numero 7
KAINOS
Ricerche
2007

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fame / sazietà



RICERCHE
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Fame reale, sazietà immaginaria. Archetipi e sogni sul cibo

di Paolo Pagani




1. La fame è materiale


Non si può discutere con il ventre perché non ha orecchie, afferma un vecchio detto popolare.

Ed è ovviamente sul piano immediato della sopravvivenza biologica che si pone innanzitutto l’esperienza della fame, al di qua di ogni elaborazione simbolica o concettuale. Ma, subito al di là della diretta primitività del bisogno, opera la trasformazione. Secondo Gilbert Durand il punto di partenza per una classificazione dei simboli potrebbero essere alcune “immagini motorie”, di cui una è la “dominante di nutrizione che nei neonati si manifesta attraverso i riflessi di suzione labiale e di corrispondente orientamento della testa”(1). In sostanza, per Durand il punto di partenza è una base biologica, una “matrice senso-motoria”(2) situata già nella riflessologia neo-natale: ma da ciò subito prende le mosse la “costanza degli archetipi” come direzione fino alle categorie del pensiero. Ossia, come Durand riprende da Bachelard, la formazione di metafore che indicano il movimento. Il movimento gastrico, la “dominante di inghiottimento”(3) che si avvia a diventare movimento culturale, simbolico e poetico. “Le intimazioni oggettive danno inizio alla traiettoria simbolica”(4), ma è il movimento di questa traiettoria che interessa. Il ventre, non più sordo, acquisterà parola e capacità di produzione dell’immaginario.



2. Il cibo è sociale


Il cibo, la risposta al bisogno, è una soddisfazione che, ancora biologicamente, si situa su di un piano reale: ma già si inserisce in strutture che vanno al di là dell’individualità del ventre e delle dominanti motorie. Il cibo possiede, anche, una significazione sociale. Il cibo come agricoltura e cucina. Il cibo che non è solo natura, ma lavoro umano. O gratuito dono divino: “Una volta i karaja non sapevano dissodare la terra. Essi si nutrivano di frutti selvatici”(5). Poi la stella della sera discese in forma umana ed insegnò loro a coltivare mais e manioca. O un piccolo topo insegna ai kayapò l’esistenza del mais, “nei tempi in cui gli Indios mangiavano solo funghi d’albero e polvere di legno putrefatto”(6). L’umanità stessa coincide con il mais, come narra il Popol Vuh, per il quale i Creatori così formarono la coppia primordiale: “Di mais giallo e di mais bianco venne fatta la loro carne; di pasta di mais vennero fatte le braccia e le gambe dell’uomo”(7).

I miti raccontano un’immagine primordiale di fame, cui si sostituisce l’abbondanza. Abbondanza come dono ma anche come esito del lavoro e della società umana: assieme al mais, appaiono le diverse usanze e le diverse lingue. Come conclude Levi-Strauss, la cucina non segna soltanto il passaggio dalla natura alla cultura, ma definisce la condizione umana in tutti i suoi attributi, compresi quelli che sembrerebbero i più indiscutibilmente naturali, come la mortalità. Fino al chiarificante capovolgimento di un mito matako, in cui l’abbondanza originaria, dono divino, viene persa per l’avarizia degli indios nel condividere i frutti celesti(8).È un limite tipicamente umano e sociale a produrre anche la fame.

Il cibo del mito, il cibo delle origini e alle origini di lingua e cultura, diventa poi anche rito, e ovviamente rito sociale. La spartizione del cibo non è mai casuale, ma riflette i rapporti di potere e prestigio all’interno di un gruppo(9). E poiché la necessità – biologica – di cibo si “traduceva anzitutto in un desiderio di quantità: il desiderio della pancia piena e della dispensa ben fornita”, nel passato “il potente si definiva in primo luogo come grande mangiatore”(10). A differenza delle ritualità contemporanee (magrezza, nouvelle cuisine, piccole porzioni consumate quasi con superiorità…) era una sorta di obbligo sociale per il signore mostrare di saper mangiare molto. Da questo punto di vista, secondo Massimo Montanari, i miti medioevali basati sul sovrano cacciatore (Carlo Magno), che sublimano un sistema alimentare che valorizza socialmente la carne, si differenziano da quelli greco-latini, del tipo generale-contadino (Cincinnato), fondati sul valore sociale del pane e dell’agricoltura(11). Ma la stessa società agricola costituisce una rottura culturale con la “naturalità”, e la violenza che si compie ai danni della Madre Terra – la ferita dell’aratro – va espiata con tutti i rituali di fertilità.

In ultima analisi, poiché il mangiare è un mangiare insieme – la commensalità – solo l’eremita, che si pone al di fuori del consesso umano, mangia in solitudine, sul piano del mero bisogno. E non è un caso che mangi, come vuole la tradizione, erbe e radici crude. Ponendosi al di qua, col rifiuto della cucina, di quel passaggio dal crudo al cotto che abbiamo visto, con Levi-Strauss, essere determinante per l’umanità culturale e non semplicemente biologica.



3. L’abbondanza come segno di festa


La commensalità e il valore sociale del cibo si traducono anche in momenti di sperpero, in occasioni che vanno molto al di là delle necessità biologiche. Le comunità sentono il bisogno di rappresentare l’abbondanza, di mettere in scena un momento di grande consumo come recita – ed auspicio – di quell’abbondanza che quotidianamente manca. Poche volte in un anno (semel in anno…), consumando quanto si conserva gelosamente per mesi: ecco la festa, il banchetto. Ritualizzazione periodica di una ricchezza materiale sognata per tutto la vita.

Ovviamente il tipo di cibo e le sue modalità di consumo conservano tutte le loro valenze di differenziazione sociale. Nelle feste Carlo Magno mangiava solo carni arrostite, anche perché il consumo, violento e dispersivo, della selvaggina allo spiedo bene raffigurava la forza ed il disprezzo dell’economia da parte del ceto aristocratico. Nei banchetti contadini prevale invece il bollito, non solo più dolce, ma economicamente non dispersivo, perché si recupera il brodo(12). Ma, in tutti i casi, il sogno dell’inesauribilità delle risorse si realizza con la periodica, grande abbuffata: il ventre pieno. Anche la calendarizzazione del cibo ha sempre contribuito a sottolineare questo significato più culturale che naturale; perché non si mangia – o mangiava – solo quel che natura offriva a Natale o a Pasqua, ma soprattutto ciò che i cicli liturgici richiedevano in “sacrificio”: certi alimenti preparati – e attesi - apposta per tali occasioni e solennemente consumati.

La festa, che in sé è già una rappresentazione, trova poi un’ulteriore rappresentazione nella letteratura e nell’arte. Si pensi ai banchetti raffigurati da Jan Steen o da Pieter Bruegel il vecchio. A quella scena di nozze contadine in una stalla, di cui Gombrich dice che la sposa, in mezzo al tumulto degli abbuffanti, “siede con un sorriso soddisfatto sul volto idiota”(13). La rara beatitudine, ebbra e stordita, del mondo rurale. E si osservi l’importanza che il cibo, e la sua descrizione minuziosa, assume nelle raffigurazioni di molti romanzi, da quelli di Jorge Amado ai più recenti di Manuel Vasquez Montalbàn. Ma io credo che la pagina più straordinaria sia un brano di Uomini di Mais di Asturias, in cui il gusto del dettaglio e dell’esagerazione vuole quasi fisicamente farci condividere l’abbuffata: “innaffiavano con salsa di peperone rosso le scodelle di riso e di brodo di gallina, di sette galline, di nove galline bianche…frittelle condite con l’aglio settebrodi…crocchette enormi, rosse e nere: salate quelle rosse, di carne di tacchino quelle nere, dolci e con le mandorle…”(14). Il sogno contadino dei maya, uomini di mais, che si incontra con un festivo sperpero di carni e di dolciumi.



4. Il cibo diventa simbolo


Gli uomini sono fatti di mais: non è una descrizione anatomica, è l’espressione di un desiderio.

“Il panettone ci suggerisce il natale non tanto perché ‘ è fatto così ‘, quanto perché ‘si fa in quel giorno ’… non è facile vendere il panettone fuori del periodo natalizio”(15). E ciò nonostante i metodi di conservazione, che sul piano puramente alimentare costituiscono delle tecniche per andare al di là dei cicli stagionali. Il “gran buì”, il gran bollito delle feste piemontesi dovrebbe essere consumato in queste proporzioni prefissate: 7 carni, 7 verdure e 3 salse. Sette, sette e tre: niente di casuale. I rituali di fecondità non sono finalizzati solo a “far produrre di più la terra”, ma a purificare la colpa insita nella modificazione aggressiva della natura. In sintesi: il cibo vale tanto per ciò che se ne inghiotte, quanto per quello che indirettamente ci dice. Per spostamento simbolico.

In un suo interessante articolo, Giorgio Bocca racconta che nel mondo partigiano “il cibo divenne il trait d’union fra la vita e la morte”(16). Il passaggio che Levi-Strauss vede nella nascita della cucina, Bocca lo ritrova nella fame dei partigiani che sfocia improvvisa nei ravioli in brodo delle cascine. E il vino versato nel brodo è la mescolanza del sangue, quello del bue e quello dell’uva. Come negli studi di Piero Camporesi: il sangue è il sugo della vita, con tutte le valenze mediche, magiche, simboliche che trascina con sé(17).


5. La sazietà immaginaria


Se il cibo è simbolo, dice qualcosa d’altro da sé, e dai valori nutritivi che comporta. Dice un sogno.

E, nelle società povere e contadine che sognano sul cibo e con il cibo, non può che trasportarci in quel mondo in cui esso non manca. L’immagine dell’abbondanza non solo esibita dai potenti, o recitata una volta nelle feste dei poveri, bensì sognata sotto forma di eternità. Nasce così la visione immaginaria del “paese di Cuccagna”. “Nei tempi antichi, quando desiderare serviva ancora a qualcosa, l’uomo non aspirava soltanto a vivere eternamente giovane, ma amava, altresì, immaginare un paese lontano dove si mangiasse senza lavorare, dove l’abbondanza dei prodotti fosse ottenuta senza fatica”(18). Questa immaginazione, seguendo l’analisi di Cocchiara, prende le forme del boccaccesco paese di Bengodi, nel quale le vigne si legavano con le salsicce e vi era una montagna tutta fatta di formaggio parmigiano grattugiato. Assume coloriture paradisiache, come in un poemetto satirico cinquecentesco, per il quale, nel “Santo Paradiso”, “quando uno è affamato / li piove manna in bocca / e spesse volte i fiocca / i sacchi di confetti / e son coperti i tetti / de zalde zuccherate”(19). E si canonizza nei molteplici racconti sul paese di Cuccagna, in cui le vacche partoriscono ogni volta quattordici vitelli, e le olive sono grosse come meloni, e i fiumi sono di vino, e “le civette cacano i mantelli”(20). Il tutto all’insegna di un precetto fondamentale: “Son stato nel paese di Cuccagna / o quante belle usanze son fra loro / quello che più ci dorma ci guadagna”(21).

Dunque: il banchetto continuo, un pranzo bruegheliano senza fine. La sicura abbondanza naturale, come nei miti amazzonici. Ma, oltre a tutto questo, il rifiuto del lavoro. Il sogno di Cuccagna, come mostra Camporesi(22), è una immaginazione carnascialesca, una festa senza fine. Senza fatica, né signori. È un sogno per certi versi presociale, cui partecipano gli stessi eremiti, che si sfamano senza lavoro e ricevono le buone erbe dall’insegnamento delle capre come “inviati” divini.(23)

È il sogno, come mostra Giovanni Bossi in un suo interessante recente studio(24), dell’esuberante fertilità delle mitiche terre d’oriente, con l’immagine della natura come inesauribile alimento universale, in cui l’esperienza quotidiana si capovolge nel suo opposto. “Dal problema di come sbarcare il lunario con il misero frutto di un duro lavoro scaturisce la fantasia di popolazioni talmente facoltose che non sanno come spendere ciò che posseggono senza alcuna fatica. Si tratta di un sogno carnevalesco, nel senso che la sua genesi può essere individuata nella sospensione di ogni limite e di ogni misura”(25). L’eterno carnevale che è rottura dei limiti alimentari ma anche sessuali, il sogno del ventre che diventa, come in Rabelais, non solo digestivo ma orgiastico: in un certo senso, ritornando alle iniziali dominanti biologiche di Durand, esso realizza immaginariamente la sazietà non solo della dominante nutrizionale, ma anche di quella ritmico-ciclica, alla base, secondo Durand, di tutto l’immaginario sessuale.



6. Conclusione : Téleme


L’immaginazione gargantuesca e pantagruelica di Rabelais rientra a buon titolo nei sogni di abbondanza, di festa, di sfrenata fertilità naturale, assumendo in pieno gli aspetti carnascialeschi del mondo capovolto. Basti pensare, fra satire di potenti ed ecclesiastici, all’episodio in cui “Gargantua mangiò sei pellegrini in insalata”. O agli sterminati elenchi alimentari dei gastrolatri: “…Ostriche fritte, Sogliole, Astachi, Aragoste, Ortiche di mare, Tinche, Ombrine, Lampredine, Luccettini, Storioncini, Carpioni, Salmoni, Salmonetti, Lamprede, Pollastre di mare.”(26)

Ma, nella fantasia sull’abbazia di Tèleme, supera l’immaginazione della sazietà del ventre e acquista la sfumatura utopica di un progetto morale ed intellettuale. A Tèleme non entrano né ipocriti né bigotti, né legulei mangiafieno, né divoratori di popolo, né usurai o ammassatori di ricchezze. A Tèleme, al di là dell’abbondanza di montoni, ciò che conta è la presenza di “compagnoni gentili, sereni e sottili, alieni da bassezza”. Finché, dalla sua base solidamente materialistica, il sogno di Rabelais si distilla nel sogno della libertà, dal bisogno, dal lavoro e da ogni costrizione. Per i Telemiti conta questa sola regola, che vorrei porre ad emblema, filosoficamente filtrato e sublimato, dell’immaginazione di Cuccagna :

“La loro vita non era governata da leggi, statuti o regole, ma secondo il loro volere e franco arbitrio. Si levavano da letto quando loro piacesse; bevevano, mangiavano, lavoravano, dormivano quando ne avevano voglia; nessuno li svegliava, nessuno li forzava né a bere, né a mangiare, né a qualsiasi altra cosa. Così aveva stabilito Gargantua. La loro regola era tutta in un articolo: FA CIO’ CHE VORRAI.”(27).

Note con rimando automatico al testo

1 Gilbert Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Bari, Edizioni Dedalo 1972, p. 39.

2 Ibidem, p. 41.

3 Ibidem, p. 41.

4 Ibidem, p. 27.

5 Claude Levi-Strauss, Il crudo e il cotto, Milano, Il Saggiatore 1980, p. 240.

6 Ibidem, p. 222.

7 Popol Vuh, Torino, Einaudi 1976, p. 126.

8 Claude Levi-Strauss, op.cit., p. 317.

9 Cfr. Massimo Montanari, Il cibo come cultura, Bari, Editori Laterza 2004.

10 Ibidem, p. 90.

11 Ibidem, p. 91.

12 Cfr. Massimo Montanari, op. cit., pp. 57-60.

13 Ernst H. Gombrich, La storia dell’arte raccontata da Ernst H. Gombrich, Roma, Editoriale L’Espresso - La Repubblica 1995, p. 382.

14 Miguel Angel Asturias, Uomini di mais, Milano, Rizzoli 1981, pp. 25-26.

15 Massimo Montanari, op. cit., pp. 107-108.

16 Giorgio Bocca, I rituali del Natale a tavola, La Repubblica, 24 dicembre 2004, p. 37.

17 Cfr. Piero Camporesi, Il sugo della vita, Milano, Garzanti 1977.

18 Giuseppe Cocchiara, Il paese di Cuccagna e altri studi di folklore, Torino, Editore Boringhieri 1980, p. 159.

19 Ibidem, p. 163.

20 Ibidem, p. 167.

21 Ibidem, p. 166.

22 Cfr. Piero Camporesi, Il paese della fame, Bologna, Il Mulino 1985.

23 Cfr. Massimo Montanari, op. cit. , pp. 53-54.

24 Cfr. Giovanni Bossi, Immaginario di viaggio e immaginario utopico, Milano, Mimesis 2003, pp. 31-57.

25 Ibidem, p. 48.

26 Francois Rabelais, Gargantua e Pantagruel, Novara, Istituto Geografico De Agostini 1983, volume secondo, p. 327.

27 Ibidem, vol. primo, p. 146.

   







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