sotto giudizio
DISVELAMENTI


La sociologia del campo giuridico di Pierre Bourdieu


di Gianvito Brindisi




Il presidente della Repubblica è qualcuno che si crede il presidente della Repubblica, ma a differenza del pazzo che si crede Napoleone,
è nel suo diritto.

Pierre Bourdieu,
Ragioni pratiche


Logica delle pratiche, potere simbolico e diritto

Sebbene l’opera sociologica di Pierre Bourdieu possa annoverarsi senza alcun dubbio tra le più importanti della seconda metà del Novecento, la sua riflessione è stata di fatto ben poco esplorata nel dibattito italiano1, e profondamente trascurata, dai sociologi come dai filosofi del diritto italiani, rimane in particolar modo la sua sociologia del diritto2. Probabilmente, al di là dei già difficili rapporti tra sociologia e scienza giuridica, su ciò può aver pesato la difficoltà ad accostarsi a un autore che non ha mai smesso di rivendicare con una punta di irriverenza il suo antigiuridicismo, e che ha elevato il giurista a simbolo dell’ipocrisia collettiva, di un’ipocrisia, bene inteso, che non è appannaggio del giurista in quanto tale, ma che appartiene a qualsiasi campo culturale che creda nelle proprie forme legittime obliterandone il carattere arbitrario, e che può comunque costituire, lo si vedrà, un fattore di progresso dell’universale.

Lo scritto che presentiamo, I giuristi, custodi dell’ipocrisia collettiva, è il penultimo di una serie di lavori dedicati da Bourdieu al diritto3, lavori che costituiscono una precisa applicazione della sua teoria della pratica al mondo giuridico, e che dunque non possono comprendersi al di fuori di essa. In questa sede se ne potranno richiamare quegli aspetti funzionali a mettere in luce la sua specifica sociologia del campo giuridico, per quanto poi essa, a nostro modo di vedere, possa tranquillamente essere classificata sotto la rubrica generale di sociologia del diritto (lasciando alla parola diritto tutta la sua ambiguità e incertezza), presentandosi come uno studio dei campi e della loro legalità, ossia dei nomoi, dei principi di divisione legittima che definiscono il pensabile e l’impensabile ma che restano impensati4: «la legge è legge» non è infatti l’assioma del solo campo giuridico, ma la legge fondamentale, la costituzione di ogni campo.

Procedendo con ordine, già nel 1972, in Per una teoria della pratica, Bourdieu squalificava il giuridicismo (juridisme)5, ossia quel tipo di pensiero riscontrabile nei più svariati campi di ricerca che crede di poter rendere conto delle pratiche individuando ed enunciando le regole esplicite a partire dalle quali si suppone che le pratiche stesse siano prodotte. In realtà, al di là della norma esplicita, come anche del calcolo razionale d’interesse, a generare le pratiche è un principio primario, un certo senso del gioco anteriore a ogni riflessione, che fonda l’esperienza prima del mondo del senso comune, e che può essere compreso attraverso il sociale. Quest’ultimo è per Bourdieu iscritto nei corpi, nei meccanismi mentali di percezione e valutazione delle cose, nelle strutture cognitive, così che a consentire agli individui di produrre pensieri e pratiche regolati non sia l’obbedienza cosciente alle regole vigenti, bensì un certo capitale di schemi informazionali. Le nostre condotte ordinarie, come ben si vede in una società caratterizzata da un basso margine di codificazione delle pratiche, sono infatti mosse da schemi pratici, da schemi cognitivi, principi di classificazione fondati nel campo delle divisioni sociali che ci permettono di «distinguere quel che altri confondono, di operare una diacrisis, un giudizio che separa. La percezione è fondamentalmente diacritica»6.

Tali schemi costitutivi di capacità cognitive e di giudizi di valore sono il prodotto di un senso del gioco acquisito nella pratica in cui si è, e possono riassumersi per Bourdieu nel concetto di habitus, corrispettivo della coscienza trascendentale nelle filosofie della coscienza. In quanto dipendente dalla storia e dalla struttura di un campo, in quanto «sistema socialmente costituito di disposizioni strutturate e strutturanti, acquisito con la pratica e costantemente orientato verso funzioni pratiche»7, l’habitus può essere definito un a priori storico, un trascendentale storico: struttura strutturata in quanto prodotta dall’interiorizzazione delle strutture sociali, ma nondimeno struttura strutturante perché dotata di una valenza generativa di pratiche e di comportamenti. L’habitus si configura come una soggettività socializzata, come una forma di esperienza strutturata da un campo sociale, come un sistema di «percezione, valutazione e azione prodotti dal sociale che si istituisce nei corpi». È sì «il prodotto dell’incorporazione della necessità immanente» di un campo (artistico, politico, giuridico, etc.), ma contribuisce anche a costituire il campo come «mondo significante, dotato di senso e valore, nel quale vale la pena investire le proprie energie»8.

Sebbene possa apparire deterministica, la sua natura è in realtà per Bourdieu essenzialmente dinamica, potendo infatti uno stesso habitus dare luogo a pratiche opposte nella misura in cui deve sempre adattarsi alle circostanze in cui si trovano a operare strategicamente gli agenti sociali. Questi ultimi dunque, pur non essendo mai completamente i soggetti delle loro stesse pratiche, non possono essere trascurati dall’analisi sociologica: proprio perché dispongono di un senso del gioco che è l’interesse al gioco, e che li accomuna nell’ambito di un campo oltre le loro specifiche posizioni, essi non compiono mai atti gratuiti, atti senza ragione e senza lucro. È in questo senso del gioco cioè, in questo interesse qualificato da Bourdieu come illusio, o investimento, o ancora libido sociale – a indicare comunque il rapporto di complicità ontologica che corre tra le strutture mentali e quelle oggettive dello spazio sociale –, che risiede l’importanza attribuita dagli agenti sociali ai giochi nei quali sono coinvolti, è ciò significa che essi, antiutilitaristicamente, non necessitano di porre come fini gli obiettivi della loro pratica, avendo incorporato schemi pratici di percezione e di valutazione che funzionano come strumenti di costruzione della realtà e come principi di visione dell’universo in cui si muovono9.

Il fatto che le pratiche sociali non siano il prodotto dell’obbedienza alle regole giuridiche o della loro esecuzione non esclude che esista un interesse a essere in regola che può fondare strategie di secondo grado volte a mettersi in regola10, e che la regola stessa abbia una sua efficacia. Difatti l’imposizione di forme è l’espressione per eccellenza di uno degli oggetti più frequentati da Bourdieu: il potere simbolico, potere invisibile che si può esercitare solo tramite la complicità di coloro che non vogliono sapere di subirlo o di esercitarlo11. Esso si fonda su una «relazione determinata tra coloro che esercitano questo potere e coloro che lo subiscono», ossia sulla «struttura stessa del campo in cui si produce e riproduce la credenza»12, e soprattutto sulla complicità del soggetto passivo, insita «nelle disposizioni inconsciamente inculcate, attraverso un lungo e lento processo di acquisizione, dalle sanzioni del mercato»13.

A monte di tale potere è quindi un capitale simbolico, un fattore di distinzione che è una proprietà percepita dagli agenti sociali, i quali dispongono di strutture cognitive e di categorie di percezione sulla base delle quali possono riconoscerlo e attribuirgli un valore. Il capitale simbolico è tale in quanto funziona su base cognitiva e a partire dal riconoscimento: esso è la forma assunta da una specie di capitale a cui vengano applicate categorie di percezione che sono il frutto dell’incorporazione delle divisioni inscritte nella struttura della sua stessa distribuzione (forte/debole, colto/incolto, giusto/ingiusto, etc.). Carattere specifico del dominio simbolico è il potere di definire e di far riconoscere i principi di classificazione dominanti: la realtà diventa così «il luogo di una lotta permanente per la definizione della “realtà”»14. Dunque questo potere non può che fondarsi sul misconoscimento, sull’accettazione di «quell’insieme di presupposti fondamentali, preriflessivi, che gli agenti sociali fanno entrare in gioco per il semplice fatto di prendere il mondo come ovvio, e di trovarlo naturale così com’è perché vi applicano strutture cognitive derivate dalle strutture di quello stesso mondo»15. Ne discende che il mondo delle evidenze, delle familiarità e del senso comune è sempre un qualcosa di prodotto: un capitale simbolico non esiste se non in relazione a un campo, a un microcosmo sociale, a una configurazione di relazioni oggettive tra posizioni «definite in base al loro rango rispetto alla distribuzione dei poteri e delle specie di capitale»16. Il campo è inoltre un terreno di lotte per la conservazione e la trasformazione delle configurazioni di forze che agiscono al suo interno, e perciò anche di lotte per la massimizzazione dei suoi stessi prodotti simbolici, lotte volte a produrre e a imporre criteri di percezione e di rappresentazione della realtà, principi di visione del mondo, cioè matrici di giudizio, le quali sono per Bourdieu sempre arbitrarie e prive di una validità intrinseca. La superiorità dell’uomo sulla donna, dello scolarizzato sul non scolarizzato, o ancora quella del diritto formale sul diritto sociale, sono sempre storiche, e la forza di cui dispongono, e in base alla quale sembrano configurarsi come un orizzonte destinale, dipende dal fatto che le si percepisce come naturali. Ma se, come detto, gli schemi mentali di percezione e di valutazione delle cose che consentono l’esperienza prima del mondo del senso comune hanno sempre una genesi sociale, e risultano evidenti solo nella misura in cui se ne dimentica il carattere politicamente costruito, allora la comprensione delle attività e dei giudizi degli individui passa per la loro iscrizione nel sistema cui appartengono, nello spazio degli stili di vita di cui dispongono, e per l’attribuzione ad essi di un carattere non deterministico, bensì di probabilità strutturale (di realizzazione, cioè), ossia per la negazione di ogni determinismo, condizione preliminare alla conquista di uno spazio di libertà. Rispetto a ciò che percepiamo come universale deve quindi operarsi un lavoro scientifico di storicizzazione radicale, uno studio delle condizioni sociali di possibilità e dei rapporti di potere che fondano l’esperienza doxica del mondo, l’esperienza del non contestato, dell’evidente. Solo così sarà possibile reagire: non realizzando una presa di coscienza da parte di un soggetto universale posto al di là della storia, ma ribellandosi alle classificazioni e inventando nuove pratiche per cercare di strutturare altrimenti il mondo.

Prendendo in considerazione il campo della violenza simbolica, della quale il diritto è la forma per eccellenza, questo rivelerà tutta la sua natura non di dogma o di ideologia, ma di violenza che si esercita nella posizione di forme. In tal modo Bourdieu tende a smarcarsi da due punti di vista nei quali si tende a inquadrare il fenomeno giuridico, ossia da quello interno (o dogmatico), e da quello esterno (o ideologico), ben esemplificati il primo dal formalismo di Hans Kelsen, il secondo dal marxismo di Louis Althusser, e incapaci entrambi di cogliere le condizioni sociali di produzione del discorso, vale a dire le relazioni oggettive e i rapporti di forza correnti tra coloro che producono i discorsi, così da disconoscere la dimensione di violenza simbolica propria del diritto.

La teoria kelseniana, in particolare, riducendo il diritto alla legalità puramente normativa elude la dimensione sociale, o meglio, esclude l’analisi delle condizioni sociali di possibilità dell’efficacia della forma giuridica. In questo senso essa è equiparata da Bourdieu a un’analisi puramente linguistica del linguaggio, che elidendo il contesto sociale in cui la lingua viene adoperata, si impedisce appunto di cogliere la struttura dei rapporti di forza presente nell’economia degli scambi linguistici, come è vero che «le relazioni linguistiche sono sempre rapporti di forza simbolici attraverso i quali i rapporti di forza tra i locutori e i loro gruppi rispettivi si attualizzano in forma trasfigurata»17. Pertanto Kelsen è secondo Bourdieu un autore che ha annientato la logica che si vorrebbe descrivere (la logica della cosa) tramite lo strumento usato per descriverla (la cosa della logica)18.

Sul fronte opposto si colloca il marxismo, che non riconoscendo il ruolo giocato dal simbolico nella costruzione della realtà si condanna a non comprenderne il funzionamento. Il diritto per Bourdieu non è infatti una sovrastruttura riflesso dei rapporti di produzione o degli interessi della classe dominante, né un prodotto ideologico, ma ha una sua consistenza autonoma legata da un lato agli effetti propri della forza della forma, e dall’altro ai fondamenti sociali di questa stessa forza. I marxisti «hanno paradossalmente ignorato la struttura dei sistemi simbolici, e, nel caso particolare, la forma specifica del discorso giuridico», perché «hanno omesso di porre la questione dei fondamenti sociali di questa autonomia»19 del campo giuridico come universo sociale relativamente indipendente dalle costrizioni esterne. L’habitus giuridico inoltre non è una falsa coscienza, ma un qualcosa di reale, di pratico, un accordo immediato degli schemi di percezione e di azione che non si svolge al livello cosciente e non presuppone una decisione contrattuale, ed è a fondamento di un’autonomia reale del campo giuridico. Quest’ultimo, luogo di lotte in cui i dominanti devono fare i conti con delle resistenze, non è dunque riducibile a un apparato inteso come responsabile di quanto accade nel mondo. Parlare di ideologia, d’altronde, significa «situare nell’ordine delle rappresentazioni, suscettibili di essere trasformate da quella conversione intellettuale che si chiama ‘presa di coscienza’, ciò che si situa nell’ordine delle credenze, vale a dire nel fondo delle disposizioni corporali»20. È per questa ragione, riconoscendo cioè importanza al ruolo delle rappresentazioni degli agenti in relazione al posto che questi occupano nello spazio sociale, che Bourdieu rifiuta le ipotesi del marxismo strutturalista, orientandosi maggiormente verso una sociologia di marca weberiana.

Certo è che, quando si riconosca nel campo giuridico – come in ogni campo culturale che tende a comprendere come «esperienza universale di un soggetto trascendentale la visione comune di una comunità storica» – «il luogo dell’attualizzazione di una ragione universale che non deve nulla alle condizioni sociali in cui si manifesta»21, allora anche rispetto al diritto deve essere operato il lavoro di storicizzazione radicale di cui si è detto poc’anzi, inquadrando cioè la storia del diritto a partire non dalla dinamica interna del diritto – e dunque come storia interna dei suoi concetti e dei suoi metodi –, ma dalle sue condizioni sociali di efficacia, dai rapporti di forza tra i campi sociali e interni ai campi stessi. Ma qual è la genesi degli schemi di percezione e di valutazione degli agenti del campo giuridico? Qual è la specificità della dimensione simbolica del diritto? E come quest’ultima contribuisce alla riproduzione o alla trasformazione dei rapporti sociali? È a queste domande, appunto, che Bourdieu tenta di dare una risposta.


Nascita dello Stato moderno e costituzione del campo giuridico

Caratterizzandosi come sociologia storica, l’analisi di Bourdieu cerca di comprendere come sia emerso un universo sociale autonomo e differenziato produttore di un corpo giuridico relativamente indipendente dalle costrizioni esterne e «all’interno del quale si produce e si esercita l’autorità giuridica, forma per eccellenza della violenza simbolica legittima il cui monopolio appartiene allo Stato, e che può accompagnarsi all’esercizio della forza fisica»22. Sebbene per Bourdieu i processi storici non siano intenzionali, prodotti cioè da attori consapevoli dei loro progetti, questo non significa comunque che essi siano totalmente irrazionali. Se lo Stato, ad esempio, si è costituito come luogo di concentrazione del capitale simbolico, è perché esso ha avuto la possibilità di imporre dei principi di visione. L’evidenza dello Stato si è imposta perché lo Stato stesso ha imposto le strutture cognitive che ne regolano la percezione, perché ha creato un’esperienza del mondo come mondo del senso comune. Il processo di concentrazione del capitale statale emerge, in una maniera che non è puramente casuale, e nemmeno come frutto di un progetto, dalla concentrazione di diverse specie di capitale (fiscale, economico, culturale, di forza fisica) e dalla costruzione dei campi corrispondenti, e si caratterizza come un capitale specifico, come un metacapitale che «permette allo Stato di esercitare un potere sui diversi campi e sulle diverse specie particolari di capitale, in particolare sui tassi di cambio tra di esse (e quindi sui rapporti di forza tra i detentori)»23.

Ugualmente, il processo che ha costituito il campo giuridico, in stretta connessione con quello statale e con la sua opera di normalizzazione e di unificazione, ma pur sempre come campo autonomo, dotato di una sua specifica forma di capitale e distinto da altri campi come quelli religioso o politico, i quali hanno a loro volta una loro logica e un loro capitale specifici, non è stato il prodotto dell’accordo tra i giuristi, né corrisponde a una somma di azioni anarchiche individuali: «La concentrazione del capitale giuridico – afferma Bourdieu – è un aspetto basilare di un processo più ampio di concentrazione del capitale simbolico sotto diverse forme, che fonda l’autorità specifica di chi detiene il capitale statuale, in particolare il misterioso potere di nominare»24, potere quasi divino di mobilitare un capitale di credenze accumulato nell’universo sociale ponendosi come fondamento e garanzia dell’efficacia simbolica di tutti i riti di istituzione e degli atti di autorità (atti di nascita e di morte, certificati e ordinanze, titoli e onorificenze, carte d’identità, leggi, etc.). Ma più in generale, il pensiero giuridico ha svolto un ruolo creativo nella nascita delle istituzioni statali, le quali non sono altro che una finzione dei giuristi, che producono lo Stato attraverso la creazione di una teoria dello Stato. Per comprendere la dimensione simbolica dell’effetto dello Stato è dunque necessario «analizzare la genesi e la struttura di quell’universo di agenti dello Stato, specialmente i giuristi, che si sono costituiti in nobiltà di Stato istituendo lo Stato, e in particolare producendo il discorso performativo sullo Stato che, con l’aria di dire ciò che è lo Stato, lo fa esistere dicendo ciò che dovrebbe essere»25. Come Weber, Bourdieu pone attenzione agli agenti specializzati che producono professionalmente un sistema simbolico, alle loro interazioni, ai loro conflitti, poiché il campo giuridico si è costituito come un luogo di concorrenza tra diversi agenti dotati di uno specifico capitale simbolico che è la competenza di interpretare un corpus di testi che consacrano la visione legittima del mondo sociale. Ma oltre a questo interesse generico del corpo dei giuristi, la struttura del campo giuridico può essere compresa analizzando gli interessi specifici che si imponevano ai giuristi in relazione alla loro rispettiva posizione rispetto al potere regio:

Si capisce allora che quegli agenti avevano interesse a dare una forma universale all’espressione dei loro interessi particolari, a creare una teoria del sevizio pubblico, dell’ordine pubblico, adoperandosi così a rendere la ragione di Stato autonoma dalla ragione dinastica, dalla «casa del re», a inventare la «Res publica» e poi la repubblica come istanza che trascende gli agenti – e lo stesso re – cui spetta il compito di incarnarla provvisoriamente: in virtù e a causa del loro capitale specifico e dei loro interessi particolari, essi sono arrivati a produrre un discorso di Stato che, giustificando la loro posizione, costituiva e istituiva lo Stato, fictio juris che gradualmente cessava di essere una semplice finzione di giuristi per trasformarsi in un ordine autonomo, capace di imporre largamente la sottomissione alle sue funzioni e al suo funzionamento e il riconoscimento dei suoi principi26.

Nella storia dello Stato i giuristi sono quei soggetti che tendono a far avanzare l’universale perché hanno per esso un interesse manifesto, un interesse privato per l’interesse pubblico, servendo il quale servono se stessi come detentori dei poteri associati alla funzione pubblica. Costituendosi come universo autonomo e differenziato, l’ordine simbolico del diritto riesce a perpetuarsi vedendosi riconosciuta l’autonomia necessaria a legittimare l’istanza sovrana, dal momento che «l’efficacia legittimante di un atto di riconoscimento […] varia in funzione dell’indipendenza di colui che lo concede»27. Al contempo, però, quest’autonomia rispetto all’istanza sovrana fa sì che il suo effetto di universalità possa essere utilizzato contro l’istanza stessa, come ben mostrava tra l’altro Michel Foucault laddove sottolineava come la borghesia si fosse costituita come potere proprio opponendo alla monarchia il medesimo discorso di cui essa si era servita per edificarsi: il sapere giuridico, principale mezzo di rappresentazione del potere monarchico, nonché arma attraverso la quale si è reso possibile un trionfo della borghesia28.

I giuristi hanno così progressivamente costituito un campo strutturato come un gioco cui si ha accesso a determinate condizioni e al quale partecipano degli agenti dotati di un determinato tipo di capitale – ossia di una specifica doxa, di un «insieme di presupposti indissolubilmente cognitivi e valutativi la cui accettazione è connaturata all’appartenenza stessa»29 –, agenti che accettano implicitamente le sue poste e le sue proprietà:

Il campo giuridico è il luogo di una concorrenza per il monopolio del diritto di dire il diritto, di dire cioè la buona distribuzione (nomos) o il buon ordine, nella quale si affrontano degli agenti investiti di una competenza inestricabilmente sociale e tecnica che consiste in sostanza nella capacità socialmente riconosciuta di interpretare (in modo più o meno libero o autorizzato) un corpus di testi che consacra la visione legittima, retta, del mondo sociale. È a questa condizione che si può rendere ragione sia dell’autonomia relativa del diritto, sia dell’effetto propriamente simbolico di misconoscimento che risulta dall’illusione della sua autonomia assoluta in rapporto alle domande esterne30.

Questa relativa autonomia e questo stesso corpo non sono però affatto unitari, perché al loro interno il conflitto tra i detentori del potere di dire il diritto è permanente. Innanzitutto, e a un primo livello, vi è infatti un antagonismo strutturale tra teorici e pratici del diritto, agenti dotati di differenti forme di capitale per dire legittimamente il diritto; all’interno di questi due sottocampi si giocano poi ulteriori conflitti legati alle differenti forme di capitale di cui sono dotati gli interpreti in funzione della loro posizione nella gerarchia interna del corpo giuridico. La divisione del lavoro nel campo giuridico e la sua differenziazione interna sono inoltre direttamente connesse ai cambiamenti dei rapporti di forza che maturano nel più generale campo del potere. Come ha notato Vincenzo Ferrari, il «conflitto tra ruoli giuridici è nient’altro che un riflesso particolare di lotte sociali più ampie. In queste lotte i detentori di ruoli giuridici possono non essere protagonisti: lo sono, nel momento in cui le istanze sociali si traducono in pretese di riconoscimento giuridico»31, nel momento cioè in cui i giuristi, per dirla con Bourdieu, riescono a produrre il bisogno dei loro prodotti. Prima di entrare nel merito della questione, è perciò opportuno sottolineare come sia proprio la produzione di questo bisogno a fare del campo giuridico qualcosa di unitario sotto certi aspetti, perché la divergenza «non esclude la complementarità di funzioni e serve in verità da base a una forma sottile di divisione del lavoro di dominio simbolico nella quale gli avversari, oggettivamente complici, servono l’uno all’altro reciprocamente», uniti da una comune «retorica dell’autonomia, della neutralità e dell’universalità»32. Di qui il tratto specifico del giurista – la sua postura universalizzante e la sua forma di giudizio, irriducibile all’intuizione incostante del senso dell’equità –, nonché uno degli effetti specifici della costituzione del campo giuridico, ossia la riduzione di

coloro che, accettando di entrarvi, rinunciano tacitamente a gestire da sé il loro conflitto (attraverso il ricorso alla forza o a un arbitro non ufficiale, o ancora attraverso la ricerca diretta di una soluzione amichevole), allo stato di clienti dei professionisti; [il campo giuridico] costituisce gli interessi pre-giuridici degli agenti in cause giudiziarie, e trasforma in capitale la competenza che assicura la padronanza delle risorse giuridiche richieste dalla logica del campo33.

Per comprendere cosa sia il diritto bisogna dunque individuare «la logica propria del lavoro giuridico in ciò che esso ha di più specifico, vale a dire [nel]l’attività di formalizzazione, e [ne]gli interessi sociali degli agenti formalizzatori per come essi si definiscono nella concorrenza interna al campo giuridico e nella relazione tra questo campo e il campo del potere nel suo insieme»34. A quest’attività di formalizzazione il lavoro giuridico deve la sua efficacia sociale, un’efficacia quasi magica di cui partecipa il diritto razionale35:

La concorrenza per il monopolio dell’accesso alle risorse giuridiche ereditate dal passato contribuisce a fondare la cesura sociale tra i profani e i professionisti, favorendo un lavoro continuo di razionalizzazione funzionale ad accrescere in misura sempre maggiore lo scarto tra i verdetti armati del diritto e le intuizioni ingenue dell’equità, e a far sì che il sistema delle norme giuridiche appaia a coloro che lo impongono, e anche, in più o meno grande misura, a coloro che lo subiscono, come totalmente indipendente dai rapporti di forza che esso sanziona e consacra36.

Il monopolio dei professionisti sulla produzione e la commercializzazione dei servizi giuridici consente di stabilire le soglie di accesso dei conflitti al campo giuridico, determinando «la forma specifica che devono rivestire per costituirsi in dibattimenti propriamente giuridici: essa sola può fornire le risorse necessarie per operare il lavoro di costruzione che, al prezzo di una selezione delle proprietà pertinenti, permette di ridurre la realtà alla sua definizione giuridica»37. L’offerta giuridica esercita così degli effetti reali sulle rappresentazioni simboliche: essa tende a far esistere un universo dei possibili, e dunque istruisce gli animi e l’immaginazione giuridica. Poiché infatti la capacità di percepire un’esperienza come ingiusta dipende strettamente dalla posizione occupata dall’agente nello spazio sociale, per Bourdieu non vi è nulla di meno naturale del bisogno giuridico o di quel sentimento dell’ingiustizia che può giustificare il ricorso al lavoro di un professionista;

il passaggio dal torto non percepito a quello percepito e nominato […] presuppone un lavoro di costruzione della realtà sociale che spetta, in gran parte, ai professionisti: la scoperta dell’ingiustizia in quanto tale riposa sul sentimento di avere dei diritti (entitlement), e il potere specifico dei professionisti consiste nella capacità di rivelare i diritti e nello stesso tempo le ingiustizie, o al contrario, di condannare il sentimento dell’ingiustizia fondato sul solo senso dell’equità scoraggiando con ciò la difesa giudiziaria dei diritti soggettivi; insomma, nella capacità di manipolare le aspirazioni giuridiche, di crearle in certi casi, di amplificarle o di scoraggiarle in altri38.

Sono i professionisti a produrre il bisogno dei loro servizi operando innanzitutto una traduzione nel linguaggio giuridico delle dispute della vita ordinaria, ottenendo in tal modo un effetto di chiusura e costituendo un campo ermetico per i profani. La creazione del bisogno giuridico è legata alla giuridicizzazione di sfere della pratica, ed è proprio alla specificità del lavoro di formalizzazione che sarà bene rivolgere ora la nostra attenzione.


La forza della forma


Lo spazio giudiziario costituisce una realtà e ridefinisce i conflitti e gli oggetti di giudizio doppiando lo spazio della vita ordinaria. Si stabilisce così una frontiera «tra coloro che sono preparati a entrare nel gioco e coloro che, quando vi si trovano gettati, ne restano di fatto esclusi, privati di quella possibilità di operare la conversione di tutto lo spazio mentale – e in particolare di tutta la postura linguistica – che presuppone l’ingresso in questo spazio sociale»39.

Il campo giudiziario è lo spazio sociale organizzato in cui e attraverso cui si opera la trasmutazione di un conflitto diretto tra parti direttamente interessate in un dibattimento giuridicamente regolato tra professionisti che agiscono per procura e che condividono la capacità di conoscere e di riconoscere la regola del gioco giuridico, vale a dire le leggi scritte e non scritte del campo […]. Nella definizione spesso proposta, da Aristotele a Kojève, del giurista come «terzo mediatore», l’essenziale è l’idea di mediazione (e non quella di arbitrato) insieme a ciò che essa implica, vale a dire la perdita della relazione di appropriazione diretta e immediata con la propria causa: davanti ai contendenti si innalza un potere trascendente, irriducibile al conflitto delle visioni del mondo private, che non è altro che la struttura e il funzionamento dello spazio socialmente istituito di questo conflitto40.

È innanzitutto attraverso la creazione di uno spazio linguistico irriducibile al senso comune che il diritto riesce dunque a imporre il suo dominio simbolico, la cui specificità è la messa in forma e l’imposizione di forme. Gli schemi di classificazione incorporati di cui si è detto in precedenza possono infatti essere oggettivati, codificati, e la codificazione è «un cambiamento di natura, un cambiamento di statuto ontologico che si opera nel passaggio da schemi linguistici padroneggiati al livello pratico a un codice, a una grammatica»41. Questa messa in forma comporta in primo luogo l’instaurazione di una normatività esplicita, e produce una serie di effetti importanti (di pubblicità, di ufficializzazione, di omologazione, di formalizzazione) che costituiscono la forza specifica del dominio simbolico: essa rende infatti pubblico e visibile l’implicito, si oppone a ciò che è ufficioso, sanziona l’esistenza ufficiale e mette fine alle divisioni approssimative mediante la produzione di classi chiaramente definite42.

A questi effetti, che solo un uso specifico del linguaggio come quello che fa il diritto permette di conseguire, devono poi aggiungersi, anch’essi intrinseci al linguaggio giuridico, l’effetto di neutralizzazione, frutto dell’utilizzo «di un insieme di tratti sintattici quali il predominio di costruzioni passive e di toni impersonali, atti a sottolineare l’impersonalità dell’enunciazione normativa e a costituire l’enunciatore come soggetto universale, a un tempo imparziale e obbiettivo», e l’effetto di universalizzazione, ottenuto tramite «il ricorso sistematico all’indicativo per enunciare delle norme; l’impiego […] di verbi constativi alla terza persona singolare del presente o del passato prossimo che esprimono l’aspetto compiuto (“accetto”, “confesso”, “si impegna”, “ha dichiarato”, etc.)»43, e ancora tramite l’uso di indefiniti e il riferimento a valori che presuppongono l’esistenza di un consenso etico.

Che consacri o meno l’ordine sociale, questo potere simbolico presuppone sempre l’esistenza di divisioni sociali alle quali sempre deve adattarsi. La potenza performativa e istituente degli atti linguistici non si dispiega infatti se non nella misura in cui questi sono ben fondati nel reale: sebbene l’atto istituente abbia una sua specifica forza, esso è cioè sempre dato a partire dall’esperienza effettiva della socialità. La forma non crea mai nulla ex novo, perché l’istituzione istituita è sempre il punto di arrivo di un processo che la istituisce a un tempo nelle strutture sociali e nelle strutture mentali, presentandosi come naturale. Ed è in questo accordo tra le strutture mentali e le strutture oggettive dello spazio sociale che può prodursi un qualcosa come il sentimento della legittimità.

Ma in cosa consiste più esattamente questo specifico potere simbolico?

Le lotte simboliche hanno come fine la delimitazione legittima, la definizione, atto giuridico per eccellenza dello stabilire confini, del regere fines, ricorda Emile Benveniste. Sennonché l’atto di istituzione del confine, nel mentre istituisce, è istituito, poiché dà vita a un che di esistente di cui è il prodotto, ma al contempo è un atto di finzione produttore di un effetto, quello di far esistere la medesima realtà di cui è il prodotto in un modo diverso. L’atto di categorizzazione è il risultato di un confine esistente ma fluido, in quanto lo spazio confinato non presenta mai dei tagli netti, ma sempre delle differenziazioni; ebbene, attraverso il lavoro di razionalizzazione la categorizzazione rende netto questo confine: «Omologare, etimologicamente, vuol dire assicurare che si dice la stessa cosa quando si dicono le stesse parole, è trasformare uno schema pratico in un codice linguistico di tipo giuridico»44. Questa operazione, che formalizza ed esprime in regole ufficiali i principi pratici di uno stile di vita, «tende a informare realmente le pratiche dell’insieme degli agenti». Tramutando magicamente ciò che si fa regolarmente in ciò che è di regola fare, la normalità di fatto in normalità di diritto, il diritto è in grado di passare «con il tempo, dallo stato di ortodossia, credenza retta esplicitamente enunciata come dover-essere, allo stato di doxa, adesione immediata a ciò che va da sé, al normale, come compimento della norma che si abolisce in quanto tale nel suo compimento»45.

Ecco dunque spiegata la forza del diritto: il suo essere un atto di magia sociale, un potere di legittimare, di autorizzare, di giustificare e in una parola di naturalizzare degli atti che vengono in tal modo raddoppiati nella loro efficacia fluida e immanente per accedere a un nuovo statuto ontologico la cui specificità consiste nel divieto di porre la questione della sua legittimità, nell’imposizione cioè di quella che Bourdieu definisce «l’amnesia della genesi», il misconoscimento della forza in quanto forza, presupposto necessario affinché il diritto possa esercitare la sua efficacia.

Ora, benché per Bourdieu qualsiasi atto di nominazione contribuisca all’edificazione del mondo sociale, a differenza dei discorsi privati (idioi logoi) gli atti giuridici, e più in generale quelli burocratici, sono dotati di una maggiore efficacia simbolica. Il diritto e il giudizio di diritto costituiscono l’atto performativo e interpretativo per eccellenza. Essi classificano, dividono, delimitano confini, fanno esistere nominando, ossia distinguendo:

in quanto giudizi di attribuzione formulati pubblicamente da agenti che agiscono da mandatari autorizzati da una collettività, e costituiti in tal modo come modello di tutti gli atti di categorizzazione (kategorèsthai, si sa, significa ‘accusare pubblicamente’), questi enunciati performativi sono degli atti magici che riescono dunque, perché in grado di farsi riconoscere universalmente, a ottenere che nessuno possa rifiutare o ignorare il punto di vista, la visione che impongono.

Il diritto è senza dubbio la forma per eccellenza di del potere simbolico di nominazione che crea le cose nominate e in particolar modo i gruppi, e conferisce alle realtà sorte dalle sue operazioni di classificazione tutta la permanenza, quella delle cose, che un’istituzione storica è capace di conferire a delle istituzioni storiche. Il diritto è la forma per eccellenza del discorso agente, capace, per sua intrinseca virtù, di produrre degli effetti. Non è eccessivo dire che esso fa il mondo sociale, a condizione però di non dimenticare che da quest’ultimo al tempo stesso è fatto46.

L’atto giuridico è un potere arbitrario che sottrae all’arbitrio, un potere che proclama dov’è il diritto da una posizione di neutralità misconosciuta in quanto tale, e che proclamandolo lo costituisce. Lo Stato non è quindi che l’ultima istanza di garanzia degli atti d’autorità che certificano l’esistenza legittima, e rappresenta perciò la variante burocratica dell’atto di riconoscimento sociale. L’espressione ‘mettersi in regola’ esplicita bene il profitto simbolico che si ricava dalla forma, vale a dire rendere omaggio alla regola e ai valori del gruppo. A questa concezione della società e dello Stato è sottesa certamente un’antropologia di stampo pascaliano facente perno sulla miseria dell’uomo, bisognoso di giustificazione, di riconoscimento, di legittimità. Il sentimento di legittimità può prodursi infatti per Bourdieu solo attraverso il riconoscimento sociale: è il mondo sociale il solo a poter testimoniare di un’esistenza giustificata, e per fuggire il proprio sentimento di insignificanza l’individuo non ha che da conquistare per sé un capitale simbolico, una legittimazione sociale, un diritto di esistere: di qui la sua necessità di rifarsi all’ordine dei significati pubblici istituiti per diventare, come direbbe Michel de Certeau, un «nome della legge»47, un’esistenza ufficiale, giustificata e vissuta col sentimento del suo essere appropriata.

Ancora con Pascal, Bourdieu sostiene che la legittimità è proprio la forza misconosciuta in quanto tale: la forza non può affermarsi come violenza pura e semplice, senza giustificazione, «ed è un fatto d’esperienza che essa può perpetuarsi solo dietro le parvenze del diritto, in quanto il dominio riesce a imporsi durevolmente solo nella misura in cui riesce a ottenere il riconoscimento, che altro non è se non il misconoscimento del carattere arbitrario del proprio principio»48. L’istituzione istituita può funzionare solo a patto di far dimenticare la sua genesi da una serie di atti di istituzione, presentandosi con la parvenza della naturalità: il nomos è sempre storico e arbitrario, ma si fa accettare come physis, e tramite questa destoricizzazione impedisce ogni giudizio sulla sua legittimità. Bisogna quindi che l’origine resti celata. Per questo la vigenza di una legge o di un qualsiasi altro schema di classificazione non è fondata sulla verità o sulla giustizia, ma semplicemente su quell’amnesia della genesi che è il prodotto dell’assuefazione al costume. La legge «vige perché è legge, non perché è giusta», così che lo scandaglio dell’origine della vigenza non scoprirà mai altro che un principio di sragion sufficiente, cioè il costume stesso, la verità dell’usurpazione avvenuta senza ragione e divenuta ragionevole. Il fatto che le si conceda credenza è il fondamento mistico dell’autorità49, ma se la credenza può prodursi, e se di riflesso il fondamento dell’autorità può funzionare, è solo grazie al segreto sulla sua origine. Ciò non significa però che per Bourdieu prima dell’ordine simbolico delle norme viga un originario ordine oggettivo vero e giusto, poiché anzi questo ordine originario è a sua volta prodotto come regolarità arbitraria che si è istituita per divenire poi ragionevole.


La sociologia dell’interpretazione e il gioco con la regola

Se per Bourdieu è la stessa primitiva adesione al mondo del senso comune a essere prodotta, è chiaro che non vi è alcun modo di accedere a un senso originario e non politicamente costruito dei fenomeni come dell’ordine sociale e normativo. Rimane però la possibilità di mostrare le modalità di produzione di un ordine normativo a partire dalle sue condizioni sociali di efficacia. Benché dotati di una loro efficacia intrinseca, non sono infatti esclusivamente il sistema normativo, la struttura legale o l’ordine delle norme a poter rendere conto della specificità e dell’autonomia del campo giuridico, perché l’ordine propriamente simbolico delle norme, e così anche delle dottrine, non contiene in sé il principio della propria dinamica e della propria trasformazione, che va ricercato nell’«ordine delle relazioni oggettive tra gli agenti e le istituzioni in concorrenza per il monopolio del diritto di dire il diritto»50. Ciò apre la strada a una nuova comprensione degli enunciati giuridici, come dell’accesso della norma alla sua significazione. Il significato di una norma può essere cioè compreso sulla base non del significato dell’enunciato normativo, ma dell’analisi della struttura delle relazioni oggettive tra i produttori degli enunciati giuridici, e dunque del «confronto tra differenti corpi animati da interessi specifici divergenti (magistrati, avvocati, notai, etc.), essi stessi divisi in gruppi differenti, animati da interessi divergenti, perfino opposti, soprattutto in funzione della loro posizione nella gerarchia interna del corpo, che corrisponde sempre assai strettamente alla posizione della loro clientela nella gerarchia sociale»51. Ma cosa ne è allora per Bourdieu dell’interpretazione delle norme? Innanzitutto:

L’interpretazione opera la storicizzazione della norma, adattando le fonti a delle circostanze nuove, scoprendovi delle possibilità inedite, lasciando a margine ciò che è superato o non più valido. Data la straordinaria elasticità dei testi, che giunge perfino all’indeterminazione o all’equivoco, l’operazione ermeneutica di declaratio dispone di un’immensa libertà. Non è affatto raro che del diritto, strumento docile, adattabile, flessibile, polimorfo, in verità ci si giovi per razionalizzare ex post delle decisioni alle quali esso non ha contribuito. I giuristi e i giudici dispongono tutti, benché a gradi differenti, del potere di sfruttare la polisemia o l’anfibologia delle formule giuridiche ricorrendo sia alla restrictio, procedimento necessario per non applicare una legge che, intesa letteralmente, dovrebbe esserlo, sia all’extensio, procedimento che permette di applicare una legge che, presa alla lettera, non dovrebbe esserlo, sia ancora a tutte le tecniche che, come l’analogia, la distinzione tra la lettera e lo spirito, etc., tendono a trarre il massimo giovamento dall’elasticità della legge e dalle sue contraddizioni, dalle sue ambiguità o dalle sue lacune. In verità, l’interpretazione della legge non è mai l’atto solitario di un magistrato occupato a fondare sulla ragione giuridica una decisione più o meno estranea, almeno nella sua genesi, alla ragione e al diritto […]: il contenuto pratico della legge che si rivela nel verdetto è l’esito di una lotta simbolica tra professionisti dotati di competenze tecniche e sociali ineguali, e dunque inegualmente capaci di mobilitare le risorse giuridiche disponibili […] e di utilizzarle efficacemente, vale a dire come delle armi simboliche per far trionfare la loro causa; l’effetto giuridico della regola, ossia la sua significazione reale, si determina nel rapporto di forza specifico tra i professionisti52.

Con un’implicita adesione al realismo giuridico nella lotta contro la logica deduttiva, punto d’onore del giurista positivista, Bourdieu afferma inoltre:

lungi dal pensare che il giudice sia sempre un semplice esecutore che dedurrebbe dalla legge le conclusioni direttamente applicabili al caso particolare, egli dispone di una parte di autonomia che costituisce senza dubbio la migliore misura della sua posizione nella struttura della distribuzione del capitale specifico di autorità giuridica; i suoi giudizi […] hanno una vera funzione d’invenzione. Se l’esistenza delle regole scritte tende senza alcun dubbio a ridurre la variabilità comportamentale, resta il fatto che le condotte degli agenti giuridici possono riferirsi e piegarsi più o meno strettamente alle esigenze della legge, e che nelle decisioni giudiziarie (come anche nell’insieme degli atti che le precedono e le predeterminano, quali le decisioni della polizia concernenti l’arresto) residua sempre una parte d’arbitrio imputabile a delle variabili organizzative come la composizione del gruppo decisionale o gli attributi dei giustiziabili53.

Da questi brani acquistano una più precisa caratterizzazione alcuni assiomi fondamentali della concezione del diritto propria di Bourdieu: 1) il testo giuridico «è una posta in gioco di lotte, a partire dal fatto che la lettura è un modo di appropriarsi della forza simbolica che vi si trova racchiusa allo stato potenziale»54; 2) la significazione reale della legge si determina, a un primo livello, nel confronto simbolico tra gli interessi degli interpreti del diritto votati all’elaborazione teorica (la dottrina) e di quelli votati alla valutazione pratica dei casi particolari (i giudici); 3) il verdetto giudiziario è l’esito di una lotta tra interpreti dotati di differenti forme di capitale di autorità giuridica, i quali usano le regole come armi simboliche, e i cui rapporti di forza corrispondono grossomodo a quelli correnti tra i loro clienti. Se dunque il responsabile dell’applicazione del diritto non è il singolo magistrato, si comprende allora come allo stesso modo

il vero legislatore non [sia] il redattore della legge, ma l’insieme degli agenti che, determinati dagli interessi e dalle costrizioni specifiche associate alle loro posizioni in campi differenti […], elaborano delle aspirazioni o delle rivendicazioni private e ufficiose, le fanno accedere allo stato di “problemi sociali”, organizzano le espressioni (articoli di stampa, opere, piattaforme associative o di partito, etc.) e le pressioni (manifestazioni, petizioni, ricorsi, etc.) destinate a “farle avanzare”55.

Richiamare ora brevemente la critica del formalismo ci permetterà di approfondire tali aspetti. Bourdieu imputa infatti al formalismo kelseniano la soppressione della possibilità di un’analisi delle condizioni sociali di efficacia della regola, e il conseguente occultamento, attraverso la posizione della norma fondamentale che svincola il diritto dalla storia legittimandolo come obiettività, della violenza extralegale su cui si fonda l’ordine legale56. Se alcune di queste critiche possono essere certo giustificate, non lo è l’accusa di aver teorizzato delle ‘norme pure’, o un ‘diritto puro’, essendo risaputo che per Kelsen ad essere tali fossero i meccanismi di comprensione della teoria, e non il diritto. Vero è che l’esigenza di purezza della dottrina kelseniana, mettendo l’accento sulla struttura formale, rivela la volontà di non mischiarsi con l’impurità delle produzioni valutative giurisprudenziali, impedendo così di mettere a fuoco l’uso pratico delle norme e il luogo stesso in cui si decide della loro significazione; e tuttavia rimane eccessiva la riduzione del lavoro di Kelsen al «limite ultra-conseguente dello sforzo di tutto il corpo dei giuristi per costruire un insieme di dottrine e di regole totalmente indipendenti dalle costrizioni e dalle pressioni sociali, e che trova in se stesso il proprio fondamento»57.

Anche in merito all’interpretazione, con implicito riferimento a Kelsen, Bourdieu afferma che la decisione giudiziaria deve più alle disposizioni degli agenti che alla “norme pure” del diritto. Ebbene, proprio in ciò Bourdieu si rivela assai più vicino a Kelsen di quanto egli stesso sarebbe stato disposto a immaginare. Su questo tema Kelsen è infatti prossimo a posizioni antiformaliste, sostenendo l’impossibilità di un giudizio sillogistico e di un metodo giuridico-positivo capace di definire esatto uno qualsiasi dei possibili significati di una norma. Il senso della regola giuridica non preesiste mai quindi all’uso interpretativo che ne fanno gli agenti giuridici. Come ha sottolineato Vincenzo Omaggio, non potendo che descrivere la produzione del diritto come regolamentazione di un sistema fatto di norme e di poteri, la teoria pura kelseniana apre uno spazio di discrezionalità coessenziale a qualunque produzione di diritto, e si abbandona in tema di interpretazione a una teoria volontaristica del giudizio, sorvolando sull’effettiva produzione delle norme, perché dovrebbe «prendere in considerazione le giustificazioni e gli argomenti che motivano ciascun organo produttore di diritto»58, intervenendo cioè nel dominio, per essa insondabile, dei giudizi di valore.

Tuttavia, sebbene sia per Bourdieu che per Kelsen l’interpretazione non sia un atto che accede in modo originario al senso oggettivo che precede l’ordine simbolico59, resta il fatto che il formalismo kelseniano elude il problema degli usi sociali delle regole, oltre che il ruolo giocato dagli altri agenti del campo giuridico, quali ad esempio la dottrina. Diversamente, Bourdieu tenta di lanciarsi in questa “impurità”, scoprendone una razionalità legata al gioco e alla concorrenza interna al campo giuridico, così che il suo sguardo sia mirato non tanto a mettere in rilievo antiformalisticamente la componente sociologica e realistica del diritto nella decisione, ma ad analizzare le decisioni a partire dal campo e dal capitale giuridico di chi le produce, a vagliare cioè sociologicamente il contesto interpretativo.

In definitiva, l’interpretazione consiste per Bourdieu in un gioco con la regola che fa parte della regola del gioco, e dove l’importante non è tanto il contenuto della regola, quanto il potere che essa conferisce a chi è incaricato di applicarla a seconda degli habitus all’interno della logica pratica del campo giuridico. Questa tesi – fondata sull’assunto che la regola non è mai il principio dell’azione, ma «interviene come un’arma e una posta in gioco delle strategie che orientano l’azione»60, e che, weberianamente, si obbedisce ad essa quando l’interesse a obbedirle vinca sull’interesse a disobbedirle – è sviluppata ulteriormente in riferimento al campo burocratico e all’applicazione dei regolamenti, laddove Bourdieu prova a smontare il sistema di opposizioni costitutivo della visione del mondo tecnocratica, che fa dell’amministrazione il garante dell’interesse pubblico in contrapposizione alla società civile (che guarderebbe invece al suo interesse privato), e concepisce il potere gerarchicamente, dal centro alla periferia, sulla base dell’idea che sia il vertice a dettare il contenuto delle decisioni dei subalterni, le quali non procederebbero che a un’applicazione meccanica dello stesso. Ebbene, la tesi di Bourdieu è che il diritto non è fatto per essere applicato, e che in qualche modo esso organizza le condizioni della sua stessa trasgressione, perennemente accompagnato com’è da ogni specie di «autorizzazione speciale a trasgredire il regolamento, che, paradossalmente, non può essere accordato che dall’autorità incaricata di farlo rispettare. […] La trasgressione regolamentare o autorizzata […] è iscritta nell’idea stessa di regolamento»61. La scelta di trasgredire la regola è uno dei mezzi più comuni ed efficaci per ottenere potere personale, un carisma burocratico che si concede tante più libertà quante più ne distribuisce. È dunque in relazione all’applicazione stretta del regolamento che la deroga ufficiosa può diventare un servizio reso, entrando così nel circuito degli scambi simbolici.

Insomma, posto che ogni campo è sempre strutturato per Bourdieu in modo solo relativamente formalizzato, avendo cioè sempre un certo margine di indeterminazione, il campo giuridico e quello burocratico non fanno certo eccezione, e sono irriducibili a un «apparato obbediente alla logica quasi meccanica di una disciplina capace di convertire ogni azione in esecuzione, limite irraggiungibile, anche nelle istituzioni totali»62:

per quanto stretta possa essere la definizione del loro posto, e per quanto costringenti possano essere le necessità iscritte nella loro posizione, gli agenti dispongono sempre di un margine oggettivo di libertà (di cui essi possono o meno approfittare a seconda delle loro disposizioni “soggettive”), e […] queste libertà si sommano nel “gioco di biliardo” delle interazioni strutturate: a differenza del semplice ingranaggio di un apparato, essi possono sempre scegliere, nella misura in cui le loro disposizioni ve li incoraggiano, tra l’obbedienza perinde ac cadaver e la disobbedienza (o la resistenza e l’inerzia), e questo margine di manovra possibile apre loro la possibilità di un mercanteggiamento, di una negoziazione sul prezzo della loro obbedienza, del loro consenso […]. Il potere propriamente burocratico e i profitti leciti o illeciti […] che esso può procurare riposano sulla libertà che è lasciata, in fatto o in diritto, agli agenti di scegliere una delle strategie obiettivamente offerte nel ventaglio di possibilità distribuite tra l’applicazione rigorista e stretta della regola e la trasgressione pura e semplice63.

L’applicazione della regola non è mai meccanica, e l’agente, giudice o funzionario pubblico, non è un semplice esecutore. Ma non è neanche un soggetto puro e libero quello che può sfruttare questi margini di libertà, poiché la scelta tra la stretta applicazione e la trasgressione legittima dipende dalla «relazione oggettiva e soggettiva con uno spazio di possibili praticamente incarnato dal campo delle istanze burocratiche complementari e concorrenti»64: insomma, essa dipende dagli habitus – i quali non scelgono né sono obbligati, ma sono predisposti a una determinata scelta –, e dagli interessi di corpo e di posizione interni al corpo burocratico degli agenti. È in un siffatto spazio di gioco e di lotte simboliche che l’agente può usare la regola come un’arma.

Ora, è proprio su quest’ultimo punto che Bourdieu rivela una certa affinità con le posizioni di Michel Foucault, con il quale oltretutto condivide non poche prospettive di ricerca65. Per entrambi, innanzitutto, le regole non sono mai fabbricate in modo innocente, ma sono oggetto di appropriazione da parte degli agenti, risorse che devono essere mobilitate, o meglio, affermate, come è vero che il diritto è in qualche modo la prosecuzione della guerra con altri mezzi; per entrambi, inoltre, lo ricorda Jacques Calloisse, «la constatazione ingenua dell’eventuale disapplicazione del diritto non potrebbe essere seriamente funzionale alla condanna della sua inefficacia. Il diritto infatti non si realizza pienamente che al prezzo di operazioni sociali diversificate in cui trovano posto manovre e manipolazioni delle regole»66. Bourdieu è certamente qui molto vicino alla teorizzazione foucaultiana della legge come differenziazione degli illegalismi67; ma a differenza di quanto afferma Calloisse, l’essere della regola oggetto delle interpretazioni non è funzionale alla semplice riproduzione del sistema, poiché quando si privilegino in Bourdieu la dimensione nietzscheana della lotta e la concezione della regola come un’arma, va da sé che la regola può essere mobilitata anche contro l’ordine simbolico esistente.


Dalla genealogia del disinteresse alla rifondazione dell’universale

Nel tentativo fin qui condotto di evidenziare i punti essenziali del discorso di Bourdieu sul diritto si è evitato di rilevarne alcune aporie e contraddizioni. Ciò vale in primo luogo per il rapporto tra gli habitus, che eccedono sempre le regole (così come la vita eccede le forme), e le regole giuridiche, che determinano comunque lo spazio dei possibili e degli impossibili; secondariamente per la duplice possibilità della norma di influire sugli habitus ma anche di costituire una difesa rispetto all’arbitrio dei dominanti68; e infine per il riconoscimento di una specificità della norma, irriducibile alla regolarità sociale, sebbene poi la sua applicazione non sia mai meccanica ma dipenda sempre dai rapporti di forza interni al campo giuridico.

Si è inoltre accennato ad alcune affinità riscontrabili tra le posizioni di Bourdieu e la genealogia foucaultiana, e tuttavia vi è un punto in particolare sul quale esse appaiono incompatibili, laddove Bourdieu, anziché rimettere in questione il possibile che fra tutti si è realizzato «riattivando i conflitti e i confronti degli inizi e, con essi, le possibilità accantonate», e dunque riattualizzando «la possibilità che le cose andassero (e vadano) altrimenti», opta per una «Realpolitik della ragione» e per una rifondazione paradossale della morale.

Per comprendere ciò è sufficiente ritornare alla nozione di interesse e al problema dello Stato. Per Bourdieu non si dà disinteresse che nella misura in cui si incontrino habitus a esso predisposti e universi nei quali sia ricompensato. Il comportamento disinteressato non è infatti il prodotto di un calcolo deliberato, ma dell’esistenza di un campo in cui si iscrive il nostro comportamento e del conseguente interesse a partecipare al gioco. In testi come È possibile un atto disinteressato? o Un fondamento paradossale della morale, contemporanei allo scritto sui giuristi qui presentato e ora riediti in Ragioni pratiche, Bourdieu afferma che in ogni gruppo umano sussiste un riconoscimento universale del riconoscimento dell’universale, o meglio, delle strategie universali di riconoscimento della validità di comportamenti che sono soggetti od ossequiosi, anche in maniera ipocrita, rispetto all’universale. Ciò è dovuto al fatto che la strategia di universalizzazione consente una crescita di potenza simbolica legata all’appropriazione della forza simbolica del senso comune del gruppo. Il riconoscimento e l’omaggio alla regola del gruppo – anche quando trasgredita, come nel caso dei pentiti – costituiscono degli atti di «pietosa ipocrisia»: omaggiare la virtù costituisce un inganno che non inganna nessuno, ma che è facilmente accettato nella misura in cui comporta una dichiarazione esplicita di rispetto per le regole del gruppo, il quale riconosce solo coloro che pubblicamente lo riconoscano. La decisione di un giudice «che finge di dedurre dai principi puri del diritto una decisione ispirata o imposta da considerazioni del tutto contingenti» è un esempio di queste strategie di universalizzazione che danno al gruppo «ciò che esso vuole sopra ogni altra cosa, e cioè una pubblica dichiarazione di ossequio al gruppo e alla rappresentazione di sé che esso intende dare e darsi»69.

Il caso dello Stato è esemplare, poiché esso è il luogo di una concorrenza tra forze che si combattono attraverso strategie di universalizzazione capaci di contribuire al progresso dell’universale oltre le loro stesse intenzioni70. Il costituirsi dello Stato come monopolio della violenza fisica e simbolica genera un «campo di lotte per il monopolio dei vantaggi che derivano da quel monopolio»; ma «questo monopolio dell’universale può essere ottenuto solo a prezzo di una sottomissione (almeno apparente) all’universale e di un universale riconoscimento della rappresentazione universalistica del dominio, presentata come legittima e disinteressata»71. Che il disinteresse come norma ufficiale del campo giuridico e burocratico non li governi interamente, restando il burocrate, dietro un’apparenza di virtù, anche colui che mette lo Stato al suo servizio, è cosa certa, ma è altrettanto certo per Bourdieu che le rappresentazioni ufficiali di ciò che l’uomo è ufficialmente in uno spazio sociale possono diventare un habitus, un principio reale di pratiche. Insomma, sembra che la regola e la sanzione possano diventare infine generatrici di pratiche: si può mettere lo Stato al proprio servizio, «ma non si vive impunemente nell’invocazione perenne della virtù: si è presi in un ingranaggio, esistono sanzioni, che riportano all’obbligo del disinteresse»72.

La virtù è legata all’esistenza di condizioni sociali di possibilità di universi in cui «disposizioni durevoli al disinteresse possano essere costituite e, una volta costituite, trovare condizioni oggettive di conferma costante e diventare il principio di una pratica permanente della virtù»73. Se per farsi valere in un campo giuridico occorre far valere una ragione universale, allora il campo giuridico, come pure quello burocratico, possono favorire condotte disinteressate, sia perché entrambi volti a conservare il monopolio sull’universale, sia e soprattutto perché i conflitti tra le varie posizioni interne a un campo determinano l’esercizio di un controllo incrociato che può garantire il rispetto del valore pubblico del disinteresse, ossia di un comportamento adeguato al valore ufficiale dell’universale, dal momento che discostarsi da questo valore può comportare una perdita di legittimazione simbolica. Ecco spiegato come l’ipocrisia collettiva di cui i giuristi sono custodi possa costituire per Bourdieu una forma di progresso dell’universale: la forza del diritto si impone anche ai dominanti. O in altri termini, ammesso che i valori universali siano dei valori particolari universalizzati, e preso atto di ciò, è necessario agire in modo che si produca una disposizione al disinteresse, in quanto «l’interesse per l’universale e il profitto dell’universale sono indiscutibilmente il movente più sicuro del progresso dell’universale»74.

Più in generale, lo sviluppo delle potenzialità antropologiche che va sotto il nome di ragione è dovuto all’emergenza storica di quegli universi particolari nei quali per farsi valere bisogna far valere delle ragioni, e dunque alla «storia stessa di quei microcosmi sociali in cui gli agenti lottano, in nome dell’universale, per il monopolio legittimo dell’universale». Questo spazio di lotta e di concorrenza è tale da trasformare i kantiani moventi patologici in motivi logici. Il progresso della ragione e lo sviluppo della mente umana sono inscindibili dalla storia e dalle condizioni sociali che li consentono, così che una Realpolitik della morale abbia il dovere di mobilitarsi per difendere tali condizioni.

Ovviamente Bourdieu continua a credere che l’origine della ragione non risieda in una facoltà o in una natura umana, che le forme di comunicazione non possano darsi in modo trasparente su un piano di parità, e che non esistano universali transtorici della comunicazione, come invece per Habermas; e tuttavia ritiene che esistano delle «forme istituite e garantite della comunicazione che, come quelle che si impongono di fatto nel campo scientifico, conferiscono la loro piena efficacia a meccanismi di universalizzazione come i controlli reciproci che la logica della concorrenza impone più efficacemente di qualsiasi esortazione all’“imparzialità” o alla “neutralità etica”»75.

In conclusione, è attraverso un’operazione di storicizzazione radicale che per Bourdieu si può denaturalizzare e relativizzare un principio storico che si presenti come naturale, ma, a differenza della genealogia foucaultiana, è paradossalmente attraverso questa stessa storicizzazione che si può strappare la ragione alla relativizzazione storica e all’arbitrio, «tentando di capire come, e a quali condizioni, possano istituirsi nelle cose e nei corpi le regole e le regolarità di giochi sociali, capaci di costringere le pulsioni e gli interessi egoistici a superarsi in e attraverso il conflitto regolato»76. Il fatto che la ragione sia fondata nella storia non vuol dire che sia a essa riducibile: «è nella storia […] che va cercato il principio dell’indipendenza relativa della ragione nei confronti della storia di cui essa è il prodotto»77.



1 Sulle ragioni di questo disinteresse si veda A. Boschetti, La rivoluzione simbolica di Pierre Bourdieu, Marsilio, Venezia 2003, pp. 9-11. Cfr. pure G. Marsiglia, Pierre Bourdieu.Una teoria del mondo sociale, Cedam, Padova 2002.

2 Fanno eccezione i lavori di A. Salento, Diritto e campo giuridico nella sociologia di Pierre Bourdieu, in “Sociologia del diritto”, 1 (2002), pp. 37-74, e di F. Saverio Nisio, Metamorfosi di Bourdieu. La mistica, il diritto, la storia, in “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, 35 (2006), pp. 9-56.

3 Per i lavori precedenti cfr. P. Bourdieu, La force du droit. Eleménts pour une sociologie du champ juridique, in “Actes de la recherche en sciences sociales”, 64 (1986), pp. 3-19; Id., Habitus, code et codification, in “Actes de la recherche en sciences sociales”, 64 (1986), pp. 40-44; Id., Droit et passe-droit. Le champ des pouvoirs territoriaux et la mise en œuvre des réglements, in “Actes de la recherche en sciences sociales”, 81-82 (1990), pp. 86-96. I brani di seguito citati nel testo sono stati tradotti da chi scrive.

4 Cfr. Id., Meditazioni pascaliane, Feltrinelli, Milano 1998, p. 103.

5 Id., Per una teoria della pratica con Tre studi di etnologia cabila, Cortina, Milano 2003, pp. 255-266.

6 Id., Habitus, code et codification, cit., p. 41.

7 Id., Risposte. Per un’antropologia riflessiva, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 89.

8 Ivi, p. 94.

9 Cfr. ivi, p. 138.

10 Id., Il senso pratico, Armando Editore, Roma 2005, pp. 170-171.

11 Id., Sul potere simbolico, in A. Boschetti, La rivoluzione simbolica di Pierre Bourdieu, cit., p. 120.

12 Ivi, p. 127.

13 P. Bourdieu, La parola e il potere. L’economia degli scambi linguistici, Guida, Napoli 1988, p. 29.

14 Ivi, p. 115.

15 Id., Risposte, cit., p. 129.

16 Ivi, p. 82.

17 Ivi, p. 108.

18 Per un’analisi del normativismo kelseniano inteso come un normativismo critico che non trasferisce le proprie esigenze metodologiche razionalizzatrici al contenuto di ciò che è stato razionalizzato ai fini del processo di comprensione, cfr. A. Catania, Decisione e norma, Jovene, Napoli 1979, p. 159.
  19 P. Bourdieu, La force du droit, cit., p. 3.

20 Id., Ragioni pratiche, Il Mulino, Bologna 2009, p. 113.

21 Id., La force du droit, cit., p. 5.

22 Ivi, p. 3.

23 Id., Ragioni pratiche, cit., p. 96. Cfr. inoltre Id., Risposte, cit., p. 83: «Ne consegue che la costruzione dello Stato procede parallelamente alla costruzione del campo del potere inteso come spazio di gioco all’interno del quale i detentori di capitale (delle diverse specie) lottano in particolare per il potere sullo Stato, cioè sul capitale che conferisce potere sulle diverse specie di capitale e sulla loro riproduzione (soprattutto attraverso l’istituzione scolastica)».

24 Id., Ragioni pratiche, cit., p. 107.

25 Ivi, p. 117.

26 Ibidem.

27 Id., Meditazioni pascaliane, cit., p. 110.

28 Cfr. M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 28-42.

29 P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, cit., p. 106.

30 Id., La force du droit, cit., p. 4.

31 V. Ferrari, Diritto e società. Elementi di sociologia del diritto, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 155.

32 P. Bourdieu, La force du droit, cit., pp. 5-6.

33 Ivi, p. 11.

34 Ivi, p. 14.

35 Cfr. ivi, p. 8, nonché Id., La parola e il potere, cit., p. 17: «Coloro che, come Max Weber, hanno contrapposto al diritto magico o carismatico del giuramento collettivo o dell’ordalia un diritto razionale fondato su quel che è calcolabile e prevedibile, dimenticano che il diritto più rigorosamente razionalizzato non è altro che un atto di magia ben riuscito».

36 Ivi, p. 4.

37 Ivi, p. 11.

38 Ibidem.

39 Ivi, p. 9.

40 Ivi, p. 10 [nostro il corsivo].

41 P. Bourdieu, Habitus, code et codification, cit., p. 41.

42 Per un’analisi critica della forza della forma in Bourdieu cfr. V. Roussel, Le droit et ses formes. Éléments de discussion de la sociologie du droit de Pierre Bourdieu, in “Droit et société”, 56-57 (2004), pp. 41-56.

43 P. Bourdieu, La force du droit, cit., p. 5.

44 Id., Habitus, code et codification, cit., p. 42.

45 Id., La force du droit, cit., pp. 16-17.

46 P. Bourdieu, La force du droit, cit., p. 13.

47 Cfr. M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 2005, pp. 204-216.

48 P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, cit., p. 110.

49 Al riguardo si veda anche J. Derrida, Forza di legge. Il «fondamento mistico dell’autorità», Bollati Boringhieri, Torino 2003. Sul concetto di autorità cfr. U. Pomarici, Autorità, in Id. (a cura di), Filosofia del diritto. Concetti fondamentali, Giappichelli, Torino 2007, pp. 1-39.

50 P. Bourdieu, La force du droit, cit., p. 4.

51 Ivi, p. 6.

52 Ivi, p. 8.

53 Ibidem.

54 Ivi, p. 4.

55 Ivi, p. 17.

56 Cfr. in particolare Id., I giuristi, custodi dell’ipocrisia collettiva, in questo stesso numero, nonché Id., Meditazioni pascaliane, cit., p. 101.

57 Id., La force du droit, cit., p. 3. Kelsen cerca d’altronde di comprendere il diritto positivo attraverso un’analisi della sua struttura, e dunque senza legittimarlo e senza squalificarlo, e non nega affatto che il diritto sia un prodotto ideologico o artificiale, né che al di sotto dell’ordine delle norme non vi sia altro che lo sguardo di Gorgone del potere, e non certo un’armoniosa legge naturale. Cfr. al riguardo A. Carrino, L’ordine delle norme. Politica e diritto in Hans Kelsen, ESI, Napoli 1984, p. 36, nonché N. Bobbio, Kelsen e il potere giuridico, in M. Bovero (a cura di), Ricerche politiche. Saggi su Kelsen, Horkheimer, Habermas, Luhmann, Foucault, Rawls, Il Saggiatore, Milano 1982, pp. 3-26.

58 V. Omaggio, Teorie dell’interpretazione. Giuspositivismo, ermeneutica giuridica, neocostituzionalismo, Editoriale Scientifica, Napoli 2003, p. 141.

59 Per una critica del momento interpretativo come «primitiva adesione al senso o primitiva aderenza al senso» cfr. F. Ciaramelli, Creazione e interpretazione della norma, Città Aperta, Troina 2003, pp. 90-142.

60 P. Bourdieu, Droit et passe-droit, cit., p. 91. Su questo testo si veda il commento di P. Lascoumes, J.-P. Le Bourhis, Des «passe-droits» aux passes du droit. La mise en œuvre socio-juridique de l’action publique, in “Droit et société”, 32 (1996), pp. 51-73.

61 Ibidem.

62 Ivi, p. 89.

63 Ivi, p. 88.

64 Ivi, p. 91.

65 Basti pensare al fatto che anche per Foucault le forme di esperienza, o meglio, le matrici di giudizio che le costituiscono hanno il loro fondamento in un partage, in un principio di divisione, ossia in una matrice ordalica, così che si ponga la necessità di operare un lavoro di storicizzazione radicale nei confronti degli universali. Per entrambi inoltre il diritto non si riduce a ideologia, e per entrambi è fondamentale guardare ai giochi strategici che si attuano con le regole, nonché al potere di giudicare (ciò di cui è testimonianza l’interesse comune per il lavoro di Georges Dumezil sulla lode e il biasimo; cfr. G. Dumézil, Servius et la fortune. Essai sur la fonction sociale de Louange et de Blâme et sur les éléments indo-européens du cens romain, Gallimard, Paris 1943). Si pensi infine al fatto che alcuni concetti utilizzati da Bourdieu sono la replica esatta di concetti foucaultiani, quali ad esempio quelli di «regime di verità» (P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, cit., p. 102), di «veridizione» (ivi, p. 10), di verità come posta in gioco di lotte (Id., Lezione sulla lezione, cit., p. 20), e ancora di discorso come arma (Id., La parola e il potere, cit., p. 116). Sul rapporto tra Bourdieu e Foucault cfr. M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano, cit., pp. 83-104, e E. de Conciliis, Il senso del giudizio. Bourdieu, Foucault e la genealogia del diritto, in questo numero.

66 J. Calloisse, Pierre Bourdieu, juris lector: anti-juridisme et science du droit, in “Droit et Société”, 56-57 (2004), p. 32 [la traduzione è di chi scrive].

67 Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1993, pp. 282-323.

68 Come osservato da F. Ocqueteau e F. Soubiran-Paillet, Champ juridique, juristes et règles de droit: une sociologie entre disqualification et paradoxe, in “Droit et Société”, 32 (1996), p. 22: «Se in modo incrollabile in Bourdieu l’habitus, che è primario, va a colmare le lacune della regola, l’esistenza di quest’ultima non è inutile. Infatti, nel rapporto inegualitario che contrappone degli agenti differentemente dotati di capitale, Bourdieu ritiene che quando le regole definiscono i doveri del subordinato, esse limitino ugualmente il potere del dominante: definendo ciò che ha diritto di esigere, esse impongono un limite all’arbitrio, all’abuso di potere» [la traduzione è di chi scrive].

69 P. Bourdieu, Ragioni pratiche, cit., pp. 213-214.

70 Cfr. al riguardo A. Boschetti, op. cit., p. 107.

71 P. Bourdieu, Ragioni pratiche, cit., p. 118.

72 Ivi, p. 147.

73 Ibidem.

74 Ivi, p. 215.

75 Id., Meditazioni pascaliane, cit., p. 116.

76 Ivi, p. 99.

77 Ivi, p. 115.




torna su