sotto giudizio
RECENSIONI

Jean-Luc Nancy
L’imperativo categorico
traduzione e cura di Fulvio F. Palese, Nardò (LE), Besa,
2007 (astrolabio, 10), pp. 164,
ISBN 978-88-497-0340-5, € 14,00



Concepito alla fine degli anni Settanta e pubblicato in Francia all’inizio degli anni Ottanta, il testo di Nancy problematizza l’obbligo non tanto come questione che rimanda a un dover essere, ma come problema dell’essere stesso – e perciò come problema ontologico –, visto che nell’essere-obbligato si aprirebbe la possibilità della dignità e del senso, liberando così l’essere per il suo essere più proprio. Se il Kant secolarizzato di una ragione autoprescrittiva che tiene insieme coercizione e libertà è il riferimento principe («Bisogna in questo mondo e suo malgrado far avvenire il mondo della ragione o piuttosto la ragione come mondo», perciò «La ragione si obbliga alla sua libertà e si libera per il suo obbligo», p. 11, “Prefazione”), non meno presenti sono, per esempio, Nietzsche o Derrida, Hegel e Heidegger, insomma la costellazione degli autori che anche altrove sono gli interlocutori privilegiati di Nancy.

Oltre ogni rigorismo moralistico, autoposizione soggettivistica o esaltazione di un libero arbitrio individualizzante, l’imperativo categorico kantiano è letto da Nancy come l’ingiunzione che indirizza e destina all’eccedenza della libertà (“Il kategorèin dell’eccesso”, pp. 15-42), come il rimando implicito di un Nietzsche moralista di una morale ancora a venire e dominata dalla Redlichkeit, ossia da quella probità alla parola che instaura la verità e il sapere della necessità (“La nostra rettitudine! Sulla verità in senso morale in Nietzsche”, pp. 71-96), come il riferimento obbligato per l’indigenza del nostro tempo, che sembra provenire dal vacillare della prospettiva etica e che trova invece nella scrittura, nella sua legge e nell’obbedienza alla custodia del domandare quell’etica un po’ unheimlich che esige e reclama la differenza del finito (“La voce libera dell’uomo”, pp. 123-148).

Due saggi in particolare affrontano la questione del giudizio e dell’ingiunzione, entrambi nel rimando all’imperativo kantiano, ma declinato una volta nella sequela della giurisprudenza latina (“Lapsus judicii”, pp. 43-70), un’altra volta confrontato invece alla sfida heideggeriana di dover pensare il ritrarsi della verità (“La verità imperativa”, pp. 97-122).

Secondo Nancy la giurisprudenza che scavalca la filosofia è simbolizzata storicamente da Roma conquistatrice di Atene, dal diritto romano che assume rilevanza teorica e metafisica – quasi un superamento del logos greco da parte della formulazione latina –, ma anche da quel Kant che si interroga sulle giurisdizioni del pensiero e sulla legittimazione del caso empirico e dell’accidente fattuale, ossia che pone il problema del «diritto di ciò che è di diritto senza diritto» (p. 55, nota), resistendo così anticipatamente alle sistematizzazioni successive dell’idealismo hegeliano, che invece restaura la preminenza del rimando greco. La persona giuridica che si determina nell’accidentalità e nella finitezza risulta in effetti il rovescio dell’hypokeimenon, giacché è subjectum nel senso del subordinato, assoggettato, supposto; così allo stesso modo il giudizio si distingue dal concetto, giacché è piuttosto discernimento, scelta, decisione (krisis), secondo una connotazione più pratica che gnoseologica. Si tratta qui, per Nancy, del discorso latino della filosofia, paradigmaticamente presente nel Kant che inaugura il tribunale della ragione: «Invece di possedere un’essenza, che sarebbe di conoscersi, la ragione conosce un accidente, che è di dover giudicarsi. La ragione s’imbatte nel suo proprio caso, il caso del giudice» (p. 58), dice così il suo contorno, la sua figura, «il limes della e nella ragione» (p. 63). Ma se la filosofia, nel farsi ontologia della finitezza, si pensa e si dice secondo il diritto, perfino attraverso le finzioni dei suoi casi fittizi o dei suoi ‘come se’, allora può sempre cadere in fallo, allora il lapsus judicii non è l’occorrenza casuale e accidentale, ma la caratteristica costitutiva e permanente della sua fallibilità. «Quando la filosofia si fa giuridica, quando passa nel diritto, il suo giudizio non si pronuncia che per bocca di una persona che non cessa di commettere lo stesso lapsus attraverso il quale, giustamente, essa si rivela per intero (rivela la causa, la sua causa, la sua cosa, res – rien) […] – dicendo, nel suo discorso latino, fictio per dictio, o dictio per fictio, ma sempre significando il suo diritto a dire» (p. 68).

L’imperativo, nella sua forza categorica, è in Kant ciò che tira fuori la verità da se stessa, strappandola al suo regime e facendola diventare verità imperativa, legge anteriore all’impero del vero, ingiunzione che è l’altro della verità nella verità stessa. Quella verità che nella tradizione filosofica era stata pensata come adeguazione, conformità e rappresentazione, che in Hegel è poi diventata autorivelazione e autopresentazione della cosa stessa all’interno di una fenomenologia dello spirito, mostra però per Nancy una circolarità di reciproca presupposizione del teorico e del politico, del vero e del potere. Ma ciò che la verità presuppone come verità della verità stessa deve rimanere anche fuori dalla presa, per esempio restando quella patenza sottratta cui si riferisce Spinoza o la ritrazione che è al cuore della a-letheia di Heidegger e che in Kant compare nell’instaurazione del regime di una finitezza che nella libertà non rimanda più essenzialmente all’infinito, giacché l’imperativo è vuoto. La particolarità dell’imperativo «è di essere senza impero, non pregiudica niente circa l’esecuzione del suo ordine, non mette in opera alcuna forza esecutoria; ed è così che non è potere» (p. 119), esso è piuttosto «il pudore della verità nel suo ritrarsi» (p. 120). «L’imperativo non prescrive nulla – se non la verità (la forma della legge) –, ma a prescrivere non è la verità: qui nessun Padrone [Maître] è presupposto e preposto. L’imperativo è senza potere. La verità è prescritta a partire dalla sua ritrazione» (ibid.). L’imperativo eccede allora ogni enunciazione così come ogni volontà, prescrive il volere e la legge, ma senza volerla dire: «se l’imperativo è proprio ciò che emerge dal ritrarsi della verità – e che sorge ingiungendo all’uomo di essere vero – questa verità imperativa sorge nella ritrazione del Vero-Soggetto e come sua ritrazione» (p. 121). Non è insomma più possibile né proponibile alcuna verità sul vero, la verità imperativa è l’indiscutibile e inverificabile essere-ingiunto dell’uomo, l’essere assegnato nella sua verità da un’ingiunzione che non gli impone nient’altro che la propria umanità.

Un’appendice su “L’essere abbandonato” (pp. 149-162) conclude la riflessione di Nancy attraverso il rimando alla localizzazione dell’essere nello scarto del luogo, paradigmaticamente esibita dalle tre figure mitiche dell’abbandono, Mosè, Edipo e Cristo, oltre che da tutti gli abbandonati e le abbandonate dell’amore romantico, della derelizione, della gettatezza, della messa al bando di ogni ecce homo nel teatro di un mondo che deve essere – imperativamente e categoricamente – opera di libertà e segno di finitezza.


(Gabriella Baptist)


Indice :

Prefazione all’edizione italiana di Jean-Luc Nancy

L’imperativo categorico

Il kategorèin dell’eccesso

Lapsus judicii

La nostra rettitudine! Sulla verità in senso morale in Nietzsche

La verità imperativa

La voce libera dell’uomo

Appendice

L’essere abbandonato





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