kainos - numero 8



NUDITA'
RECENSIONI


Federico Ferrari, Jean-Luc Nancy,
La pelle delle immagini,
Torino, Bollati Boringhieri, 2003, ISBN 88-339-1448-8


Un libro da guardare e da leggere insieme, costruito come una galleria di immagini, sempre posizionate sulla pagina sinistra, secondo uno schema spaziale che consente al lettore di spostarsi con lo sguardo dal testo all’immagine, o viceversa. Questa la prima caratteristica del lavoro di Ferrari e Nancy “La pelle delle immagini”, che fin dal titolo ci introduce in un ambito di riflessione assolutamente originale e accattivante. Qual è infatti la pelle delle immagini? Cosa possiamo intendere con questa espressione? Per rispondere bisognerà seguire le indicazioni presenti nel Preambolo, con cui questo libro si apre, presentandosi come una “deambulazione oziosa” tra ventisei immagini di nudo scelte arbitrariamente dagli autori, i quali si dichiarano pronti essi stessi a mettersi a nudo dinanzi alla critica, dopo essersi esposti “all’arte dell’incontro, incontro nudo con figure o momenti singolari di quel nudo che per se stesso interessa all’arte”(p. 7).

La pelle delle immagini è quella del nudo inteso nella sua più radicale nudità, che nulla ha da dire, che a nulla allude e che è semplicemente e immediatamente tale, mera apparizione istantanea, bagliore di una infinita messa a nudo. La scommessa di chi scrive è ovviamente audace: il testo infatti dovrà dire questa impossibilità di dire, dovrà guidare verso questa “verità direttamente sulla pelle” (p. 8). Si tratta della “verità che è vera solo nell’esporsi […]. Il nudo, infatti, rivela solo che non v’è nulla da rivelare, poiché esso è la rivelazione stessa, il rivelante e il rivelabile” (id.).

Ciò che si vuole scandagliare è dunque un limite, depositato nel cuore stesso dell’immagine, che è poi la sua superficie materiale, la sua pelle, quella che si nega al discorso e che in quanto pura esposizione, proprio come la pelle del nudo, diventa apparizione che non fa apparire nulla.

Ed è proprio questo grado zero del senso a costituire un prezioso paradigma per il pensiero, “la cui possibilità consiste, prima di tutto, nel mantenersi spoglio di significati dati e di figure già tracciate” (p. 9).

Lasciato il preambolo, entriamo nella galleria, che inizia con un capitolo dal titolo paradossale e sintomatico: Acefalo. La testa del libro, il suo incipit, è dunque acefalo, quasi a rimarcare che non ci si farà guidare da una direzione di senso, ma anzi si lavorerà in levare, per sottrazione di significati, proprio come è accaduto nell’incisione del XVII secolo Zeus e Antiope, la cui immagine ci offre il corpo nudo della donna perfettamente colorato, mentre le teste dei personaggi sono solo disegnate e risultano pertanto sottratte, appunto, poste in secondo piano. Nel dominio del nudo e dell’immagine, nell’esposizione della loro pelle, non c’è spazio per la significazione. E potremmo aggiungere che questa pelle è rappresentata qui proprio dal colore, che fa vibrare solo il nudo di Antiope.

I venticinque brevi testi, che si susseguono corredati di altrettante immagini, ci presentano ora l’unicità indicibile dell’apparire, nell’immanenza del corpo nudo e privo di perfezione di Betsabea, ora la spoliazione di senso della stessa raffigurazione, nella defigurazione realizzata da Bacon attraverso il nudo posto in movimento, e l’impoverimento quindi dell’immagine stessa, che è una caccia alla sua essenza, alla sua superficie, alla sua pelle.

Naturalmente la riflessione sulla nudità si accompagna spesso a quella sullo sguardo. In Humus, dedicato alle immagini di Adamo ed Eva nudi, esposti l’uno agli occhi dell’altra, è colto il “momento in cui la nudità accede alla propria rivelazione” (p. 43) divenendo la cifra stessa del peccato, in quanto “mancanza dell’abito di un’essenza” (p. 44) che rende pesanti e deformati i corpi, oggetto di vergogna al solo, primo sguardo.

In Incarnato l’attenzione è posta invece sulla “messa a nudo dell’incarnazione: un’incarnazione senza redenzione, senza spirito, senza Verbo” (p. 47) di cui resta solo “la palpabile materia del colore che fa la carne”, resa egregiamente da Lucian Freud nel quadro Girl with closed eyes. Qui “l’intimità, il più interno e il più nascosto, si fanno superficie” (id.) e gli occhi chiusi della donna dicono insieme il ritirarsi del soggetto e l’abbandono totale allo sguardo dell’altro, ossia ciò che consente al nudo di essere tale, di “incarnarsi nella sua realtà”. Analogamente Presenza ci offre un corpo nudo fotografato di spalle, senza volto, completamente esposto allo sguardo altrui e per questo estremamente intimo. Anche Scopolifia , che prende spunto da un’opera di Mulas, tematizza il piacere di guardare senza essere guardati, che si realizza nell’immagine del nudo di schiena, capace di neutralizzare lo sguardo del soggetto rappresentato.

Viceversa in Goya, gli occhi aperti e rivolti allo spettatore in modo ammiccante della Maya desnuda, in posa, risultano essere troppo intenzionali per una donna pronta a concedersi all’abbandono, tanto da indurre a riflettere sulla reale dimensione della sua nudità, quasi compromessa dal fatto di sfidare chi la guarda.

Ma sarebbe riduttivo fare del nudo l’oggetto di una mera visione, dal momento che esso è piuttosto “perturbazione dei sensi, di tutti i sensi in tutti i sensi” (p. 90) e la foto di Nan Golden, che ha per soggetto un transgender immerso in una vasca da bagno con gli occhi chiusi, è utile proprio ad indagare questa dimensione indefinibile, spazio incerto, oscillante, liquido che la nudità offre alla riflessione, come “transito ininterrotto del senso da un corpo all’altro” (p. 91). Anche in Kaos il nudo è presentato non come “bella forma”, oggetto di contemplazione, ma piuttosto come “caos nell’ordine del corpo”, dal momento che “conserva in sé tracce della deflagrazione da cui sorge la partizione del senso” (p. 56): non più disordine originario della materia, ma pur sempre materia, anche se figurata, pittorica, ritmata. E questa dimensione ritorna nella nudità del Cristo morto di Rosso Fiorentino, che lungi dal rappresentare la solidità di una posizione, come la verità dell’umanità nella morte, si presenta piuttosto come “deposizione di tutte le posizioni finite che non apre su nessuna trascendenza o sovressenza dell’arte” (p. 106). A nessun aldilà allude il nudo, nemmeno quello di Cristo, che si offre allo sguardo non come veritatis splendor, bensì come “liquido splendore di colori”.

In quanto esposizione, il nudo infatti esce da ogni posizione, ossia da ogni forma, ed è “apertura alla negatività della materia, alla sua resistenza ad ogni volontà di rappresentazione” (p. 113). E’ questa la pelle dell’immagine, ossia il suo lato materiale, ciò che resiste alla riduzione formale e che prende corpo, ad esempio, nelle combustioni di Burri. Ma questa resistenza dura il tempo dell’apparizione ed è perciò bagliore, lampo, che ha alle sue spalle le nubi minacciose della morte, proprio come la Donna allo specchio di Giovanni Bellini sembra suggerire.

Il tempo della nudità è effimero, finito, mentre nella pornografia, il corpo nudo non è più guardato per ciò che è, ma presentato piuttosto in una dimensione usurata, che rinvia alla ripetizione della scena finalizzata al godimento, come accade nella foto di Julien Daniel, in cui “la ragazza non è esibita in vista della nudità, ma in vista di un al di là del nudo dove si usa e si abusa del corpo, non più guardato, ma preso, manipolato, scosso” (p. 95). Il nudo come mezzo, dunque, e non come fine.

E se le immagini effettivamente scorrono in questa galleria virtuale in maniera del tutto discrezionale, confondendo le epoche storiche e i generi, a ben guardare un filo rosso sembra collegare invece i capitoli: i titoli iniziano infatti per le lettere dell’alfabeto (Acefalo, Betsabea, Carezza, Defigurazione) che si snodano dalla “a” alla “z”, e che forse dobbiamo intendere qui come la pelle della scrittura, ossia come ciò che resta se priviamo la parola scritta del suo significato, attraverso un processo ancora una volta di sottrazione, isolando ad es. la lettera “b” dal titolo “Betsabea”. Le singole lettere non presentano infatti alcun senso, sono ridotte a mera materia grafica sottratta all’ordine della significazione, pura apparenza, nudità.

Ed è qui che risiede forse la massima audacia di questo libro: tentare di esporre anche il lato materiale della scrittura, quel punto zero della sua immagine che ne costituisce insieme l’origine e la superficie e che si presenta appunto come l’alfabeto, pelle della scrittura.



(Stefania Astarita)


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