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sotto giudizio
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EDITORIALE

sotto giudizio

Il piacere di esprimere una sentenza negativa è sempre inconfondibile. È un piacere duro e crudele, che non si lascia sviare da nulla. [...]

Le sentenze incondizionate e rapide fanno sì che il piacere si dipinga sul volto del sentenziante. [...] Ci si arroga in tal modo il potere di giudice. [...]

Quelli che si astengono dal sentenziare poiché se ne vergognerebbero, si possono contare sulle dita. La malattia del condannare è una delle più diffuse tra gli uomini: in pratica, tutti ne sono colpiti.

Elias Canetti


Da Aristotele a Kant, la filosofia occidentale ha prelevato una parte consistente del suo lessico dal campo del diritto. Quanto più si è dedicata alla purificazione formale ed alla costruzione razionale del sapere (dalla dialettica platonica e dal corpus aristotelico, su su fino al criticismo kantiano ed al neopositivismo logico), tanto più essa ha lavorato quasi esclusivamente con i giudizi e le loro concatenazioni logiche, attribuendo all’atto del giudicare un valore fondativo; ha inoltre classificato i giudizi, distinguendo opportunamente tra enunciato, giudizio e sillogismo, ma anche tra varie forme di giudizio: dalla semplice attribuzione di un predicato ad un soggetto (A è B, A non è B), alla vera e propria valutazione morale dell’oggetto (A è buono, B è cattivo, ecc.). Già Socrate e Platone avevano elaborato la ricerca della verità come rigorosa pratica definitoria, in virtù della quale la ragione come logos può espellere dal proprio campo ciò che accusa, giudicandolo inferiore o estraneo al concetto.

La κρίσις, insomma, non è altro che un giudizio. Pensare equivale a giudicare, quindi a processare: distinguere, discernere con un atto dia-critico (dal greco κρίνω, separo, divido, trascelgo, ma anche giudico, sentenzio, condanno, infine dichiaro, determino) ciò che è bene da ciò che è male, ciò che è utile da ciò che è dannoso, ma soprattutto separare colui che compie o incarna il bene da colui che compie o incarna il male. Il verbo greco kategoreuein (κατηγορέυειν), significava, alla lettera, accusare pubblicamente qualcuno sulla piazza: κατηγορία era, in origine, l’accusa o il capo d’imputazione, e solo a partire da Aristotele il termine passerà a indicare un attributo o un predicato dell’essere. Da tale punto di vista, l’uso neutro delle categorie filosofiche nasconde una pratica socialmente connotata di valutazione delle azioni e stigmatizzazione degli individui, oppure una situazione di scontro nell’agone politico. La filosofia occulta, senza per questo poterla completamente rimuovere dal proprio ‘inconscio’ disciplinare, una genealogia impura del potere, prima che del diritto di giudicare: la neutralità del pensiero filosofico, come quella del pensiero giuridico, è solo presunta e mistificatoria, mentre al di sotto di essa agisce il giudizio gerarchizzante e performativo della ragione, intesa come dissimulata forma di superiorità.

In questo numero 9 di Kainos, si cercherà dunque di decostruire l’abitudine umana, troppo umana a porre gli altri ‘sotto giudizio’, ovvero, come sostiene Canetti nel paragrafo di Massa e potere citato in epigrafe, il piacere di sentenziare e condannare. Gli uomini giudicano gli altri uomini con veemente passionalità: il processo è solo una possibile messa in forma rituale della insopprimibile, arrogante tendenza a praticare un taglio, a separarsi, come giudici, dai giudiziabili, al fine di includersi nei primi (superiori) ed escludere i secondi (inferiori). Per indagare su tale partage, bisogna però traslare la forma asettica del giudizio dalla filosofia al diritto, e da questo al più ‘basso’ contesto socio-antropologico. Il giudizio è infatti un elemento ineludibile del linguaggio e più in generale del comportamento umano, ma risulta poco analizzato, ad esempio dai linguisti, nella misura in cui costoro espungono dallo studio strutturalista della lingua proprio il contesto sociale in cui viene adoperata. Esercitato sia sulle cose che sulle persone nel suo compulsivo, spesso inconscio sadismo, comunque sempre in funzione identitaria e socialmente identificante, il giudizio non è mai neutro e distaccato, ma implica sempre una posizione di forza da parte chi lo emette, e di debolezza per chi ne è oggetto: giudicare è sempre anche pre-giudicare attraverso schemi (categorie) inferiorizzanti, e ciò molto prima che sorga quell’insieme di norme scritte e/o orali che chiamiamo legge o codice, e che costituisce il metro linguistico tradizionale, autorevole del giudizio – sia esso inserito o meno in una compagine statale.

Una simile impostazione etno-antropologica ha una sensibile ricaduta sulla tradizionale moralità, ma anche sulla tecnica del diritto: il giudicare, l’emettere sentenze, assoluzioni o condanne, non è un’operazione esclusivamente giuridica, professionale, quanto piuttosto un’attività che sprofonda nel pre-diritto ed appare problematicamente connessa, da un lato, alla filosofia, dall’altro alla psicologia sociale, poichè la società non fa che giudicare i suoi membri attraverso altri suoi membri. In tal senso, come sosteneva Durkheim, la società è Dio. Potremmo definire questa pervasiva rete di relazioni di potere la struttura sociale e infra-giuridica del giudizio, ma anche la struttura religiosa (in termini foucaultiani: pastorale) del potere di giudicare, ed è appunto di questa struttura che si occuperà il nuovo numero di Kainos, per illuminare il senso nascosto di un concetto che la tradizione filosofica moderna ha ammantato di purezza e neutralità, proprio mentre i giuristi lo usavano per legittimare la ritualizzazione istituzionale (il monopolio, nei termini di Weber) della violenza da parte dello stato: per secolarizzare il giudizio di Dio.

Si tratta, in altri termini, di comprendere con strumenti diversamente ‘critici’: 1) in che modo e a quale livello la filosofia e il diritto si incrocino, o meglio si coprano a vicenda nell’occultare la dimensione ordalica, nietzscheana e pre-giuridica, del giudizio di valore; 2) dal momento che oggi, sia nel nostro che in altri paesi, la pratica tradizionale del potere giudiziario appare in crisi – cioè essa stessa sottoposta a giudizio –, si tratta di capire in che modo e a quale livello la società contemporanea sembri attraversata da un profondo malessere che si riverbera, ad esempio in Italia, sul conflitto tra politica e magistratura, o che incontra le sue nuove zone d’ombra nelle sentenze che toccano la sfera della bioetica – una sfera nella quale la partizione superiori/inferiori non può più funzionare, sostituita ad esempio da quella vita/morte, ed in cui sembrano cadere le distinzioni moderne tra laico e religioso, politica e medicina, ecc. Quanto più si trasforma, complicandosi indefinitamente, l’oggetto del giudizio (non più soltanto il criminale, ma anche lo psicopatico, il serial killer, il politico, il malato, ecc.), tanto più si modifica e s’interroga il soggetto giudicante (non solo il giudice ma anche il filosofo, lo psichiatra, il medico, ecc.).

Ricercare il senso del giudizio e del pre-giudizio nella cultura e nella società contemporanea, ritrovare in essa la persistenza metamorfica della dimensione originariamente religiosa del giudizio (dal giudizio di Dio nella bioetica a quello universale nelle catastrofi climatiche), significa analizzare quanto vi è di piacevole e di interessato nel potere ‘neutro’ di giudicare, nella sua problematica universalità – dunque anche nelle forme propriamente estetiche del giudizio. E se il compito di un’analisi critica del potere di giudicare consiste nel restituire foucaultianamente la parola a coloro che, a vario titolo o solo potenzialmente, vengono posti ‘sotto giudizio’ – non soltanto criminali e anormali, ma tutti i deboli, i diversi e i devianti –, allora bisognerà saggiare la consistenza psicologica del rapporto tra giudice ed imputato, accusatore ed accusato, ma anche tra carnefice e vittima, cittadino e straniero, sulle scene calde dell’attualità: la politica-spettacolo dell’impunità, le carceri poste al di fuori della giurisdizione statale, il trattamento giuridico dei clandestini e degli immigrati, la violazione degli ‘artificiali’ diritti umani, il giudizio sui crimini di guerra, in una parola il processo del post-moderno.

In questa prospettiva, il tentativo del nuovo numero kainotico è anche quello di connettere due campi del giudizio che appartengono a due diverse sfere d’enunciazione: quella politica e quella logico-linguistica. Esiste infatti una filosofia “internazionale” del diritto, alimentata da una proficua letteratura di taglio evoluzionista, che narra di un giudizio non formalizzato dei popoli, in grado di rovesciare sia le tradizionali – sedicenti superiori – categorie del pensiero giuridico moderno, sia la visione “impolitica” – falsamente neutrale – di una storia del giudizio del tutto esterna alla filosofia giudicante: un ‘tribunale’ istituito dalle popolazioni in rivolta a partire dalla fine del colonialismo euro-occidentale, cioè dalla metà degli anni Cinquanta del secolo appena trascorso. Si tratta allora di indagare in che modo questo nuovo diritto dei popoli, sorto da esperienze post-coloniali di migrazione, autogoverno, resistenza e recupero della sovranità economica, abbia prodotto o stia producendo la fine del moderno paradigma della separazione tra giuridico-politico e logico-linguistico, nella misura in cui sembra emergere dall’agire di soggettività plurali e movimenti che si autocostituiscono in comunità del non-giudizio, sfuggendo in tal modo a quelle dinamiche tutte occidentali del potere di giudicare e di escludere, di cui storicamente, cioè come popoli ‘inferiori’, sono stati vittime. Proprio nel rifiutare il diritto occidentale moderno (incapace di punire i crimini di guerra e d’imporre una giurisdizione internazionale, cioè colpevole di impunità di fronte ai massacri), questi popoli lasciano intravedere all’alba del nuovo secolo una possibilità pratica di enunciazione globale dei diritti a partire dal wittgensteiniano “senso comune”: intrecciando giochi linguistici e forme di vita, teoria dell’enunciazione e teoria politica.