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NUDITA'
RICERCHE


Denudare il rito
Un approccio filosofico a una festa della santerìa cubana.



di Giuliano Lucarini




È possibile denudare un rito? Spogliarne il senso per riuscire a toccarlo? E sentirsi parte di esso, anche senza iniziazione?

Il rito prevede la conoscenza di ogni suo momento: il significato dei canti e delle danze, dei ritmi e della simbologia, della cosmologia ad esso legata e delle forze ancestrali che esso cerca di richiamare. Ognuno di questi aspetti va conosciuto, nominato, approcciato attraverso una serie di pratiche che trasformano il semplice curioso in fedele, adepto del nuovo culto. Ora egli è nel rito e i sacerdoti gli affidano un nuovo nome, per sancire la distanza dalla sua personalità precedente. Ora egli sa vedere il mondo da una prospettiva differente, conosce nuove logiche, nuovi concetti e nuovi sensi intraducibili agli occidentali, maturati in seguito al suo lungo e faticoso indottrinamento.

E l’occidentale cosa può fare per comprendere un rituale? Può farsi antropologo e vedere in quella festa coinvolgente una matassa di fili storici, culturali, etnici, grammaticali, religiosi che con pazienza e lucidità si mette a sbrigliare, ordinandoli nella stesura della sua esposizione, del suo racconto, saggio o conferenza che sia. Ciò che ne ricava è l’intreccio di differenti ordini di senso: il rito è un tessuto in cui compaiono i fili del gioco, della terapia, del potere, della religione, tutti legati da un comportamento collettivo multivoco e plurifunzionale(1).

Se entrambi questi approcci mirano al senso, o ai tanti sensi che può avere una cerimonia, un rito, una festa religiosa, denudare il rito significa spogliarlo dei suoi sensi, privarlo della veste concettuale o religiosa per lasciare che il vissuto parli da sé, della sua sola relazione non mediata da finalità investigative, utilitaristiche, religiose. Per fare ciò bisogna stare al gioco di uno sguardo che non focalizza e di un corpo che si concede all’atto mimetico pur senza sapere cosa sta mimando.

In questo modo sono riuscito a stare nel rito: danzando, cantando fonemi per me insensati, battendo le mani assieme agli altri, sincronizzandomi con una collettività che gradualmente intensificava le sue espressioni, facendosi via via più forte della sua unione e incitando sempre di più il danzatore centrale, che gradualmente si trasformava fino a perdere ogni contatto con la sua identità ed a cadere in trance.

Ho partecipato ad alcuni riti della santerìa cubana: questa è una forma religiosa popolare le cui pratiche derivano in gran parte da quelle degli yoruba della Nigeria – in particolar modo dal culto degli orishas – ma la cui forma ha assunto un’identità del tutto originale nel nuovo mondo, fondendosi sincreticamente con le icone dei santi cattolici. A Cuba i santi della nostra religione sono rappresentazioni di entità africane, gli orichas (o orishas), i quali hanno potere su alcuni elementi della natura e del mondo umano. Come gli dèi greci, gli orichas hanno una loro personalità, tutta costruita attorno agli elementi su cui essi hanno potere: c’è il signore del fuoco, che è irascibile e non sa contenere la sua forza, la signora del mare, che a volte è dolce come una risacca e a volte violenta come una tempesta, l’oricha delle malattie, che insegna a vincere le avversità ma che può anche punire attraverso piaghe e pestilenze. Ogni entità è completa, è meno vicina alla coerenza di un’idea e più simile alla complessità di un essere umano, con le sue virtù e i suoi vizi. Perciò la preghiera agli orichas non è un’invocazione a un dio irraggiungibile ma una convocazione: all’oricha si chiede di partecipare al rito, intervenendo al centro del circolo rituale, possedendo uno o più fedeli. In questo modo egli può parlare con i presenti, ascoltare le richieste dei vari adepti e interagire concretamente come un intermediario tra il mondo dei vivi e quello degli antenati. Per quando sintetica e incompleta, questa descrizione ci permette di comprendere di cosa stiamo parlando, qual è il rito in esame, e per comprenderlo abbiamo dovuto vestirlo di un senso dicibile. Un senso che ora cadrà, mostrandoci il corpo nudo del rito.

Orishas africani, santi cattolici, possessione, mondo dei vivi e dei morti, tutto ciò non appartiene alla nudità delle interazioni rituali. Questi sono vettori di senso, guide capaci di orientare il nostro guardare e dirigere le focalizzazioni nella compiutezza di una parola che, nominando, istituisce quello che stiamo vedendo. Ma io ho provato a guardarmi attorno mentre ero immerso nel rito e vedevo solo una folla di persone che cantavano in coro, rispondendo al cantante solista e battendo ritmicamente le mani. Una zona del circolo rituale era occupata da tre percussionisti che suonavano i loro tamburi in relazione ai canti. Una lieve ondulazione contagiava ogni partecipante, così che il circolo tutto si muoveva in sincronia, ondeggiando lievemente: destra-centro-sinistra-centro, come un pendolo. E proprio perché era un circolo, le attenzioni confluivano al centro, dove alcuni danzatori rituali iniziavano a scandire i loro passi, ognuno in profonda concentrazione su di sé, senza mostrare attenzione alla danza degli altri. La musica si intensificava e i danzatori si facevano sempre più assorti; il loro sforzo era tangibile, le loro espressioni avevano un impatto impressionante sui miei occhi stupiti.

Assecondavo lo stupore perché quello era il mio stato: sapevo ben poco di religione africana e non avevo una formazione da antropologo. Insomma, ero del tutto impreparato: non disponevo di strumenti per dirigere il fascino nell’ordine di un disegno concettuale e così non ho potuto far altro che abbandonarmi allo stupore(2). Una vera fortuna. Così ho aperto gli occhi, non per vedere qualcosa ma per sfiorare la nudità del rito e del suo senso. Un senso paradossale poiché è sfuggente alla sua stessa costituzione d’essenza: ogni parola che cerchi di afferrare, un particolare, un concetto, una struttura, di fatto non fa che togliere un velo ad una nudità che è sempre un passo più in la di ogni determinazione di senso(3), a mostrare non la sostanza ma la sua prassi, la sua origine pre-fenomenologica(4). La pelle del rito nudo è la sua originaria spartizione in un gruppo che danza, canta e suona. Il cosa danzi, a chi sia rivolto il canto, nonché l’organizzazione dei suoni sono questioni per gli antropologi, etnomusicologi o per i religiosi. Ma il senso dell’unione nuda sopravvive ad ogni sottrazione di senso, inafferrabile alla ragione perché la nudità si rivela come un continuo rimbalzo tra le parti partecipanti. È il movimento del danzatore a farsi ritmo dei tamburi? È il canto a chiamare il movimento? L’esposizione causale cade assieme alla veste del rito: la nudità è una spartizione d’essenza che dispiega un’alcova di espressioni cantate, suonate e danzate in un circolo. Allora il modello su cui riflettere deve nascere da questa singolare pluralità(5) che è il rito nudo. Una buona metafora per intenderlo è il riverbero, la risonanza.

Ogni suono, nel momento in cui suona, risuona in una cassa che lo amplifica, che lo rende udibile, che lo contiene: una frequenza non è mai pura, ma coesiste con il corpo che mette in vibrazione, che fa sì che quella nota fondamentale venga riconosciuta come il “la” di un violino o di un pianoforte, o di una voce(6). Analogamente possiamo intendere le danze, i canti e i ritmi della festa santèra come risonanze, come se il rito fosse un solo corpo che vibra in differenti aree della sua cassa armonica, spazi che tracciano la sua mappa espressiva. Queste risonanze non possono essere isolate ma vanno colte nella loro continua e trascendentale interazione, al punto che solo la loro relazione, privata di ogni sostanza, denudata di ogni ente relazionato, si pone come il nucleo originario di ogni essenza. Relazione come apertura in-essente che origina gli essenti, rito come corpus organico composto di corpi in interazione, o meglio, di un’interazione di corpi. Questi non sono soggetti intenzionali ma esseri umani nudi, denudati di ogni volere indipendente dall’architettura risonante a cui si sono esposti partecipando, sciogliendosi in una “soluzione rituale”. La frequenza con cui risuonano è il primo stimolo, il tocco che avvia lo scorrimento delle vibrazioni nei corpi danzanti, cantanti, percussivi. Nel caso della festa santèra cui ho partecipato è la voce a cominciare, ma subito dopo anch’essa entra nel gioco delle risonanze assieme a tutte le altre attività. Queste si influenzano a vicenda, arricchendosi di modalità espressive e stringendo relazioni sempre più fitte che fanno sì che il corpo rituale assuma la consistenza di un corpus organico.

L’osservatore in quanto agente intenzionale non c’è più, se entra nel rito: il rito nudo è fatto di corpi nudi. Allora posso ripensare al mio ingresso nel rito ed esporre le fasi di una spoliazione del soggetto:

1- Il soggetto è fuori.

All’inizio il soggetto è nel pieno delle sue capacità: è inserito in un ambiente quotidiano, si muove seguendo un suo volere, che trova compimento negli oggetti che egli di volta in volta focalizza. Un ritmo di tamburi attira la sua attenzione: egli si dirige incontro alla fonte del suono come all’oggetto del suo interesse, nella speranza di metterlo a fuoco, di osservarlo, di comprendere di che si tratta. Il suono proviene da una casa. Egli si avvicina, curioso.

2- Il soggetto è dentro.

Il soggetto viene accolto all’interno della casa: i ritmi sono molto più intensi, egli può percepire i canti e vedere le danze, nonché il circolo dei fedeli che danza e risponde al coro. Le pressioni sonore e corporee si fanno sempre più forti ad ogni passo che egli compie per avvicinarsi. La sua presenza non àltera lo svolgimento del rito, anzi egli si sente ben accetto e, senza smettere di osservare, comincia impercettibilmente a muovere le gambe – per simpatia – nello stesso modo in cui lo stanno facendo gli altri. Poi nota i battiti di mani, che cerca di riprodurre assieme ai passi; infine cerca di comprendere, invano, le parole pronunciate dal coro, ma il coinvolgimento gli fa pronunciare lo stesso dei fonemi senza senso in sincronia con il gruppo.

3- Il soggetto non c’è più.

Per mantenere tutte queste attenzioni, il soggetto si scorda di sé. Egli abbandona la sua osservazione esclusiva per confondersi nella collettività corale: non appena si fonde col gruppo, il canto cambia strofa, oppure i battiti di mani suggeriscono ritmi diversi, cosicché egli non può più tornare a centrarsi su se stesso, sulla sua individualità e chiedersi: «ma cosa sto facendo?», perché il suo corpo è occupato da un transito di dinamiche coinvolgenti e impegnative. Non più il soggetto ma solo il corpo fa eco ai canti, sorride ai sorrisi, è attento alle danze centrali e ai ritmi. La fatica di tutte queste attività simultanee è confusa con la gioia di condividere un’esperienza nuova e affascinante. E la stanchezza, che riduce ogni comportamento alla sua nudità singolare, sancisce la sospensione del soggetto. Così il volere ha abbandonato il corpo singolo: si è rarefatto, spartito in un corpo collettivo.

Il rito si forma sulla base delle forze attrattive veicolate da ritmi, danze e canti. Sulla base di esse il soggetto si concede all’atto che lo spartisce in un gruppo. Egli fa parte di un rito denudato di ogni sapere. L’informazione che rimane è priva di ogni riferimento concettuale e qui va intesa come una modalità di mettere-in-forma(7) i corpi e di modellarli secondo le dinamiche presenti nel rito. Vediamo su cosa si fonda la forza attrattiva di queste attività.

Ritmo, danza e canto ripropongono – su differenti piani espressivi – la dinamica che costituisce l’essenza dei suoni: un suono diviene nota se ha una frequenza, una regolarità oscillatoria. Le attività rituali si legano sulla base di una ciclicità: la stessa sequenza di colpi, suoni o gesti danzati si ripete più volte, aprendosi a un suo riconoscimento. Pur non sapendo di cosa si tratta – perché questa è una questione pertinente al tessuto di senso che riveste il rito – possiamo cogliere un’identità senza nome – un passo di danza, un ritmo, un canto – che gradualmente si trasforma, evolvendo le sue connessioni verso un legame sempre più forte. Ciò si ripercuote nel corpus del rito in un’intensificazione delle espressioni che coinvolge tutti i presenti. La struttura circolare fa sì che i legami instaurati tra ritmo, danza e canto convergano al centro, nel corpo del danzatore. Questo è spogliato della sua veste intenzionale – agente della danza – e perciò va ripensato come se fosse una cavità risonante capace di accogliere le tensioni del circolo che gli è intorno. Infatti nel corso della festa santèra le attività del danzatore si allontanano gradualmente dalle forme di danza fino a rarefarsi in gesti e atteggiamenti molto impressionanti: giramenti di testa, perdite di equilibrio, aumento della salivazione, strabismo, urla, ecc. Come un risonatore, il corpo centrale amplifica le vibrazioni che lo invadono e si mette-in-forma a risuonare solo quelle, assumendo di volta in volta spaziature differenti. Sottoposto alla dinamica ciclica e circolare delle forze del rito, il corpo centrale traccia una terza dimensione, scavando nelle profondità della sua camera d’eco. I gesti sono meno ampi dei passi di danza ma più sorprendenti, forti e attrattivi. Lo svolgimento del rito in termini di risonanze può essere immaginato come una spirale centripeta: la ciclicità lega le espressioni rituali e queste convergono al centro che scava in profondità, raggiungendo un punto di assoluta risonanza. In quel momento è come se il corpo centrale, simile a una campana tibetana, continuasse a suonare anche dopo che lo sfregamento della sua erficie si è interrotto, svelando le sole risonanze del suo corpo, senza più altri movimenti o contatti da parte di elementi esterni. Il centro cessa la sua coreutica mostrando la sola vibrazione diffusa, il suo corpo che non si muove quasi più, carico di una tensione che il circolo assorbe nel silenzio. La spirale ha realizzato il suo vertice, i suoi estremi ora coincidono in un unico punto che impedisce ogni possibilità di oscillazione.

Il raggiungimento del vertice di questo cammino ha liberato una corporeità pura, sciolta da ogni intenzionalità: è come sorprendersi a cantare senza dirigere il canto, come suonare senza controllare alcunché, senza rispondere di nulla. La simbiosi è talmente profonda che genera un’amplificazione più grande di tutto il corpus: in quel momento non si è cantanti – né come soggetti né come corpi – ma cantati, non si suona ma si è risuonati, non si può trattenere nulla, ogni forma è lasciata al suo scorrere. Il corpo è preso, paradossalmente, dal suo abbandono; una sottrazione consistente, incarnata. É come se il «con» della connessione fosse il corpo stesso. Le onde delle oscillazioni, che prima attraversavano i corpi, ora sono fatte corpo, non “un corpo ondulante” ma il corpo delle onde. La parte centrale ora esibisce la totalità del rito e lo fa da sé, perché essa è ora il corpo della congiunzione e da sé può mostrare la congiunzione dei corpi. Il centro ora è il tramite, sostantivo, esteso, non un vettore di passaggio tra uomini e dèi ma l’essere TRA che, mentre mostra la finitezza e la singolarità di un corpo umano, esibisce l’infinito della totalità delle parti. La trasformazione di una preposizione in un sostantivo forza a tal punto la grammatica che essa crea un nuovo nome per risolvere ogni ambiguità. Il nome dell’oricha e la sua possessione di un corpo risolvono la contraddizione del «con»: il Tramite, questa volta con la maiuscola – perché sul sostantivo si è già costruito un nome proprio – è una singolare pluralità, un’assoluta congiunzione, una finitezza infinita, un corpo divino.


1 Cfr. Beneduce R., Trance e possessione in Africa. Corpi, mimesi, storia, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 115.

2 L’atteggiamento di stupore è uno dei migliori approcci per operare una riduzione fenomenologica. Cfr. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Studi Bompiani, Milano 2003, p. 22.

3 La denudazione è continua perché il senso non smette mai di sottrarsi. Come un’attrazione magnetica, l’invito al contatto è una denudazione continua che più tocca la nudità più questa si sottrae, mostrando la sua separazione e la sua impossibilità a fondersi in un’unità. Questo gioco di contatto e distanza, come poli magnetici, fanno della denudazione un processo di infinita attrazione. Cfr. J.-L. Nancy, Il pensiero sottratto, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 21.

4 Cfr. J. Derrida, Toccare. Jean-Luc Nancy, Marietti, Genova 2007, p. 11.

5 Cfr. J.-L. Nancy, Essere singolare plurale, Einaudi, Torino 2001, p. 43.

6 Cfr. J.-L. Nancy, All’ascolto, Raffello Cortina Editore, Milano 2004, pp. 13-14.

7 Cfr. E. Barba, La canoa di carta, Il Mulino, Bologna 1993, p. 32.

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