alimenti hanno ormai una provenienza «aliena e spesso oscura». In passato – ma ciò è sempre valido per quanto accade tuttora nelle periferie rurali del pianeta – l’agricoltura era fondata sui vincoli ecologici. Con lo sviluppo della mobilità delle merci e delle informazioni, e con l’egemonia mediatica nelle mani del capitale produttivo, la relazione tra territorio agricolo e consumo alimentare è cambiata, come sono mutate le dinamiche manipolative dei bisogni di massa e della propensione all’acquisto. Se prima il “buono da coltivare” determinava il “buono da mangiare”, ora il “buono da vendere” è il principio propulsore in base al quale si definisce il “buono da pensare” e il “buono da mangiare”. È l’industrializzazione del cibo, il «circuito lungo» della sua produzione e del suo consumo; ecco cos’è, nel suo hard core, la globalizzazione: un processo di mercificazione cui si stanno piegando le relazioni internazionali e il rapporto fra l’uomo e l’ambiente. Il vecchio legame tra città e campagna viene stravolto; sono gli uomini a spostarsi, non solo gli alimenti, dalla campagna alla città, e la fame assume connotazioni sempre più urbane. Nei cosiddetti paesi in via di sviluppo, l’utilizzo di cereali “grossolani” come sorgo e miglio viene sempre più abbandonato in favore del riso e, successivamente, di prodotti carnei e a base di frumento, materie prime generalmente manipolate dall’industria, le cui importazioni sono aumentate nel corso degli ultimi anni. È la cosiddetta “rivoluzione zootecnica”, con la concentrazione in poche mani dell’offerta dei alimenti zootecnici e l’aumento della domanda di cereali per la mangimistica: un chilo di peso vivo di un bovino richiede 8 chili di cereali, uno di suino 4 e uno di pollo o pesce allevato 2. Il caso del mais è emblematico: grandi compagnie di intermediazione di materie prime agricole pubblicizzano la propria attività in nome della lotta alla fame nel mondo; ma se si analizza la destinazione complessiva della produzione statunitense di mais ci si accorge che il 75% viene convertito in carne negli stessi USA, e che il 20% viene esportato in paesi che possono acquistarla, a scapito dei paesi poveri. Lo stesso aiuto alimentare spesso assume il ruolo di grimaldello, grazie al quale è stata scardinata la natura delle abitudini alimentari (nei paesi ricchi questo è già avvenuto) e delle relazioni commerciali.

Sul fronte del commercio internazionale, la volatilità e l’instabilità dei prezzi mondiali del cibo, l’aggravamento dei termini di scambio e l’elevata concentrazione dei mercati agricoli nelle mani di pochi soggetti non sono un buon presupposto per il raggiungimento della sicurezza alimentare. Nel 1995 si sono create le condizioni perché il mercato potesse assumere un ruolo centrale nelle politiche agroalimentari internazionali: sotto la spinta di Stati Uniti e altri paesi fortemente esportatori di materie prime agricole, il varo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) e dell’Accordo sull’Agricoltura (AoA) ha portato anche l’inserimento a pieno titolo dell’agricoltura nei processi di liberalizzazione mondiale, dalla quale era in precedenza esclusa. L’analisi di Colombo giunge alla conclusione che per i paesi più poveri del mondo la liberalizzazione in campo agricolo ha avuto un impatto negativo: pochi paesi hanno migliorato le proprie esportazioni, sono aumentate le importazioni alimentari, le aziende agricole sono sempre più concentrate, con conseguente aumento di produttività e competitività, ma anche con la marginalizzazione dei piccoli coltivatori e l’aumento della disoccupazione e della povertà. Il passaggio da un’agricoltura di sussistenza a un’agricoltura per l’esportazione, vecchio retaggio coloniale, ha retto bene alla decolonizzazione: in Kenia, ad esempio, nella regione del lago di Naivasha la coltivazione di fiori per l’esportazione priva la popolazione locale dell’acqua potabile e per l’irrigazione di prodotti di sussistenza.

Colombo lascia la conclusione all’ex ministro per l’Agricoltura francese Edgard Pisani: «si può affidare un bene strategico come l’alimentazione al mercato? […] Parlare di sicurezza alimentare significa passare dall’economia alla politica e prendere atto che il mercato non assicura l’equa distribuzione delle derrate, la politica non è pertanto chiamata a contestare il mercato, ma ad esercitare una funzione di garante che quello non assicura» (p. 108). Colombo afferma però che nonostante queste riflessioni, nessun negoziatore governativo al WTO può onestamente affermare che il problema della fame sia al centro della sua battaglia. La maggioranza di coloro che sono afflitti dalla persistente insicurezza alimentare non ha infatti i mezzi necessari per esercitare una domanda soddisfacente di beni alimentari in un mercato “libero”.

Il libro di Colombo sposa quindi la tesi già largamente sostenuta da ampi settori della cooperazione non governativa internazionale: gli alimenti e l’agricoltura dovrebbero nuovamente uscire dall’ambito di applicazione della disciplina del WTO. Per molte organizzazioni non governative, dopo lo scacco di Seattle, questo obiettivo è diventato raggiungibile, mentre altre ritengono che sia preferibile restare su un terreno più minimalista e pragmatico, puntando a negoziazioni su singoli aspetti e capitoli dell’AoA.

Condizioni di accesso al cibo, compatibilità ecologica dei sistemi di produzione e consumo, salvaguardia di un modello agricolo fondato sul modo di produrre contadino (in cui l’unità familiare di produzione corrisponde all’unità di consumo, e in cui non conta tanto la massimizzazione dei profitti quanto la capacità di riprodurre nel tempo la propria capacità di generazione di reddito e di sussistenza) diventano quindi cruciali per la sicurezza alimentare locale e globale, molto più dell’aiuto alimentare, che invece tende sempre più ad aumentare, a svantaggio dei programmi e progetti di sviluppo. Questa dinamica si spiega con un uso strumentale e subdolo dell’aiuto alimentare. Sul lato della produzione, l’aiuto dipende fortemente dal saldo commerciale agricolo dei paesi esportatori, che vi vedono un’utile chiave di regolazione o condizionamento del mercato internazionale; l’aiuto sarà quindi ancorato alle condizioni dell’offerta, piuttosto che a quelle della domanda. Sul piano del consumo, il cibo disponibile con gli aiuti alimentari raggiunge con maggiore facilità la popolazione urbana, e meno nelle aree rurali, dove risiede la maggior parte della popolazione afflitta da insicurezza alimentare.

Fra le pieghe della globalizzazione e della ristrutturazione economica emergono, secondo Colombo, nuove opportunità di costruire alleanze fra settori marginalizzati all’interno del mondo agricolo e altre espressioni del mondo del lavoro e della società civile come le organizzazioni di solidarietà internazionale. Il concetto chiave su cui si confrontano i nuovi movimenti popolari parte dal bisogno di politiche fondate sul bene comune. Una serie di principi base costituisce la piattaforma su cui questi movimenti e le organizzazioni non governative si confrontano ormai da tempo: diritto all’alimentazione (concetto che supera la semplice identificazione con la sicurezza alimentare, assume il significato di disponibilità di prodotti e consente di cogliere le relazioni sociali esistenti tra individui e alimenti), sostenibilità alimentare, partecipazione popolare e, soprattutto, sovranità alimentare. Quest’ultimo concetto implica il controllo decentrato sulle politiche produttive e distributive; l’esercizio di questa sovranità richiede poi autonomia politica ed economica per impostare politiche che recepiscano le specificità agricole ed ambientali dei territori e quelle sociali e culturali delle popolazioni.

L’aspetto più interessante nel libro di Colombo è quello di considerare la “lotta alla fame” non come la soddisfazione di un semplice bisogno primario, ma come l’«esigenza di dare risposta a un diritto umano fondamentale» (pag. 26). La questione non è trascurabile: la semplice attenzione ai bisogni e alla loro soddisfazione non permette che se ne affrontino e rimuovano le cause. Se i bisogni vengono catalogati secondo gerarchie di priorità può accadere – come di fatto accade – che la sicurezza alimentare, senza dubbio una priorità, possa andare a scapito di altre esigenze, come quelle educative, di alloggio, ecc.. In questo modo, si ricade nell’ambito delle soluzioni caritatevoli. Ma, come ebbe a dire già Kant più di due secoli fa, «la carità è oscena in una prospettiva di diritti umani».

Il libro di Colombo mantiene fede all’intento iniziale di non soccombere all’emotività della questione che affronta, e costituisce uno dei tentativi meglio riusciti di penetrarne le dinamiche e i sottostanti meccanismi tecnici, politici ed economici. Si tratta di un livello analitico essenziale alla comprensione del problema, e la puntualità e il livello di approfondimento con cui questo studio viene condotto sono rari da trovare. L’analisi è l’unico modo in cui è possibile fare chiarezza nell’epoca della cosiddetta “complessità”: con precisione, dovizia di dati quantitativi, rigoroso utilizzo delle fonti. In tempi dominati dalla “scomparsa dei fatti”, questo è confortante. Individuare a partire da questa chiarezza narrazioni capaci di far presa sulla reale e concreta volontà di individuare soluzioni praticabili non è però compito dell’analista; qui saremmo nell’ambito della politica nel senso elevato del termine. L’agire politico, troppo occupato nella governance del capitale, ma in realtà dominato da quest’ultimo, non sembra tuttavia accorgersene.

Alain Badiou o Frederic Jameson sostengono che non è la conoscenza dei meccanismi del capitalismo a fare difetto, ma che il vero problema è trovare nuove forme della politica. Altri, come Slavoj Žižek, ritengono che le conoscenza di come funzioni il capitalismo non sia poi così profonda, e che domande tipo «Come funziona oggi lo sfruttamento?» restano sempre attuali (cfr. Filippo Del Lucchese – Jason Smith, “La brutalità della violenza è segno di impotenza”, intervista a Slavoj Žižek, il manifesto, 10 aprile 2007, p. 12). L’analisi è quindi sempre necessaria, ma è anche vero che la politica, almeno senso della rappresentanza, sia giunta al capolinea, e che solo massicce dosi di democrazia diretta e partecipativa, unitamente a una maggiore consapevolezza, possono salvare la crisi che ormai investe

Luca Colombo, nel libro Fame. Produzione di cibo e sovranità alimentare, compie una necessaria operazione di chiarezza su quella che può essere considerata la più aspra e amara contraddizione del nostro tempo. Colombo, membro del Consiglio Direttivo del Comitato Italiano per la Sovranità Alimentare e suo rappresentante nei negoziati con la FAO, fa innanzitutto piazza pulita da un punto di vista terminologico: la fame non è quella causata dalle carestie o da altre cause contingenti ingovernabili; se di carestia si tratta, sarà semmai carestia strutturale, carenza permanente di cibo e di alimentazione adeguata, riconducibili al sottosviluppo economico, al deficit democratico, all’insufficienza di capacità produttiva e di infrastrutture, e alla povertà. Per Colombo, occorre liberarsi del fardello emotivo delle immagini dei bambini denutriti delle emergenze alimentari; questa chiave emotiva, anche se associata all’idea di solidarietà e diffusa nella dimensione mediatica, contiene un potenziale tasso di inquinamento intellettuale. Il libro concentra invece la sua analisi sui meccanismi e sulle dinamiche che meno vistosamente rendono vulnerabili centinaia di milioni di persone. Non bisogna allora parlare di fame, ma di insicurezza alimentare; la sicurezza alimentare, che comprende i due concetti connessi, meglio espressi dalla lingua inglese, di food security e food safety, indica i problemi legati ai fabbisogni alimentari e quelli connessi alla qualità e salubrità del cibo.

Non si tratta, ovviamente, solo di purismo terminologico. Occorre restituire la problematica della sicurezza alimentare all’ambito dei diritti umani, con l’obiettivo di perseguire la sovranità alimentare, un concetto che implica questioni legate alla democrazia e alla partecipazione, il diritto delle popolazioni e dei paesi a determinare le loro politiche agricole e alimentari, le questioni del commercio, i prezzi, il dumping, ecc.. All’interno di queste coordinate, si comprende allora come il concetto di sicurezza (security) alimentare, diffusosi negli anni ’70 e riaffermato dal World Food Council della FAO nel 1983 e dal Vertice Mondiale sull’Alimentazione di Roma nel 1996, debba essere declinato in termini di diritto (entitlement) all’alimentazione. Come dice il Premio Nobel per l’Economia Amartya Sen, «la fame è il risultato del non avere abbastanza da mangiare, […] non […] del non esserci abbastanza da mangiare». In quest’ottica, la lotta contro la povertà e per la democrazia economica è pertanto l’unica strategia possibile per conseguire concretamente la sicurezza alimentare.

Colombo sgombera il campo dalle illusioni malthusiane che nel ‘700 hanno messo in rapporto causale crescita demografica e fame. In realtà, la produzione agricola mondiale è cresciuta sino ad oggi ad un ritmo superiore all’incremento demografico. Il paradosso attuale è quello della fame in un mondo di abbondanza, e questo paradosso è presente almeno a partire dagli anni ’30 del XX secolo. La sicurezza alimentare si può raggiungere soltanto mediante un complesso insieme di fattori che devono integrarsi per garantire l’adeguatezza dell’accesso al cibo. L’accesso al cibo viene definito come quantità, varietà, composizione nutrizionale (presenza di elementi nutritivi essenziali), sanità (assenza di tossicità o contaminazione), qualità organolettica e rispetto delle convinzioni culturali e religiose.

Presupposto di qualsiasi politica e programma che abbia come obiettivo la lotta alla fame non può che essere la sostenibilità in agricoltura, vale a dire lottare contro la disponibilità limitata di terra, la desertificazione del suolo, risolvere i problemi connessi all’irrigazione, all’intervento chimico spregiudicato e relativi fenomeni di resistenza ai pesticidi da parte dei parassiti e della scomparsa dei loro antagonisti naturali. L’indus­­­­trializzazione dell’agricoltura costituisce infatti un esempio di come i sistemi ecologici vengano ormai forzati ad una maggiore produttività. La pratica della monosuccessione colturale (vale a dire la pratica di coltivare solo una specie, spesso una sola varietà, su grandi estensioni, con avvicendamenti stretti di poche colture) determina il pullulare delle popolazioni fitofaghe; la diversità delle specie e le loro interconnessioni risultano fortemente ridotte, e l’omeostasi, ossia l’equilibrio ecologico, tende ormai a scomparire, richiedendo un intervento umano sempre più massiccio e costante.

L’agroecologia diviene quindi il fondamento della sicurezza alimentare; si tratta di un’agricoltura basata sull’uso integrato di diverse tecnologie e pratiche per la gestione delle malattie delle piante, dei nutrienti del suolo e dell’acqua, in un contesto in cui vengono favoriti i processi naturali ed in cui i residui di un’attività diventano un apporto per quelle successive. Si tratta di un approccio basato sulla diversificazione colturale degli agroecosistemi, in grado di migliorare lo sfruttamento delle risorse e di avvalersi del controllo esercitato dai meccanismi omeostatici naturali.

Ma non è stato questo il modo in cui è avvenuta la modernizzazione agricola del Sud del mondo. La cosiddetta “Rivoluzione Verde” (il pacchetto tecnologico elaborato dal GGIAR - Consultative Group on International Agricultural Research, un pool intergovernativo di Centri di ricerca agricola), ha dettato una strategia di incremento della produttività e della redditività delle produzioni agricole basata sull’introduzione della meccanizzazione, su varietà di colture ad alta resa, su sistemi di irrigazione e sulla chimica della fertilizzazione e del controllo dei parassiti. Il risultato è stato spettacolare dal punto di vista produttivo, ma ha causato un’elevata problematica ambientale, costi finanziari crescenti negli anni, la marginalizzazione dei contadini che non potevano o non volevano usufruire del “pacchetto tecnologico”, e la progressiva dipendenza da risorse esogene da parte delle comunità agricole e degli stati poveri.

L’«affaire biotecnologico» si inserisce in questo contesto. La FAO, già nei documenti preparatori al Summit Mondiale per l’Alimentazione (WFS), ha introdotto l’idea di una seconda Rivoluzione Verde basata sulle biotecnologie e indirizzata verso le regioni a maggiore potenziale produttivo, nelle quali gli incrementi marginali sarebbero più ampi, sacrificando le aree marginali. Dalle biotecnologie, però, la sicurezza alimentare ha tutto da temere, sia nel senso della security che della safety: la sicurezza sanitaria può essere compromessa a causa della tossicità, allergenicità e alterazione della persistenza agli antibiotici, mentre l’accesso al cibo può essere leso dal cambiamento della natura, struttura e titolarità dei sistemi produttivi. La concentrazione societaria della ricerca e diffusione delle colture transgeniche, e la detenzione dei brevetti nelle mani di poche compagnie statunitensi ed europee, rappresentano un altro serio pericolo per la sicurezza alimentare, già fortemente minacciata dall’iniquità e dalla concentrazione dell’offerta alimentare, non dalla scarsità in valore assoluto della sua produzione. La maggior parte delle colture transgeniche (tutte commodities di interesse industriale quotate alla Borsa di Chicago: mais, soia, colza e cotone) vengono ormai coltivate al 98% in tre soli paesi (USA, Canada e Argentina). Queste colture sono basate su varietà biotecnologiche che riproducono semi sterili inutilizzabili per la successiva semina, o che sono resistenti a determinati tipi di trattamenti chimici prodotti dalle stesse società biotecnologiche; gli agricoltori sono quindi costretti a riacquistare nuovi semi transgenici e sostanze chimiche da queste società del settore privato presenti nei paesi industrializzati. La preoccupazione per il diffondersi delle colture transgeniche non ha per oggetto soltanto i timori per gli effetti imprevisti a lungo termine delle modificazione genetiche o per la scomparsa della varietà dal paniere alimentare. Come si è verificato in passato, forme rustiche di alcune specie si sono rivelate determinanti per risolvere pericolosi attacchi parassitari. Solo per fornire alcuni esempi, un solo gene di orzo etiope protegge dal virus del nanismo una quantità di orzo californiano pari al valore di 160 milioni di dollari; il gene di una vecchia specie di grano della Turchia, altamente resistente alle malattie, o una pianta perenne del Messico simile al mais, è resistente a sette gravi patologie e ad alta adattabilità ai suoli marginali, ha permesso il risparmio di 4,4 miliardi di dollari di trattamenti pesticidi su frumento e granturco con le quali sono state incrociate, senza ricorso alle biotecnologie.

La biodiversità è quindi il cardine dell’agricoltura sostenibile e della sicurezza alimentare del pianeta, ed è uno strumento di stabilità e di potenziale ricchezza; l’integrazione dei piani colturali delle specie “minori” gioca un ruolo cruciale sotto il profilo tecnico, sociale ed etnologico.

Analizzando la dialettica città-campagna alla luce della sostenibilità, Colombo spiega come per i consumatori urbani, che cercano nelle pietanze anche delle valenze extranutritive, gli alimenti hanno ormai una provenienza «aliena e spesso oscura». In passato – ma ciò è sempre valido per quanto accade tuttora nelle periferie rurali del pianeta – l’agricoltura era fondata sui vincoli ecologici. Con lo sviluppo della mobilità delle merci e delle informazioni, e con l’egemonia mediatica nelle mani del capitale produttivo, la relazione tra territorio agricolo e consumo alimentare è cambiata, come sono mutate le dinamiche manipolative dei bisogni di massa e della propensione all’acquisto. Se prima il “buono da coltivare” determinava il “buono da mangiare”, ora il “buono da vendere” è il principio propulsore in base al quale si definisce il “buono da pensare” e il “buono da mangiare”. È l’industrializzazione del cibo, il «circuito lungo» della sua produzione e del suo consumo; ecco cos’è, nel suo hard core, la globalizzazione: un processo di mercificazione cui si stanno piegando le relazioni internazionali e il rapporto fra l’uomo e l’ambiente. Il vecchio legame tra città e campagna viene stravolto; sono gli uomini a spostarsi, non solo gli alimenti, dalla campagna alla città, e la fame assume connotazioni sempre più urbane. Nei cosiddetti paesi in via di sviluppo, l’utilizzo di cereali “grossolani” come sorgo e miglio viene sempre più abbandonato in favore del riso e, successivamente, di prodotti carnei e a base di frumento, materie prime generalmente manipolate dall’industria, le cui importazioni sono aumentate nel corso degli ultimi anni. È la cosiddetta “rivoluzione zootecnica”, con la concentrazione in poche mani dell’offerta dei alimenti zootecnici e l’aumento della domanda di cereali per la mangimistica: un chilo di peso vivo di un bovino richiede 8 chili di cereali, uno di suino 4 e uno di pollo o pesce allevato 2. Il caso del mais è emblematico: grandi compagnie di intermediazione di materie prime agricole pubblicizzano la propria attività in nome della lotta alla fame nel mondo; ma se si analizza la destinazione complessiva della produzione statunitense di mais ci si accorge che il 75% viene convertito in carne negli stessi USA, e che il 20% viene esportato in paesi che possono acquistarla, a scapito dei paesi poveri. Lo stesso aiuto alimentare spesso assume il ruolo di grimaldello, grazie al quale è stata scardinata la natura delle abitudini alimentari (nei paesi ricchi questo è già avvenuto) e delle relazioni commerciali.

Sul fronte del commercio internazionale, la volatilità e l’instabilità dei prezzi mondiali del cibo, l’aggravamento dei termini di scambio e l’elevata concentrazione dei mercati agricoli nelle mani di pochi soggetti non sono un buon presupposto per il raggiungimento della sicurezza alimentare. Nel 1995 si sono create le condizioni perché il mercato potesse assumere un ruolo centrale nelle politiche agroalimentari internazionali: sotto la spinta di Stati Uniti e altri paesi fortemente esportatori di materie prime agricole, il varo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) e dell’Accordo sull’Agricoltura (AoA) ha portato anche l’inserimento a pieno titolo dell’agricoltura nei processi di liberalizzazione mondiale, dalla quale era in precedenza esclusa. L’analisi di Colombo giunge alla conclusione che per i paesi più poveri del mondo la liberalizzazione in campo agricolo ha avuto un impatto negativo: pochi paesi hanno migliorato le proprie esportazioni, sono aumentate le importazioni alimentari, le aziende agricole sono sempre più concentrate, con conseguente aumento di produttività e competitività, ma anche con la marginalizzazione dei piccoli coltivatori e l’aumento della disoccupazione e della povertà. Il passaggio da un’agricoltura di sussistenza a un’agricoltura per l’esportazione, vecchio retaggio coloniale, ha retto bene alla decolonizzazione: in Kenia, ad esempio, nella regione del lago di Naivasha la coltivazione di fiori per l’esportazione priva la popolazione locale dell’acqua potabile e per l’irrigazione di prodotti di sussistenza.

Colombo lascia la conclusione all’ex ministro per l’Agricoltura francese Edgard Pisani: «si può affidare un bene strategico come l’alimentazione al mercato? […] Parlare di sicurezza alimentare significa passare dall’economia alla politica e prendere atto che il mercato non assicura l’equa distribuzione delle derrate, la politica non è pertanto chiamata a contestare il mercato, ma ad esercitare una funzione di garante che quello non assicura» (p. 108). Colombo afferma però che nonostante queste riflessioni, nessun negoziatore governativo al WTO può onestamente affermare che il problema della fame sia al centro della sua battaglia. La maggioranza di coloro che sono afflitti dalla persistente insicurezza alimentare non ha infatti i mezzi necessari per esercitare una domanda soddisfacente di beni alimentari in un mercato “libero”.

Il libro di Colombo sposa quindi la tesi già largamente sostenuta da ampi settori della cooperazione non governativa internazionale: gli alimenti e l’agricoltura dovrebbero nuovamente uscire dall’ambito di applicazione della disciplina del WTO. Per molte organizzazioni non governative, dopo lo scacco di Seattle, questo obiettivo è diventato raggiungibile, mentre altre ritengono che sia preferibile restare su un terreno più minimalista e pragmatico, puntando a negoziazioni su singoli aspetti e capitoli dell’AoA.

Condizioni di accesso al cibo, compatibilità ecologica dei sistemi di produzione e consumo, salvaguardia di un modello agricolo fondato sul modo di produrre contadino (in cui l’unità familiare di produzione corrisponde all’unità di consumo, e in cui non conta tanto la massimizzazione dei profitti quanto la capacità di riprodurre nel tempo la propria capacità di generazione di reddito e di sussistenza) diventano quindi cruciali per la sicurezza alimentare locale e globale, molto più dell’aiuto alimentare, che invece tende sempre più ad aumentare, a svantaggio dei programmi e progetti di sviluppo. Questa dinamica si spiega con un uso strumentale e subdolo dell’aiuto alimentare. Sul lato della produzione, l’aiuto dipende fortemente dal saldo commerciale agricolo dei paesi esportatori, che vi vedono un’utile chiave di regolazione o condizionamento del mercato internazionale; l’aiuto sarà quindi ancorato alle condizioni dell’offerta, piuttosto che a quelle della domanda. Sul piano del consumo, il cibo disponibile con gli aiuti alimentari raggiunge con maggiore facilità la popolazione urbana, e meno nelle aree rurali, dove risiede la maggior parte della popolazione afflitta da insicurezza alimentare.

Fra le pieghe della globalizzazione e della ristrutturazione economica emergono, secondo Colombo, nuove opportunità di costruire alleanze fra settori marginalizzati all’interno del mondo agricolo e altre espressioni del mondo del lavoro e della società civile come le organizzazioni di solidarietà internazionale. Il concetto chiave su cui si confrontano i nuovi movimenti popolari parte dal bisogno di politiche fondate sul bene comune. Una serie di principi base costituisce la piattaforma su cui questi movimenti e le organizzazioni non governative si confrontano ormai da tempo: diritto all’alimentazione (concetto che supera la semplice identificazione con la sicurezza alimentare, assume il significato di disponibilità di prodotti e consente di cogliere le relazioni sociali esistenti tra individui e alimenti), sostenibilità alimentare, partecipazione popolare e, soprattutto, sovranità alimentare. Quest’ultimo concetto implica il controllo decentrato sulle politiche produttive e distributive; l’esercizio di questa sovranità richiede poi autonomia politica ed economica per impostare politiche che recepiscano le specificità agricole ed ambientali dei territori e quelle sociali e culturali delle popolazioni.

L’aspetto più interessante nel libro di Colombo è quello di considerare la “lotta alla fame” non come la soddisfazione di un semplice bisogno primario, ma come l’«esigenza di dare risposta a un diritto umano fondamentale» (pag. 26). La questione non è trascurabile: la semplice attenzione ai bisogni e alla loro soddisfazione non permette che se ne affrontino e rimuovano le cause. Se i bisogni vengono catalogati secondo gerarchie di priorità può accadere – come di fatto accade – che la sicurezza alimentare, senza dubbio una priorità, possa andare a scapito di altre esigenze, come quelle educative, di alloggio, ecc.. In questo modo, si ricade nell’ambito delle soluzioni caritatevoli. Ma, come ebbe a dire già Kant più di due secoli fa, «la carità è oscena in una prospettiva di diritti umani».

Il libro di Colombo mantiene fede all’intento iniziale di non soccombere all’emotività della questione che affronta, e costituisce uno dei tentativi meglio riusciti di penetrarne le dinamiche e i sottostanti meccanismi tecnici, politici ed economici. Si tratta di un livello analitico essenziale alla comprensione del problema, e la puntualità e il livello di approfondimento con cui questo studio viene condotto sono rari da trovare. L’analisi è l’unico modo in cui è possibile fare chiarezza nell’epoca della cosiddetta “complessità”: con precisione, dovizia di dati quantitativi, rigoroso utilizzo delle fonti. In tempi dominati dalla “scomparsa dei fatti”, questo è confortante. Individuare a partire da questa chiarezza narrazioni capaci di far presa sulla reale e concreta volontà di individuare soluzioni praticabili non è però compito dell’analista; qui saremmo nell’ambito della politica nel senso elevato del termine. L’agire politico, troppo occupato nella governance del capitale, ma in realtà dominato da quest’ultimo, non sembra tuttavia accorgersene.

Alain Badiou o Frederic Jameson sostengono che non è la conoscenza dei meccanismi del capitalismo a fare difetto, ma che il vero problema è trovare nuove forme della politica. Altri, come Slavoj Žižek, ritengono che le conoscenza di come funzioni il capitalismo non sia poi così profonda, e che domande tipo «Come funziona oggi lo sfruttamento?» restano sempre attuali (cfr. Filippo Del Lucchese – Jason Smith, “La brutalità della violenza è segno di impotenza”, intervista a Slavoj Žižek, il manifesto, 10 aprile 2007, p. 12). L’analisi è quindi sempre necessaria, ma è anche vero che la politica, almeno senso della rappresentanza, sia giunta al capolinea, e che solo massicce dosi di democrazia diretta e partecipativa, unitamente a una maggiore consapevolezza, possono salvare la crisi che ormai investe lo stesso principio democratico. Una maggiore consapevolezza richiede però una sintesi, una semplificazione dell’analisi, necessaria alla formulazione dei rimedi. Richiede narrazione e parole. E, forse, anche quell’emotività che Colombo volutamente mette da parte nel suo lavoro, per concentrarsi sulla fredda logica dei dati e dei numeri.

Le parole si radicano in una storia, si legano a rappresentazioni ancorate ad un livello non cosciente in chi parla, facendo presa sulle emozioni. Ma ci sono anche parole nocive. Qui ci è utile un altro libro, questa volta di Serge Latouche, Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolonizzazione dell’immaginario economico alla costruzione di una società alternativa. Dice Latouche: «Ci sono parole dolci, parole che rinfrancano il cuore e parole che feriscono. Ci sono parole che mettono un popolo in fermento e sconvolgono il mondo. E poi ci sono le parole-veleno, parole che si infiltrano nel sangue come una droga, pervertono il desiderio e oscurano il giudizio. “Sviluppo” è una di queste parole tossiche» (cfr. Serge Latouche, Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolonizzazione dell’immaginario economico alla costruzione di una società alternativa, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, p. 28-9). Per Latouche rimettere radicalmente in questione il concetto di sviluppo significa «fare della sovversione cognitiva, e questa è la premessa e la condizione di qualsiasi cambiamento politico, sociale e culturale» (Latouche, op. cit., p. 15). Questa sovversione cognitiva deve partire da una sorta di disvelamento, di smascheramento delle parole.

Ivan Illich parlava di «parole ameba», in un senso molto vicino a ciò che il linguista Uwe Pörsken definiva parole «plastiche». “Sviluppo” è, appunto, una parola plastica. Le parole plastiche in un primo tempo appartengono al linguaggio corrente, possedendo un senso preciso (es.: “sviluppo di un’equazione”), poi passano nella lingua colta (es.: “lo sviluppo delle specie in Darwin”), e infine vengono riprese nella lingua dei tecnocrati in un senso talmente estensivo da far perdere alle parole qualsiasi altro significato. Non abbiamo ormai alcun controllo su queste parole. Anzi: sono proprio queste parole che consentono il controllo sulle nostre esistenze.

I valori su cui si fondano le idee di sviluppo e di progresso non corrispondono ad aspirazioni né universali né profonde, ma sono legati alla storia dell’Occidente, e non trovano riscontro in altre società. I bubi della Guinea Equatoriale usano un termine che significa allo stresso tempo crescere e morire; i ruandesi usano un verbo che significa camminare e spostarsi, senza che nella nozione sia compresa alcun direzionalità particolare. Società diverse da quella occidentale non ritengono che la loro riproduzione dipende da un’accumulazione continua di saperi e beni destinati a rendere il futuro migliore del passato; i valori su cui si fonda lo sviluppo, e in particolare il progresso, non corrispondono affatto a aspirazioni universali e profonde. Questi valori, che probabilmente non hanno alcun senso per le altre società, sono legati alla storia dell’Occidente e al paradosso della creazione dei bisogni, mediante la creazione delle tensioni psicologiche e di frustrazione che lo sviluppo e la crescita economica pretendono di soddisfare. Sembrerebbe quindi che l’economia non possa realizzarsi se non appoggiandosi necessariamente sulla povertà: «non soltanto l’immaginario economico inventa di sana pianta la necessità, ma la povertà stessa diventa una condizione di crescita» (Latouche, cit., pag. 66).

Maria Zambrano dice che «la struttura tragica che la storia ha avuto sinora proviene dal fatto che ogni tipo di società, inclusa la famiglia, persino la particolare società formata da due persone che si amano, ha sempre come legge, ad esclusione solo di determinati livelli di umanità, la presenza di un idolo e di una vittima» (Persone e democrazia, Milano, Bruno Mondadori, p. 44). Opportunamente, è stato fatto notare che questo idolo non è una figura di fantasia dell’immaginario collettivo, ma un sistema che produce vittime proprio in quanto ritenuto da queste necessario e insuperabile. Ma ora è il futuro stesso dell’umanità l’ultima vittima candidata. A meno di un cambiamento di prospettiva; il passaggio dall’individuo come atomo sociale bellicoso che una certa visione liberista considera il soggetto naturale dell’agire economico, alla persona concreta, ricca di relazioni con gli altri, che coltiva valori non monetari e una ragione saggia e lungimirante (cfr. Roberto Mancini, “Idee eretiche”, Altraeconomia, aprile 2007, p. 38).

È molto probabile che sia necessaria questa nuova prospettiva per affrontare i problemi posti dalla insicurezza alimentare. Si tratta di una prospettiva che richiede sforzi ulteriori di ridefinizione, attualizzazione e autenticazione degli stessi concetti e ideali di democrazia e libertà, violentati nell’indifferenza generale dal pensiero e dalle politiche liberiste, uno sforzo anche nel senso indicato dalle riflessioni di Paul Ginzborg sulla “democrazia che non c’è” e da quelle di Slavoj Zizek sulla contrapposizione di libertà “formale” e libertà “reale”, e sullo smascheramento della finzione della libera auto-percezione del soggetto.

I movimenti di critica del mondialismo, per una nuova cittadinanza, per la decrescita e la critica del concetto di sviluppo, e alcune ONG storiche capaci di resistere alla professionalizzazione ormai dominante dell’aiuto umanitario, sono tra i pochi soggetti che oggi si dimostrano sensibili a cogliere questa nuova prospettiva. Nessuno di questi orizzonti, al di là della vuota retorica, è attualmente visibile dalle paludi in cui è impantanato l’attuale agire politico. Una riprova? Restando nell’ambito della sicurezza alimentare, l'Italia è uno dei maggiori contributori della FAO (Cfr. il Libro Bianco sul Programma di Cooperazione della FAO, finanziato con contributi volontari del Governo italiano, presentato il 17 aprile 2007 a Roma). Peccato, però, che figuri al penultimo posto nella classifica dei Paesi che destinano quote del proprio PIL all'aiuto pubblico allo sviluppo (Fonte: OCSE, ActionAid), e che dei 100 milioni di euro che si era impegnata versare nel 2002, ne mancano all’appello ancora 40 milioni…

La necessaria e fondamentale freddezza dei numeri può e deve essere contemperata dalla capacità evocativa e di incidere sulla realtà da parte di nuove narrazioni. Una narrazione è fatta di parole, è un ambito di discorso e di coinvolgimento, un progetto e un immaginario condiviso, e forse la politica ha davvero «bisogno di una poetica, per essere davvero mirabile» (cfr. Lanfranco Caminiti, “L’arcipolitica, un laboratorio italiano”, Carta Etc., n. 3, aprile 2007, pag. 64). Ma una narrazione può anche nascere a partire dalla scomparsa di alcune parole che sono velature calate sulla realtà, ostacoli. La parola “sviluppo” è una di queste, ma ve ne sono molte altre: “progresso”, “sostenibilità”, “libertà”…

Se, oltre l’analisi, è anche necessaria una sintesi, se parole evocative/incisive sono necessarie, allora può venirci utile un altro libro, quello del sociologo svizzero Jean Ziegler, La fame nel mondo spiegata a mio figlio, le cui pagine finali contengono parole adeguate. Non un’emotività pelosa, ma parole che conoscono la gravità e il disincanto:

Siamo in un vicolo cieco e dobbiamo riconoscere il fallimento? 

Di fatto si. Perché le tragedie si ripetono all’infinito. Le numerose catastrofi naturali, le molte carestie, i tanti focolai di conflitti nel terzo Mondo richiedono l’attenzione costante dei governanti occidentali, delle organizzazioni internazionali e dell’opinione pubblica! Altrimenti le vittime spariscono nella notte, diventano a poco a poco invisibili e muoiono nella solitudine più assoluta. Bisogna ammettere che il soccorso d’emergenza, gli aiuti […] sono in fin dei conti soltanto dei palliativi […].

Di che altro c’è bisogno?

Va cambiato l’ordine omicida del mondo.

Si tratta, ancora una volta, solo di parole, incapaci di individuare cause e di indicare rimedi? No:

Perché le stragi causate dalla fame? […] Principale responsabilità è la distribuzione ineguale delle ricchezze. […] Il problema della fame nel mondo è un problema sociale. 

[…]

Come porvi rimedio?

1) […] rendere più efficaci gli aiuti urgenti […]

2) […] oltre l’azione umanitaria urgente, vi è l’azione rivoluzionaria […]

3) […] i paesi del Terzo Mondo hanno un pesante bisogno di infrastrutture […]

4) […] è necessario civilizzare l’attuale giungla del capitalismo selvaggio; è necessario assoggettare tutti i meccanismi dell’economia mondiale a questo fondamentale imperativo: vincere la fame e nutrire adeguatamente tutti gli abitanti del pianeta.

Non ultimo, ci fa presente Ziegler, ricordarsi più spesso che l’uomo, fra tutti i vertebrati, è l’unico ad avvertire la sofferenza altrui.


(Massimo Barbaro)














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