NUDITA'
EMERGENZE

Nota introduttiva
Vulnerabilità, capacità di sopravvivenza, di Judith Butler


di Aldo Meccariello






Judith Butler è una geniale pensatrice del nostro presente, che da alcuni anni si è imposta all’attenzione del dibattito politico e filosofico internazionale per la sua riflessione sul rapporto tra soggettività, norme e violenza nell’epoca dei conflitti e della guerre globali. Teorica e attivista statunitense, docente di Letteratura comparata e Retorica nell’Università di Berkeley (California), la Butler si è sempre distinta in prima a fila per le battaglie a favore di lesbiche, gay, transgender intersessuali, contaminando la filosofia contemporanea con categorie come sesso, genere e identità. Infatti, nel 1990, pubblica il suo libro più importante, Gender Trouble (Scambi di genere), tradotto in venti lingue e ripubblicato nel 1999, oggi considerato libro-culto per la messa a fuoco della nozione di genere e di un nuovo statuto dell’umano. Nell’ultimo decennio, in particolare dopo l’11 Settembre, Judith Bultler ha imposto una nuova direzione al suo lavoro filosofico, centrando l’analisi sul tema della precarietà delle vite, della vulnerabilità dei corpi, della dipendenza della nostra vita dal riconoscimento dell’“altro”. In un memorabile saggio del 2004, Violenza, lutto e politica, ora in Vite Precarie (Meltemi 2004), la pensatrice americana si sforzava di individuare nel trauma della perdita il motivo per un nuovo legame sociale: la perdita e la vulnerabilità venivano proposti come elementi strutturali del nostro essere umani, animali sociali. Esporci all’altro, in qualsiasi forma, comporta la possibilità di perdere una persona cara, o la possibilità che un’altra persona ci faccia del male. “Ciò significa che ciascuno di noi in parte è politicamente costituito dalla vulnerabilità sociale del proprio corpo – in quanto luogo del desiderio e della vulnerabilità fisica, luogo di una dimensione pubblica a un tempo esposta e assertiva. La perdita e la vulnerabilità sono conseguenze del nostro essere corpi socialmente costituiti, fragilmente uniti agli altri, a rischio di perderli, ed esposti agli altri, sempre a rischio di una violenza che da questa esposizione può derivare” (Vite Precarie, ed. cit., p.40). Anche la dimensione politica è il luogo di una dipendenza reciproca (che contiene in sé il rischio della vulnerabilità e della perdita) che deve essere attentamente valutata, perché prestare attenzione a questa vulnerabilità significa forse “rivendicare soluzioni politiche e non militari, mentre negarla mediante un delirio di dominio (un delirio istituzionalizzato di dominio) non fa che alimentare gli strumenti della guerra” (ivi, p.49). Non è questo forse un modo – si chiede la Butler – di immaginare una nuova comunità?

Dopo l’11 settembre 2001, il delirio di onnipotenza di G.W. Bush si è materializzato nell’anatema: “o con noi o con i terroristi”, e affermazioni simili decidono arbitrariamente quali vite siano più degne di essere vissute, e quindi quali morti siano più degne di essere piante. L’asimmetria fra le vittime americane del crollo delle Twin Towers e le vittime irachene dell’esercito statunitense è devastante, come è devastante, anche dal punto di vista di una “presunta innovazione giuridica” la nozione di “detenzione infinita” dei prigionieri di Guantanamo Bay, sospesi in un limbo senza ritorno, solo perché considerati “nemici degli USA”. Lo scritto Detenzione infinita, ora anch’esso in Vite precarie, è infatti dedicato alla condizione dei detenuti di Guantanamo, che i media occidentali ci hanno mostrato impietosamente, spesso in televisione, come degli zombie bendati, ammanettati e incatenati. Fantasmi della violenza globale.

Il saggio Vulnerabilità, capacità di sopravvivenza, che qui presentiamo in traduzione italiana, è una gentile concessione dell’Autrice alla nostra rivista: si tratta di un testo inedito per il pubblico italiano che riprende e amplia, in un certo senso, lo scritto sopra richiamato e sviluppa il medesimo tema: come si costruisce la legittimazione della violenza nella cultura occidentale, in specie, degli ultimi decenni.

Perché la perdita di alcune vite suscita orrore e scandalo, mentre quella di altre ci lascia nella perfetta indifferenza? In questi “tempi caldi” di guerra globale e di lotta al terrorismo – sostiene la nostra pensatrice – si afferma un’idea normativa del “noi” che concede il riconoscimento solo sulla base dell’affinità e della conformità culturale; gli “altri” che fuoriescono da questo schema sono “fuori dell’umano”.

Ripensando il lavoro psicoanalitico di Melanie Klein (cfr. infra: “[…]potrebbe sembrare strano rivolgersi a Melanie Klein, a tal proposito, ma credo che si potrebbe vedere nel suo approccio ai sentimenti morali, specialmente nel suo trattamento del senso di colpa, un insieme di presupposizioni sulla sovranità politica che si iscrivono a un livello psichico”), Judith Butler mostra le radici sociali di ogni concezione psichica del , nel senso che la sopravvivenza del è dipendente da quella dell’altro, anche dal punto di vista psichico. In un passo ulteriore del saggio, leggiamo:

La mia scommessa è che Klein in questo abbia ragione, perfino mentre si oppone alla sua stessa intuizione, insistendo sul fatto che è la capacità di sopravvivenza dell’ego (ego’s survivability), alla fine, il punto in questione. Perché proprio l’ego? Dopo tutto se la mia capacità di sopravvivenza dipende dalla relazione con altri, con un “tu” o con un insieme di “tu”, senza i quali non posso esistere, allora la mia esistenza non è soltanto mia, ma va trovata al di fuori di me, in questo intreccio di relazioni che precede e oltrepassa i limiti della mia persona”.

Qui Butler sviluppa una tesi già sostenuta in Critica della violenza etica
(Feltrinelli, Milano 2006), relativa alla concezione relazionale dell’io. L’io è reso possibile dalle relazioni con gli altri, e questa dipendenza, che è evidente sin dalla prima infanzia, si manifesta nel mondo adulto in seguito ad “una perdita”, quando ogni lutto getta ciascuno di noi in una condizione di spossessamento.

Il senso estremo di protezione e di difesa che si materializza nel porre confini e/o erigere muri, deve essere dunque ripensato per lasciare spazio ad un’idea di apertura e di condivisione che renda possibile e vivibile la vita umana. Il confine tra il e l’altro, tra il noi e il nemico, tra l’umano e il disumano deve essere considerato “permeabile”, se vogliamo sopravvivere in quanto individui e in quanto comunità globale, e ciò contrariamente a quanto è avvenuto nell’America di Bush dopo l’11 Settembre, costellata di gesti apocalittici inquietanti come le frasi del Presidente sotto forma di messaggi alla Nazione: l’America libererà il mondo dal Male, è vicino il giorno del giudizio, la liberazione è vicina.

La guerra di Bush dopo l’11 Settembre è stata la guerra legittimata a dispiegare il proprio potenziale distruttivo per difendere una comunità omogenea ed impermeabile, è stata la guerra dove si sono ammazzati e si continuano ad ammazzare i prigionieri e i civili inermi in Iraq e in Afghanistan, e quelli non ammazzati sono stati condotti a Guantanamo Bay come “combattenti illegali”.

Riportando alcuni versi dei prigionieri di Guantanamo, soggetti massimamente umiliati e disumanizzati, sottoposti a ripetuti abusi e sevizie (segnalo a tal fine un prezioso volumetto di Marc Falkoff, Poesie da Guantanamo, curato dalla sezione italiana di Amnesty International, Edizioni Gruppo Abele, 2008), Butler focalizza la natura sociale del corpo e della sua vulnerabilità, anche se “ciò non significa che la vulnerabilità possa essere ridotta alla dimensione dell’essere oltraggiato. In queste composizioni poetiche, il corpo è anche qualcosa che continua a vivere, respira, cerca di incidere nella pietra il proprio respiro; il suo respiro è precario, può venire fermato dalla forza della tortura di un altro”.

La poesia dei prigionieri può rivelarsi così come un tentativo estremo di appellarsi all’altro, evocando quel legame che solo consente agli uomini di sopra-vivere.



torna su