numero 7
KAINOS 
Ricerche
2007

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fame / sazietà



RICERCHE
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L’appetizione hegeliana, la Begierde, come “attività di una mancanza”

di Barbara Marte

...nella sua essenza l’appetire è qualcos’altro
da quanto sembra essere immediatamente
.
J. Hyppolite


Il significato di Begierde tra appetito e desiderio

La parola Begierde nell’intera opera hegeliana e nella stessa Fenomenologia appare solo occasionalmente; ciò nonostante essa fonda, a mio avviso, la differenza ontologica tra gli individui non viventi e l’animale prima, e quella tra l’animale e l’uomo poi.

«L’autocoscienza […] è innanzitutto desiderio (Begierde(1), afferma Hegel nella Fenomenologia dello spirito. Potremmo dire, parafrasando questo passo, che il soggetto hegeliano prima di istituirsi come soggetto logico-epistemico ossia soggetto della verità, appartenente al campo semantico-concettuale del cogito, dell’'io penso', dell’'io puro', del Geist, della 'coscienza intenzionale', è in primo luogo Begierde. Infatti nel capitolo dell’Enciclopedia dedicato alla Fenomenologia Hegel afferma:

[…] il desiderio (Begierde) è la forma nella quale appare l’autocoscienza, al primo grado del proprio sviluppo. Qui, nella seconda parte della dottrina dello spirito soggettivo, il desiderio (Begierde) non ha ancora alcun’altra determinazione che quella dell’impulso (Triebes), nella misura in cui esso, senza essere determinato dal pensiero, è rivolto ad un oggetto esterno, nel quale cerca soddisfazione...(2)

In questo passo il termine Begierde pare acquisire semplicemente il significato di fame animale: ciò che viene desiderato è il mondo sensibile e percettivo nel senso che esso viene consumato per la conservazione e la riproduzione della vita. Per quanto concerne il termine Trieb(3), mi sembra importante qui ricordare che Freud ricorre ad esso nell’elaborazione del suo primo modello dualista: pulsioni sessuali (Sexualtriebe) e pulsioni dell’Io (Ichtriebe) o di autoconservazione (Selbsterhaltungstriebe). Queste ultime corrispondono ai bisogni fondamentali ossia alle grandi funzioni indispensabili alla conservazione dell’individuo, il prototipo delle quali è appunto costituito dalla funzione di nutrizione ossia dalla fame e dalla sete.

Ora nel passo sopra citato Hegel spiega che «il desiderio (Begierde) non ha ancora alcun’altra determinazione che quella dell’impulso (Triebes)»: bisogna sottolineare qui l’avverbio 'ancora' e il fatto che Hegel sin da subito afferma che la Begierde è il modo in cui la figura dell’autocoscienza fa il suo ingresso nel regno della verità. Infatti alla base dell’auto-coscienza hegeliana, che è l’esistenza veramente umana e dunque esistenza filosofica, non c’è la contemplazione puramente cognitiva e passiva, come evidenzia Kojève, ma il desiderio. Il desiderio si oppone alla contemplazione: a differenza di questa esso consente al soggetto umano di autoesternarsi e autoconoscersi. L’uomo è autocoscienza e prende coscienza di sé nel momento in cui dice “Io”: e non sarà il pensiero, la ragione, l’intelletto ossia il comportamento cognitivo, contemplativo di un soggetto conoscente a rivelare come e perché nasca la parola “Io” e quindi l’autocoscienza, per la ragione che l’uomo che contempla viene assorbito da ciò che contempla. Ma sarà soltanto il desiderio cosciente di un essere a costituire quest’essere come “Io” e a rivelarlo come tale:

La contemplazione rivela l’oggetto, non il soggetto […] L’uomo “assorbito” dall’oggetto che contempla non può essere richiamato a sé se non da un Desiderio: per esempio, dal desiderio di mangiare.(4)

L’animale non s’innalza al di sopra della natura, negata nel suo desiderio animale, se non per ricadervi immediatamente con la soddisfazione di questo desiderio. Perciò l’animale arriva al Selbst-gefühl e non al Selbst-bewußtsein, esso cioè non può parlare di sé, dire : “Io…”. Secondo Hegel, affinché la realtà umana in quanto autocoscienza possa costituirsi è sì presupposto necessario la natura, la realtà animale, vale a dire il desiderio, che è 'anche' manifestazione della necessità biologica, ma siffatto desiderio deve dirigersi verso un oggetto non-naturale, ciò verso un’altra autocoscienza che sarà a sua volta un’autocoscienza desiderante, cioè verso un altro desiderio. Infatti se un soggetto trova soddisfazione in un oggetto naturale, il suo desiderio rimane un desiderio naturale e dunque anche il soggetto rimane un essere naturale e non umano. Hegel afferma esplicitamente:

In quanto autocoscienza, la coscienza ha ormai un duplice oggetto: a) l’oggetto immediato della certezza sensibile e della percezione, stavolta segnato per la coscienza dal carattere del negativo; b) se stessa, che è la vera essenza, e che inizialmente è data solo nell’opposizione al primo oggetto.(5)

Sebbene inizialmente l’autocoscienza si volga verso un oggetto sensibile e percepito, il termine ultimo che essa appetisce, che aspira a raggiungere è l’unità dell’io con se stesso, ciò che essa desidera è il suo appetire, quindi desidera se stessa, anche se ancora non lo sa. Tale fine sarà raggiunto quando l’autocoscienza troverà un altro desiderio ossia un’altra autocoscienza e l’oggetto sensibile resterà allora solo un mezzo. Hyppolite, interprete fedele di Hegel, nel suo commentario alla Fenomenologia spiega che:

La Begierde dà sugli oggetti del mondo, poi su un oggetto già più vicino ad essa – la Vita – e finalmente su di un’altra autocoscienza: è l’appetito che si cerca nell’altro, il bisogno di riconoscimento dell’uomo da parte dell’uomo.(6)

Per poter dire “Io”, l’“Io” deve sdoppiarsi al proprio interno rispecchiandosi dapprima in un “Io” diverso dal proprio. Allora fin dalle prime battute del paragrafo su Il desiderio in generale all’interno de La verità della certezza di se stesso, nella Fenomenologia dello spirito del 1807, Hegel ci lascia pensare che nel corso dello svolgimento, dello sviluppo (Entwicklung) dell’autocoscienza (Bewußtsein), il significato di Begierde si espanderà o più precisamente subirà per così dire uno slittamento semantico.

Certo, letteralmente, il significato del termine tedesco Begierde tende ad appiattirsi sull’accezione di desiderio naturale rispetto al termine tedesco Begehren, che indica il desiderio in un’accezione più ampia, cioè non limitata al desiderio del corpo dell’altro. Lo spettro semantico di Begierde corrisponde letteralmente a desiderio, brama, concupiscenza, essa è insomma soprattutto sinnliche Begierde (desiderio sensibile); mentre la valenza semantica di Begehren è data dal desiderio non circoscritto alla realtà sensibile, ma per giunta inclusivo del significato di domanda, istanza. E qui diciamo con Lacan che i bisogni del vivente nell’uomo sono trasformati dal fatto di doversi formulare in una domanda diretta all’Altro, la quale tende per se stessa a farsi pura domanda della sua risposta, domanda del suo amore.

Ora, nonostante il significato letterale di Begierde sia quello di sinnliche Begierde, possiamo dire che nel contesto in cui Hegel vi ricorre il significato del termine Begierde assuma un carattere “ambiguo”(7). Essa da una parte tiene l’uomo legato alla natura e dall’altra gli consente, hegelianamente, il salto nello spirito ossia nella cultura; in altre parole è per un verso vincolata alla necessità e per un altro alla libertà morale. Infatti, come abbiamo già accennato più sopra, se nella Fenomenologia hegeliana(8) il primo modo con cui la Begierde si pone dinanzi ai nostri occhi è quello del desiderio animale, fame animale, appetito, laddove il termine appetito è inclusivo tanto dell’appetito sessuale, della brama sessuale, quanto della fame e della sete, cioè tanto della funzione della riproduzione quanto di quella della nutrizione ed entrambi comportano l’appropriazione, l’incorporazione, l’assimilazione, la distruzione dell’oggetto desiderato; seguendo lo sviluppo dell’autocoscienza vedremo che la Begierde pur essendo in primo luogo appetito naturale non si dirigerà soltanto verso oggetti materiali, ma mirerà al desiderio dell’Altro, più precisamente siffatta Begierde diverrà desiderio di riconoscimento (Anerkennung, Anerkennen) da parte dell’altro, anzi diverrà desiderio del desiderio dell’Altro. Perché soltanto desiderando l’altrui desiderio l’animale diviene Uomo.

Lo slittamento semantico che, a mio avviso, Hegel opera nell’uso semantico del termine Begierde, ne rende piuttosto complicata la traduzione in un’altra lingua.

Hyppolite, come pure Kojève, non traducono Begierde con appétit, bensì con désir, desiderio, che deriva da de-siderium, il cui significato è «avere cessato di contemplare gli astri a scopi augurali», vale a dire «essere stati privati della protezione delle stelle»(9). Qui il desiderio è attivato dalla mancanza costitutiva del soggetto, sulla scia della tradizione filosofica a cui dà inizio Platone col Simposio, in cui il desiderio è appunto strettamente legato al «conoscersi». Il racconto di Diotima, in termini lacaniani rinvia ad una «mancanza ad essere»(10): nell’essere c’è un buco, non siamo quindi in presenza di una privazione d’essere, ma di un «desiderio d’essere-costitutivo 'v(u)oto' d’essere»(11). Detto altrimenti: il desiderio rimanda ad una mancanza, ad una perdita o ad una differenza. Soltanto entrando in contatto con l’alterità, attraverso la sua mediazione, possiamo attingere la nostra più intima struttura: l’Altro è il mondo che desideriamo e di cui ci appropriamo per «com-prendere»(12).

Il francese désir, come l’inglese desire e l’italiano desiderio, hanno una valenza semantica schiettamente antropocentrica; essi mostrano dunque una maggiore affinità semantica con il Begehren piuttosto che con la Begierde.

Attualmente nella lingua italiana il termine Begierde è tradotto tanto da Vincenzo Cicero, nella Fenomenologia della Rusconi, quanto da Alberto Bosi, nell’Enciclopedia dell’Utet, con desiderio. Tale traduzione fa seguito a quella precedente della Fenomenologia compiuta dal De Negri, il quale traduce Begierde con «appetito» o «concupiscenza», nel solco della tradizione di pensiero che di volta in volta ravvisa tali termini nel greco orexis, epithymia o ephiestai e nel latino appetitus, conatus, cupiditas(13). Vorrei tuttavia evidenziare che, sebbene appetito e concupiscenza siano spostati, dal punto di vista semantico, dal lato della Begierde piuttosto che da quello del Begehren, anche il significato di questi non può essere del tutto appiattito sul carattere meramente istintivo-impulsivo dell’intenzionalità e confuso col mero appetito sensibile. Vediamo infatti che l’etimologia di appetito è appetere, che vuol dire cercare di raggiungere, andare verso, desiderare (riferito anche a oggetti non sensibili: appetere amicitiam) e che appetere viene a sua volta da ad e peto, che significa dirigersi verso, ma anche domandare. Ora, come abbiamo già detto sopra, sappiamo che, partendo dal punto di vista lacaniano, laddove viene formulata la domanda, il carattere istintivo-impulsivo del comportamento umano subisce per così dire una rottura, si crea uno scarto tra la domanda e il bisogno; ed è proprio da tale scarto che si origina secondo Lacan il desiderio(14). Concupiscenza viene da concupiscere che vuol dire bramare, desiderare e non si riferisce come l’italiano concupiscenza solo ai piaceri sensuali, ma troviamo pure concupiscere ducere aliquam in matrimonium (bramare di sposare una); del resto concupiscere deriva da concupere, composto da cum e cupere, che significa sentire il desiderio di, desiderare in un senso onnicomprensivo, nient’affatto limitato ai piaceri sensibili.

Probabilmente non troveremo in un’altra lingua un termine che corrisponda all’intero spettro semantico secondo il quale Hegel usa Begierde, dato che, indipendentemente dal suo significato letterale e da come lo si traduca in un’altra lingua, è un dato di fatto che questo termine sia usato da Hegel, nell’antropologia e nella fenomenologia, secondo accezioni diverse che vanno dall’appetito, dal desiderio sensibile, naturale al desiderio dell’altro in quanto autocoscienza: infine il desiderio sensibile diverrà desiderio di riconoscimento, desiderio del desiderio dell’Altro. Perciò concordiamo con Hyppolite, quando in Genesi e struttura della “Fenomenologia dello Spirito” di Hegel, proprio nel paragrafo su L’appetito e la vita commenta:

Il fatto è che questa Begierde contiene più di quanto non sembri a tutta prima: pur confondendosi inizialmente con l’appetito (appétit) sensibile in quanto dà sui diversi oggetti concreti del mondo, reca in sé un significato infinatamente più ampio. Nel fondo in tale appetire (désir) l’autocoscienza cerca se stessa e si cerca nell’altro. Perciò nella sua essenza l’appetire è qualcos’altro da quanto sembra essere immediatamente.(15)



La Begierde come “attività di una mancanza”

Hegel si adopera per mostrare le tracce della presenza della struttura formale dell’autocoscienza sin dal livello più elementare possibile. Ora, nella visione hegeliana, la forma più elementare della conoscenza dell’essere e della sua rivelazione attraverso la parola, vale a dire la forma più elementare della coscienza, si configura come sinnliche Gewißheit e si fonda sulla contemplazione puramente cognitiva e passiva dell’essere; l’autocoscienza muove da quelle che sono le manifestazioni prime della sensibilità: la prima configurazione con cui si presenta l’autocoscienza è la Begierde. La Begierde, ossia l’appetito, il desiderio, costituisce il primo passo verso il regno della verità e dello spirito.

Sul piano più basso del proprio sviluppo l’autocoscienza, che è attività assoluta, si presenta propriamente come Begierde e il suo sviluppo porterà poi alle forme più alte dell’autocoscienza che se da una parte si contrapporrà al mondo, dall’altra porrà se stessa come essere nel mondo:

L’autocoscienza attraversa nella sua formazione o movimento questi tre stadi: 1. quello del desiderio, in quanto rivolto ad altre cose; 2. quello della relazione signoria-servitù, nella misura in cui l’autocoscienza si rivolge ad un’altra autocoscienza disuguale da sé; 3. quello dell’autocoscienza in generale, che si riconosce in un’altra autocoscienza uguale a sé. (16)

Nel primo stadio di sviluppo dell’autocoscienza l’Io, lo pseudo-Io, che si rivela mediante il desiderio biologico, si riempie, mediante l’azione biologica che ne deriva, solo di un contenuto naturale, biologico. Ciò nonostante la Begierde hegeliana non è un’attività che procede dall’opposizione di un oggetto, ma un movimento che procede da una mancanza, è “l’attività di una mancanza”(17), laddove il tema del desiderio trasvaluta il significato vitale del bisogno nel “più che vita”(18) dello spirito:

Il soggetto autocosciente si sa come in sé identico con l’oggetto esterno; sa che quest’ultimo contiene la possibilità della soddisfazione del desiderio (Begierde), quindi che l’oggetto è conforme al desiderio (Begierde), e che proprio perciò questo è suscitato da quello. La relazione all’oggetto è dunque necessaria al soggetto. Quest’ultimo scorge nel primo la sua propria mancanza, la sua propria unilateralità, vede nell’oggetto qualcosa di appartenente alla sua propria essenza, e che tuttavia gli manca. L’autocoscienza è in grado di superare questa contraddizione, poiché non è un essere, ma attività assoluta; ed essa la supera impadronendosi dell’oggetto, il quale, per così dire, non fa che simulare l’indipendenza, soddisfacendosi mediante il consumo (Verzehrung) di questo, e conservandosi in questo processo. È necessario che l’oggetto perisca; sia soggetto che oggetto sono qui infatti qualcosa di immediato, e non possono essere in unità se non in modo che venga negata l’immediatezza; e certo, in primo luogo quella dell’oggetto privo di Sé. Mediante la soddisfazione del desiderio, viene posta l’identità in sé essente del soggetto e dell’oggetto, e viene superata l’unilateralità della soggettività e l’apparente indipendenza dell’oggetto.(19)

L’autocoscienza nel rapporto con l’oggetto sensibile come nella relazione tra due autocoscienze ha bisogno dell’alterità, della differenza soltanto per negarla e tornare poi all’unità con sé. Vi è Begierde solo laddove c’è movimento e più precisamente il movimento del protendersi verso altro per impadronirsene e assimilarlo a sé, perché questo è il fine dell’autocoscienza: rendere l’alterità simile a sé, superando l’indipendenza solo apparente dell’oggetto. Il paradigma di tale movimento resta quello dell’indipendenza del cibo che viene assimilato. L’appetire è, come dice Hyppolite, siffatto movimento della coscienza che non rispetta l’essere, ma se ne impadronisce negandolo: la coscienza che appetisce nega l’essere. Tale movimento è il sentimento di un bisogno che procede da una mancanza, mancanza che deve essere intesa come vuoto di un’assenza e allo stesso tempo come mancanza connessa ad un’attività che va a fondersi con la stessa.

Tratto fondamentale del discorso di Hegel è che tanto il movimento dell’autocoscienza in generale quanto quello della Begierde in particolare consistono in uno scindersi e differenziarsi in sé da sé nel tentativo di oggettivarsi nell’alterità, per poi tornare a sé dopo aver assimilato l’altro:

[…] il soggetto è scisso. Scisso rispetto al mondo, cui lo lega soltanto il bisogno; scisso rispetto a se stesso a causa della differenza fra il Selbst e la Bewußtsein. Ora, il desiderio che costituisce il soggetto è desiderio di ripristinare l’identità con sé, messa in pericolo dalla potenza dell’esteriorità: come coscienza vivente, il soggetto lo realizzava attraverso l’appropriazione – incorporazione – dell’oggetto.(20)

Il soggetto dell’“attività della mancanza” ha in sé la divisione, vale a dire che esso può avere una relazione con altro da sé perché ha in se stesso la possibilità della relazione. Esso quindi ha in sé l’impronta negativa di ciò di cui è mancante. In altre parole potremo dire che la differenza fra il Selbst e il Bewußtsein si riflette su un piano più basso nel bisogno della coscienza vivente e su un piano più alto nel doloroso avvertimento della mancanza e che l’autocoscienza, il soggetto dell’attività della mancanza, ha in sé la possibilità della formazione dell’intersoggettività.

Ora anche l’oggetto della Begierde, l’oggetto dell’appetito, mostra questa stessa struttura fondata sull’alterità. Infatti soltanto tale corrispondenza strutturale consente il suddetto processo che conduce l’autocoscienza a ritornare a sé. Se la certezza sensibile può avere un oggetto qualsiasi tra gli enti, l’autocoscienza vuole un oggetto che abbia una maggiore determinatezza e complessità:

L’appetito non si ciba di qualsiasi cosa, ma solo di ciò che risulta assimilabile, proprio perché contiene già in sé preformata la possibilità d’indentificarsi col soggetto. (21)

Come l’autocoscienza, l’oggetto deve avere in sé l’alterità e la capacità d’istituire una relazione, il che significa che ha anch’esso la struttura dello scindersi e differenziarsi in sé da sé, vale a dire che esso è automovimento e quindi vita.

Diremo, parafrasando Hyppolite, che l’oggetto dell’appetire, il frutto che sono sul punto di cogliere, non gode d’indipendenza come il soggetto, esso è ma di qui a poco non sarà più: la sua verità è di essere consumato, negato, in quanto solo attraverso tale negazione dell’altro l’autocoscienza può raggiungere l’unità con se stessa.

Il desiderio diviene non-naturale nella misura in cui mostra una struttura di riflessività o di negazione interna di cui il fenomeno naturale è privo. Il soggetto è creato attraverso l’esperienza del desiderio, in questo senso il soggetto non precede il suo desiderio, al contrario viene definito essenzialmente attraverso ciò che desidera. Desiderando un certo tipo di oggetto il soggetto si situa come un certo tipo di essere. Perciò il desiderio hegeliano, così come lo interpretano Hyppolite e Kojève, è essenzialmente una struttura intenzionale: il soggetto è il suo desiderio dell’oggetto ossia dell’altro; l’identità del soggetto deve essere fondata sull’intenzionalità del suo desiderio, del suo appetire. Eppure nel desiderio non vi è nulla di intrinseco, non vi è alcuna teleologia, né alcuna necessità ontologica: esso prende una forma specifica accordandosi con il tipo di oggetto che persegue. Ma allora in che cosa consiste l’intenzionalità di questo appetire?

Ciò che la coscienza cerca, anche se ancora non lo sa, è se stessa, il proprio appetire. Infatti essa sarà una con se stessa solo quando avrà di fronte a sé un altro appetire, ossia un’altra autocoscienza. Oggetto della Begierde sono prima gli 'oggetti del mondo', poi 'la vita' e infine 'un’altra autocoscienza', perché nel fondo di siffatto appetire l’autocoscienza cerca propriamente se stessa e si trova nell’altro. Desiderare la vita significa che tutti gli appetiti particolari sembrano avere questo scopo: essere appetito di essere se stessi. Secondo Hegel, l’esistenza umana non è possibile se non laddove c’è questo qualcosa che si chiama Leben, vita biologica, vita animale. La vita, che costituisce la condizione del desiderio, è proprio tale movimento, ossia l’attività dello scindersi in se stessa pur rimanendo una nell’atto del separarsi da sé: essa è ad un tempo l’irrimediabilmente altro e il medesimo, per cui è veramente l’altro dell’autocoscienza.

L’autocoscienza in quanto vita, coscienza vivente si realizza attraverso l’incorporazione dell’oggetto, ripristinando in tal modo l’identità con sé mediante la distruzione dell’esteriorità; l’autocoscienza in quanto coscienza di sé si troverà dinanzi un oggetto già mediato dal lavoro del sé, cioè non più un oggetto che è mera esteriorità, ma un’alterità autocosciente, in altre parole l’oggetto della coscienza sarà il sé, das Selbst. Il ritorno del sé dall’alienazione nell’alterità alla propria identità può essere realizzato solo mediante un’altra autocoscienza: il desiderio che prima si rivolgeva ad un semplice oggetto vivente si rivolgerà ad un’altra autocoscienza.

La duplicità dell’oggetto cambia lo statuto del desiderio, che non è più soltanto desiderio o meglio 'appetito animale' ma 'desiderio umano', antropologico: il 'bisogno' della coscienza vivente diviene su un piano più alto avvertimento doloroso della 'mancanza' propria della coscienza di sé, che riflette la contraddittoria distinzione tra il Selbst e il Bewußtsein, in cui si trova spaccato il soggetto. La Begierde da semplice spinta istintuale, Streben, volta al soddisfacimento diviene desiderio dell’altro come soggetto. Qui ha luogo una dicotomizzazione del desiderio tra i due poli della vita e del riconoscimento dell’altro, Anerkennung des Anderes, che si originerà nella distanza apertasi tra la coscienza vivente e l’autocoscienza.


Il desiderio e la dialettica del riconoscimento

Nel pensiero hegeliano, sebbene l’appetito venga appagato e l’oggetto consumato ossia negato, essi si riproducono incessantemente, indipendentemente dal tipo di appetito e di oggetto: l’alterità è essenziale allo sviluppo dell’autocoscienza, come dimostra il succedersi degli appetiti. Ma l’autocoscienza può raggiungere il proprio appagamento solo se l’oggetto che le si presenta dinanzi è un’autocoscienza, perché solo in tal caso l’oggetto è tanto io quanto oggetto: se condizione dell’esistenza dell’autocoscienza è l’esistenza di altre autocoscienze, ne consegue che la vita deve necessariamente manifestarsi come un’altra Begierde. Come osserva Hyppolite:

La vita è solo l’elemento della sostanzialità, l’altro dall’io; ma basta che la vita divenga per me un’altra autocoscienza – un’autocoscienza che mi appare contemporaneamente estranea e la stessa, nella quale l’appetito riconosce un altro appetire e dà su questo – ed ecco che in tale duplicazione di sé l’autocoscienza raggiunge se stessa.(22)

Si tratta di un’unità, di un conoscere duplicato nel trovare se stesso: tale è appunto il movimento del riconoscersi delle autocoscienze (Bewegung des Anerkennens). L’Io, in quanto coscienza che rivela se stessa e l’altro da sé, contiene in sé la contraddizione, per la quale l’oggetto da una parte gli si oppone quale esistenza indipendente ed al contempo è dentro di esso, viene «risucchiato», «fagocitato» nel suo spazio-tempo interiore, sotto forma di immagine e rappresentazione. Non bisogna dimenticare che l’autocoscienza è l’identità dell’identità e della differenza, laddove essa mira a rendere l’alterità simile a sé. È per questo che il giovane Hegel in un frammento, forse del 1795, dedicato all’analisi dell’amore (cfr. Hegels theologische Jugendschriften, a cura di Nohl, Tübingen 1907), individua nell’amore il momento in cui ciò che è due diviene uno senza eliminare completamente la dualità;

La religione è una con l’amore. L’amato non ci è opposto, è uno con la nostra essenza: in lui vediamo solo noi stessi, e tuttavia non è noi: miracolo che non siamo in grado di capire.(23)

Data l’uguaglianza qui espressa da Hegel tra la religione e l’amore, potremmo parafrasare quanto egli dice evidenziando che dinanzi all’oggetto d’amore, che sia l’altro uomo/donna o dio, il desiderio del soggetto umano è quello di renderlo simile a sé quindi di «as-similarlo», (che letteralmente significa 'rendere simile' ed etimologicamente viene appunto da ad e similis) a sé. Hegel credette, all’epoca della stesura di questo frammento giovanile, di avere trovato nell’amore il contenuto più specificamente umano dell’esistenza dell’uomo e di avere descritto per la prima volta la dialettica di questa esistenza, che la distingue dalla mera esistenza animale. Descrivere l’uomo come amante voleva dire per Hegel descrivere l’uomo come specificamente umano e diverso dall’animale, così commenta Kojève(24). L’amore è un fenomeno proprio dell’uomo, dato che l’amante desidera un altro desiderio (il desiderio o l’amore dell’altro) e non una realtà empirica.

Ma nella Fenomenologia dello spirito Hegel sceglie un’altra strada, perché da un lato l’amore ha carattere «privato» (non si può essere amati che da pochissime persone, mentre si può essere riconosciuti universalmente) e dall’altro gli manca «la serietà (Ernst), il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo»(25). Nell’amore e nella religione il riconoscimento non è stato ancora elaborato in una forma dialettica: qui infatti, mancando il rischio della vita, non è stato sviluppato il momento della negatività; il desiderio vuole semplicemente possedere o assimilare il desiderio dell’altro. Nella Fenomenologia invece l’incontro delle autocoscienze si manifesta come lotta delle autocoscienze per farsi riconoscere. La Begierde piuttosto che appetito o desiderio dell’amore è ora aspirazione al riconoscimento di una coscienza che appetisce o che desidera.

Nella Fenomenologia l’amore e il desiderio dell’amore divengono desiderio di riconoscimento e lotta mortale, Kampf auf Leben und Tod, per la sua soddisfazione; il riconoscimento reciproco che ha luogo nell’amore diviene qui il riconoscimento sociale e politico per mezzo dell’azione, spiega Kojève. In siffatta opposizione delle autocoscienze occorrerà che solo una delle due si elevi al di sopra della vita, dell’istinto di sopravvivenza e non lo subisca fino alla schiavitù, fino ad asservirsi, rischiando la propria vita ed accettando conseguentemente di perderla in questa lotta per il riconoscimento. Se entrambe le autocoscienze rischiassero la propria vita, allora non potrebbe aver luogo il riconoscimento, come acutamente osserva Kojève. Perciò una delle due deve accettare di perdere la propria libertà, da qui la necessità della relazione asimmetrica signore-servo. Hegel usa il termine Knecht, che corrisponde al latino servus, il cui significato è strettamente legato al verbo servare, che significa conservare: e invero il servo preferisce realmente conservare la vita, rinunciando alla propria libertà. Il signore invece si eleva al di sopra della vita, che resta la condizione del suo emergere come autocoscienza, mettendo in gioco la stessa vita e liberandosi così dall’unica schiavitù possibile, quella della vita.

Come sostiene Hyppolite, la morte però risulta essere solo una negazione naturale, non una negazione spirituale; occorre perciò un’altra esperienza in cui la negazione sia spirituale, cioè una Aufhebung che conservi e neghi ad un tempo. Tale esperienza è rappresentata dal lavoro del servo e dal lungo lavorio della sua liberazione(26).

Si potrebbe porre ora la domanda se il desiderio o appetito, che dir si voglia, abbia, ancora un ruolo fondamentale all’interno della dialettica signoria-servitù, ossia in Autonomia e non – autonomia dell’autocoscienza. Signoria e servitù, dove il termine Begierde appare solo cinque volte (mi riferisco al testo originale tedesco). Ebbene se Hyppolite, il più fedele interprete della Fenomenologia hegeliana, può dire che «[…] la Begierde umana si trova solo quando ne vede un’altra, o meglio quando si dirige su un’altra e diviene appetito di essere riconosciuta e dunque di riconoscere se stessa»(27) e lo stesso Hegel afferma esplicitamente che «Il lavoro […] è desiderio tenuto a freno (gehemmte Begierde), è un dileguare trattenuto, e ciò significa: il lavoro forma, coltiva»(28), potremmo rispondere con la Butler che in Signoria e servitù l’appetito, il desiderio sia aufgehoben:

In “Signoria e servitù” il desiderio è aufgehoben; esso è cancellato e pur tuttavia conservato, vale a dire trasformato in una modalità di lotta dell’uomo interiormente più complicata. Considerato come il progetto meno sofisticato dell’autocoscienza, talvolta il desiderio viene liquidato come non avente più un ruolo ontologico in questa sezione; può dirsi essere soppiantato dalla lotta per il riconoscimento e dalla dialettica signore-servo, ma il significato di “soppiantato” deve essere considerato criticamente. Fintanto che rimaniamo all’interno dell’esperienza dell’autocoscienza, e “Il desiderio in generale” ne è il carattere essenziale, allora il dramma del riconoscimento e del lavoro deve essere visto come mutamento del desiderio; invero ciò che vediamo in questo capitolo è la graduale specificazione del desiderio: l’autocoscienza come desiderio in particolare. La nozione di desiderio perde il suo carattere reificato di universale astratto e si pone nei termini di un’identità incarnata. Per Hegel il lavoro è “desiderio inibito” e il riconoscimento diviene la forma più sofisticata di riflessione che promette di soddisfare il desiderio.(29)

L’esperienza del riconoscimento e quella del lavoro devono essere visti come un diverso modo di presentarsi da parte del desiderio: perché per Hegel il riconoscimento attraverso la lotta è una forma più sofisticata di riflessività dell’autocoscienza che promette l’appagamento del desiderio, ed il lavoro è desiderio inibito. Al desiderio come consumo dell’altro in quanto oggetto da assimilare e desiderare si è sostituita l’Aufhebung come forma astratta e logica dello svolgersi dell’esperienza. L’autocoscienza si scopre esistere essenzialmente come potenza negativa sia nell’esperienza del riconoscimento che nell’esperienza del lavoro.


Il destino della natura come momento di disgiunzione tra Kojève ed Hegel

In una lettera a Tran Duc Thao, datata il 7 ottobre 1948, Kojève scrive molto chiaramente:

Ho fatto un corso di antropologia filosofica servendomi dei testi hegeliani, ma dicendo solo ciò che ritenevo essere la verità, e trascurando tutto ciò che mi sembrava essere, in Hegel, un errore.(30)

Con ciò il filosofo ci dice che non intende realizzare un commentario della Fenomenologia, bensì un’interpretazione. Si propone di trovare le premesse profonde del pensiero hegeliano e ricostruirle logicamente; il “desiderio di desiderio” ritiene sia una delle premesse fondamentali in questione.

Il desiderio di cui parla Kojève è divenuto qualcos’altro rispetto al desiderio, all’appetizione hegeliana: è propriamente “desiderio antropògeno”, il quale sta ad indicare il desiderio di un’assenza; un’assenza è un vuoto nello spazio-tempo. Ragion per cui soddisfare un desiderio significa riempire un’assenza mediante un’altra assenza, un vuoto mediante un altro vuoto. L’essere che attraverso l’azione riempie un vuoto mediante un altro vuoto a sua volta non è che un vuoto nello spazio-tempo cioè nel mondo naturale, è cioè esso stesso la presenza di un’assenza. Kojève sostiene esplicitamente:

l’uomo in quanto tale non è che un vuoto nel mondo naturale, un qualcosa in cui la natura non esiste.(31)

Vorrei invitare il lettore a non perdere mai di vista il senso del passo citato, perché è proprio da qui che comincia la frattura tra il desiderio antropògeno kojèviano e l’appetizione hegeliana. A questo punto del nostro discorso dovremmo porci una questione dal significato più ampio, ossia: quale destino segue la natura in Kojève e quale in Hegel?

Quando il filosofo russo afferma che l’uomo è «un qualcosa in cui la natura non esiste», è ovviamente semplice obiettare che l’uomo, come le cose, faccia parte della natura, ma il punto è che l’uomo è presente in essa solo in quanto presenza di un’assenza, dell’'assenza appunto in lui della natura': attraverso il “desiderio di desiderio” l’uomo si è costituito come 'radicalmente altro rispetto alla natura'. Egli è divenuto altro rispetto all’animale, che costituisce ormai solo il suo supporto biologico. Il desiderio è in Kojève una sorta di negazione, che non può risolversi in una concezione inclusiva dell’essere, ma sta ad indicare invece:

una differenza ontologica tra la coscienza ed il suo mondo, differenza che non può essere superata.(32)

Ed il desiderio non è altro che la molla della negazione non ancora realizzata del dato, vale a dire della natura, la negazione della naturalità dell’essere identico: il desiderio è libertà, allontanandosi in modo radicale dalla necessità imposta dalla natura L’uomo, che è desiderio, è completamente dalla parte della storia e dello spirito: in lui la naturalità è residuale. Premessa di ciò è che il désir kojèviano, a differenza della Begierde hegeliana, della quale continueremo a parlare più avanti, non ha più nulla di naturale, di pulsionale o di animale:

Contrariamente alla tesi hegeliana per cui il desiderio è anche esso stesso una manifestazione della necessità biologica, Kojève inverte la relazione e sostiene che il desiderio è la trascendenza del biologico, nella misura in cui il biologico è concepito come un set di leggi naturali prefissate.(33)

Dunque Kojève si allontana, consapevolmente, dalla tradizione spinoziano-hegeliana, in cui la radice del desiderio è accomunata a quella delle passioni, che fanno tutt’uno con la natura umana, la quale è desiderio e ragione ad un tempo. Nella tradizione filosofica che giunge fino ad Hegel desideri e passioni, sebbene gestibili, non possono essere elusi ma soprattutto non possono essere usati contro la natura, in quanto l’uomo non è altro da loro. Nella dottrina hegeliana l’uomo non smette e non rinnega mai la propria origine servile: 'rimane un animale che si accultura'; ed il desiderio si presenta come trait d’union tra uomo e natura. Nel pensiero di Kojève invece il desiderio non unisce più uomo e natura, ma al contrario permette all’uomo di trascendere la natura, di staccarsene. La disgiunzione tra coscienza umana e mondo naturale è in Kojève così radicale che si può pensare che la stessa realtà umana venga privata di un’espressione sensibile o naturale, che invece alla visione antropologica hegeliana è coessenziale quanto la razionalità.

Dunque 'l’uomo kojèviano è la stessa negazione della natura'. È l’assenza dell’essere reale o naturale, ed in quanto tale è 'l’essere ideale' e la sua esistenza è 'l’esistenza umana o storica', l’esistenza libera che coincide con la nullificazione permanente nel mondo naturale; ed il desiderio è progetto idealizzante e in quanto tale designa la differenza ontologica tra mondo umano e mondo naturale.

Alla base di tale visione dell’uomo e della natura è la netta presa di distanza da parte di Kojève dalla concezione hegeliana secondo la quale le categorie ontologico-dialettiche quali l’Essere, il Divenire e la Negazione sono estese anche alla Natura; ciò è ingiustificato per Kojève, il quale considera queste sintetizzate nell’azione dell’uomo e tale ontologia dialettica propria del mondo storico. Il fondamento ultimo della natura è per Kojève l’identico Essere-statico-dato (Sein) ed in esso non vi è nulla di comparabile ad un’Azione (Tun) negatrice, che connota l’esistenza specificamente umana, storica.

Il monismo ontologico hegeliano diviene quindi con Kojève uno schietto dualismo: da una parte vi è il mondo della natura, dall’altra quello dell’uomo, della storia; mentre il pensiero hegeliano, secondo Kojève, rimarrebbe segnato dall’identità, avente il proprio paradigma nella filosofia greco-pagana, in contrapposizione alla scoperta della negatività e dell’azione, le quali, ispirate dal pensiero storico cristiano, contraddistinguono il mondo umano di Kojève.

Nnell’ipotesi dualistica di Kojève l’ontologia descrive separatamente l’Essere che si realizza in quanto natura e l’Azione che nega l’Essere e si realizza (nella natura) in quanto Storia: 'natura e storia', 'natura e spirito' risultano essere completamente separati. Nel pensiero di Kojève vi è meno un’assimilazione dialettica di soggettività e mondo e viceversa, che un’azione unilaterale sul mondo da parte della coscienza. Qui è molto chiara la distanza dal pensiero hegeliano, in cui il rapporto tra coscienza e mondo, tra natura e spirito è dialettico e la coscienza ha un rapporto dialettico con la natura piuttosto che trascenderla.

Bisogna inoltre osservare che nel pensiero di Kojève vi è una centralità della prospettiva antropologica; egli trasforma consapevolmente la dialettica speculativa hegeliana in antropologia dualista ed il suo dualismo natura-storia(34) sta ad indicare una radicale differenza ontologica: l’essere dell’uomo non è l’essere della natura. L’essere naturale è donné naturel, è identico a sé; l’essere storico è atto di differenziazione e autodifferimento mediante il negativo che scinde natura e storia. Il reale, secondo Kojève, è dialettico solo perché il mondo naturale comprende l’uomo: i fenomeni naturali sono dialettici in quanto radicati nel processo antropogenico. La dialettica della natura per Kojève è un assurdo, esisterebbe per così dire solo nell’immaginazine schellinghiana di Hegel.

È importante a questo punto del nostro discorso enucleare un’importante conclusione: quando Hegel parla di Geist, Kojève lo interpreta come uomo, intendendo cioè che è l’uomo a fondare l’essere come atto della negazione, che insinua il non-essere, il divenire e la trasformazione nell’uniformità ciclica dell’universo fisico. La negatività non è se non nella misura in cui è negazione dell’identità, differenza che nega la natura: in tal modo l’esistere della negatività è la libertà umana, di cui la Fenomenologia rappresenta la dialettica esistenziale. Libertà, negatività e lavoro costituiscono una sola articolazione nell’ontologia dualista di Kojève; tale libertà è l’essenza dell’uomo che si compie nell’atto dell’oltrepassamento del dato:

Il lavoro che esemplifica l’essere umano come trascendente la natura e che determina il riconoscimento dell’Altro è definito azione storica. L’azione storica, in quanto efficace trasformazione del dato biologico o naturale, è il modo attraverso il quale il mondo della sostanza viene riforgiato come mondo del soggetto.(35)

Per esistere in quanto uomo ed essere in atto l’uomo deve essere la negazione della natura, deve negarla attivamente: egli è “negatività” e non “identità” o sostanzialità. L’uomo può esistere solo a spese della natura: la presuppone sì, tanto alla sua nascita che nella sua esistenza, ma nasce ed esiste solo nella misura in cui nega questa essenza. La realtà umana non si attualizza che attraverso la lotta per il riconoscimento all’origine e attraverso il lavoro del servo poi. È attraverso il lavoro che l’uomo mette al posto del mondo naturale, che egli nega (nel lavoro) appunto, il mondo tecnico o culturale (storico) dove egli vive in qualità di uomo.

Rispetto al testo hegeliano della Fenomenologia l’interpretazione di Kojève è naturalmente troppo esclusivamente antropologica ed orientata in una direzione spiccatamente esistenzialistica. Perché per Hegel se la conoscenza assoluta non è una teologia essa non è neppure un’antropologia, ma è la scoperta dello speculativo: sono infatti riconoscibili due aspetti del pensiero hegeliano, vale a dire sia il pensiero della storia, la concreta avventura umana, sia l’avventura dell’essere; Hegel parla dell’assoluto e dell’uomo, in quanto conoscenza assoluta, al di là della storia, del divenire e della temporalità.

Kojève restringe la negazione ad un potere creativo che l’essere umano mostra di fronte alla realtà esterna: la negazione è un’azione di origine umana che viene applicata dall’esterno alla realtà del non umano; mentre la dottrina hegeliana della negazione include la differenza tra natura e realtà umana come differenza costitutiva o interna: la negazione è costitutiva della realtà esterna. Se per Kojève la negazione appartiene esclusivamente alla coscienza umana attiva e creatrice, per Hegel la negazione è presente già nell’oggetto in cui la coscienza umana s’imbatte. Kojève intende il desiderio come lo sforzo umano di trasformare ciò che appare alieno e ostile alla volontà umana cioè la natura; il desiderio consente di trascendere la natura; per Hegel invece la natura non solo è condizione necessaria, ma essa non viene annientata attraverso il desiderio di desiderio, così che il desiderio rimane il tramite tra la coscienza e la natura. Il filosofo tedesco considera il desiderio e quindi il corpo come il medio, e lo spirito rappresenta la sintesi di determinatezza e libertà:

Il corpo è il termine medio per mezzo del quale io m’incontro con il mondo esteriore in generale.(36)

Nello Spirito soggettivo dell’Enciclopedia, precisamente nel capitolo sull’Antropologia, Hegel sostiene che tra l’anima(37) (Seele) ed il corpo ( Leib) vi è un’unione più interiore che tra il restante mondo esterno e lo spirito, perciò l’ordine della natura nel corpo non impedisce, ma anzi rende possibile come libertà immediata la mediazione della libertà spirituale, ne costituisce la condizione non sufficiente, ma necessaria.

Detto altrimenti, il dominio esercitato dall’anima sul corpo, grazie alla libertà di cui quest’ultima gode nel corpo, costituisce la condizione necessaria di siffatta unione interiore tra anima e corpo; l’attività esercitata in modo immediato dall’una sull’altro non è semplicemente negativa: la natura offre nel pensiero hegeliano la condizione necessaria ma non sufficiente per lo sviluppo della spirito.

Allora il discrimine tra la visione hegeliana della natura e quella kojèviana è precisamente nel fatto che, come afferma Masullo, «la dialettica comincia ad esistere nella vita animale»(38), dove attraverso l’anima inizia a svilupparsi, la «contraddizione concreta tra l’alterità esteriore e la sua negazione interiorizzante»(39).

Sappiamo che in natura non è la libertà, ma la necessità a dominare, ma pure nell’animale, nell’individuo vivente si realizza, asserisce Hegel, una necessità più alta di quella che regna negli esseri privi di vita: allora secondo Hegel con l’appetito sessuale, nel rapporto sessuale, l’individuo si trova al limite più alto della natura vivente, si trova per così dire ai confini dello spirito: l’animale cerca di uscire dalla propria dolorosa contraddizione, cercando di relazionarsi ad un altro «che non sia rispetto a lui mera opposizione di esteriorità, bensì uguaglianza d’interiorità»(40).

Dunque la natura attraverso l’appetito-desiderio offre le condizioni della sua negazione nello spirito, ma nello spirito la natura non viene soppressa bensì solo tolta e superata (aufehoben).

Nello Hegel delle Aggiunte (Zusätze) all’Enciclopedia si può chiaramente discernere che il passaggio dalla natura alla cultura, hegelianamente dalla natura allo spirito, non solo avviene in virtù dell’appetito-desiderio e attraverso il rapporto sessuale, ma che la natura abbia fornito una base reale, che cioè l’universalità specifica, la Gattung, sia pervenuta a determinazioni tali, nel processo inizialmente casuale di organizzazione naturale, da rendere finalmente possibile, ma non «produrre», l’avvento dell’universalità non specifica, del mondo culturale, del mondo dello spirito. In altri termini la natura ha dovuto offrire le condizioni della sua negazione nello spirito, ed è perciò che nello spirito la natura non è né soppressa, né conservata ma «tolta e superata», mediante il differimento della soddisfazione sessuale:

Questo superamento della differenza consiste nel fatto che l’animale consuma (verzehrt) ciò che nella natura esterna gli è destinato, mantenendosi mediante ciò che consuma. Così, mediante l’annullamento dell’altro che sta di fronte all’animale, viene nuovamente posta la relazione originaria semplice con sé e la contraddizione in essa contenuta.

Perché la contraddizione si risolva veramente, è necessario che l’altro, al quale l’animale si rapporta, sia eguale a lui. Questo avviene nel rapporto tra i sessi (Geschlechtverhältniss); qui ciascuno dei due sessi non trova un’esteriorità estranea, ma se stesso o il genere comune ai due (Gattung). Il rapporto tra i sessi è perciò il punto più alto della natura vivente; a questo livello essa è sottratta nella misura più ampia alla necessità esterna …(41)

Come abbiamo già affermato più sopra, l’esistenza umana può realizzarsi, secondo Hegel, solo laddove c’è Leben, quindi vita meramente biologica, animale. Perciò, portando alle estreme conseguenze le rispettive posizioni del filosofo tedesco e di quello russo per quanto concerne il rapporto tra mondo naturale e mondo umano, diremo che la Begierde hegeliana, l’appetizione crea innanzitutto una discrepanza ontologica tra gli individui non viventi e l’animale e solo successivamente una distinzione tra l’animale e l’uomo; mentre il désir kojèviano segna immediatamente una frattura ontologica tra l’animale e l’uomo.

In conclusione, se per Kant la ragione come libertà, in quanto potere di dare assoluto inizio ad una catena di cause ed effetti, comporta necessariamente l’ammissione di una natura-non naturale (non-fenomenica) dell’uomo, di una capacità d’iniziativa data già perfetta all’uomo, di una qualità positiva in quanto posta nell’uomo in virtù della sua universalità specifica; per Hegel invece è la natura a costituire la condizione necessaria ma non sufficiente per la libertà e la razionalità umane. Attraverso questa via Hegel può ripudiare ogni fondazione metafisica della razionalità e della libertà dell’uomo.


Note con rimando automatico al testo

1) Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito, Milano, Rusconi 1995, p. 265.

2) G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle Scienze Filosofiche in compendio, Filosofia dello spirito, Torino, Utet, 2005, § 426, Aggiunta, pp. 268-269.

3)Treiben significa spingere, da questo verbo deriva il freudiano Trieb, 'pulsione'. Il termine Trieb pone l’accento, come spiegano Laplanche e Pontalis nell’Enciclopedia della Psicoanalisi, non su una finalità precisa ma su un orientamento generale: sottolinea il carattere irreprimibile della spinta piuttosto che la fissità della meta e dell’oggetto. Quando Freud parla di Instinkt, 'istinto', si riferisce invece ad un comportamento fissato ereditariamente, presente in tutti gli individui di una stessa specie, preformato nel suo svolgimento e adattato al suo oggetto. Il Trieb ha una fonte, un oggetto, una meta; l’oggetto è variabile, contingente e viene scelto in funzione delle vicissitudini della storia del soggetto.

4) Alexandre Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, Milano 1996, p. 17.

5) Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 263.

6) Jean Hyppolite, Genesi e struttura della “Fenomenologia dello Spirito” di Hegel, La Nuova Italia, Firenze 1999, p. 196.

7) Dal latino ambigere, che, composto da amb e ago, significa propriamente 'spingere da una parte e dall’altra', 'mettere sui piatti della bilancia', quindi lasciare in sospeso, dubitare, discutere.

8) Mi riferisco qui tanto alla Fenomenologia dello Spirito del 1807 quanto al capitolo sulla Fenomenologia facente parte della sezione dello Spirito soggettivo dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche.

9) Bruno Moroncini, Teoria del discorso – Jacques Lacan o la sovversione del desiderio in Bruno Moroncini, Il discorso e la cenere, Guida, Napoli 1988, p. 203.

10) Ibidem, p. 190

11) Ibidem, p. 190.

12) Cfr. Luciano De Fiore, Fine della storia. Eclisse del desiderio, in Desiderio e Filosofia, a cura di M. D’Abbiero, Guerini e Associati, Milano 2003, p. 120.

13) I principi dell’appetitus, del conatus e della cupiditas, che ricoprono un ruolo importante nell’Etica di Spinoza, potrebbero riflettere l’intero spettro semantico della Begierde hegeliana, come afferma Moroncini in Teoria del discorso – Jacques lacan o la sovversione del desiderio: cfr. B. Moroncini, Il discorso e la cenere, cit., p. 203.

14) Nell’approccio alla problematica del desiderio, che presuppone la distinzione preliminare tra il bisogno, il desiderio e la domanda, Lacan ha dinanzi a sé, come punto di riferimento, la concezione freudiana delle prime esperienze di soddisfazione del bambino, nelle quali Freud trova l’essenza del desiderio e la natura del suo processo. E tra queste vi è il bisogno di alimentarsi.

15) Hyppolite, op. cit., p. 196.

16) G. W. F. Hegel, Werke 4, Nürnberger und Heidelberger Schriften 1808-1817, § 24, p. 117.

17) Cfr. Franco Chiereghin, La fenomenologia dello spirito di Hegel, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1994, p. 86.

18) B. Moroncini, Teoria del discorso – Jacques Lacan o la sovversione del desiderio in B. Moroncini, op. cit., p. 210.

19) Hegel, Enciclopedia delle Scienze Filosofiche, Filosofia dello spirito, § 427, Aggiunta, cit., p. 270.

20) B. Moroncini, Teoria del discorso – Jacques Lacan o la sovversione del desiderio in B. Moroncini, op. cit., pp. 198-199.

21) F. Chiereghin, La fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., p. 87.

22) J. Hyppolite, op. cit., p. 199.

23) G. W. F. Hegel, Scritti teologici giovanili, p. 528.

24) Cfr. A. Kojève, op. cit., pp. 636-637.

25) J. Hyppolite, op. cit., pp. 200-201.

26) Cfr. J. Hyppolite, Genesi e struttura della “Fenomenologia dello Spirito” di Hegel, p. 208.

27) Ibidem, p. 203.

28) Hegel, Fenomenologia dello spirito, p. 289.

29) Judith Butler, Subjects of desire, Hegelian Reflections in Twentieth-Century France, Columbia University Press, New York 1987, p. 43.

30) Questa lettera è citata in Dominique Auffret, Alexandre Kojève. La philosophie, l’État, la fin de l’Histoire, éditions, Grasset & Fasquelle, Paris 1990, p. 344.

31) Alexandre Kojève, Linee di una fenomenologia del diritto, Jaca Book, Milano 1988, p. 226.

32) J. Butler, op. cit., p. 69.

33) J. Butler, op. cit., p. 67.

34) È importante ricordare che tale dualismo s’ispira alla contrapposizione sviluppata da Koyré tra tempo cosmico e tempo storico; cfr. Alexandre Koyré, Hegel a Jena, in Interpretazioni hegeliane, La Nuova Italia, Firenze 1947.

35) J. Butler, op. cit., p. 68.

36) Hegel, Enciclopedia, § 410, Aggiunta, p. 245.

37) Osserviamo qui che all’interno dell’Antropologia dello Spirito soggettivo l’anima è in der Mitte tra natura e spirito, rappresenta propriamente il passaggio dalla natura allo spirito: essa rimane da una parte spirito naturale, dall’altra è già spirito in cammino verso il suo compimento, ne costituisce l’inizio.

38) Aldo Masullo, Inconscio e repressione nella hegeliana filosofia dello spirito, in Id., La potenza della scissione, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997, p. 97.

39) Ibidem, p. 97.

40) Ibidem, p. 98.

41) Hegel, Enciclopedia, § 381, Aggiunta, p. 89.






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