sotto giudizio
RICERCHE


Giudizio e intuizione:
la fenomenologia husserliana dell’esperienza

di Gabriele Miniagio




1. La pretesa apofantica del giudizio

Il giudizio si può pensare come un taglio che opera sul dicibile per includere nel contenuto assertivo certe caratteristiche ed escluderne altre1. Ora, quando esso prende la forma di un giudizio di valore, in cui si discrimina, per esempio, fra ciò che è bene e ciò che è male, fra ciò che è bello e ciò che è brutto, il taglio non è semplicemente un’operazione cognitiva, ma ha altresì un profondo significato performativo: esso produce o perpetua gerarchie e rapporti di forza in un mondo soggettivo della vita.

Ma è davvero possibile questa distinzione fra un uso cognitivo e un uso pragmatico del giudizio? È davvero giustificata la pretesa apofantica che il primo mette in gioco, la pretesa cioè di mostrare il neutro essere-così del qualcosa2, indipendentemente da criteri e opzioni valoriali? La risposta sembra doversi cercare proprio nel mondo della vita, secondo un processo di “de-soggettivazione” che agisce dapprima in una sua sfera particolare, l’intuizione, e che poi si estende alla sua totalità: è l’intuizione, infatti, che per prima distingue “il reale-oggettivo” e le proprie apparizioni fenomeniche, la mera parvenza3; a partire da tale habitus si rafforza la tendenza a depurare l’“essere in sé” da tutto ciò che appartiene al soggettivo nel suo complesso, compreso l’ambito della prassi e dei suoi criteri.

Ora, questo radicamento della pretesa apofantica del giudizio nella sfera intuitiva non avrebbe alcun senso qualora essa fosse, a sua volta, fin dall’inizio strutturata dal linguaggio: se l’oggetto della percezione fosse un’amorfa x, priva di un’articolazione in proprietà, se fosse il linguaggio a portarvela, attingendola da un sistema di distinzioni tutto interno a se stesso, l’elemento che identifica un uso apofantico verrebbe meno; il giudizio d’esperienza “S è p”, infatti, esprimerebbe non proprietà reali, ma specie concettuali, le quali rifletterebbero soltanto l’uso pragmatico del linguaggio e le forme di vita sociale che in esso si danno, senza il minimo ancoraggio al qualcosa e alle sue strutture.

Agli occhi di una critica del sapere, dunque, la riconduzione fenomenologica del giudizio avalutativo, nel suo potere apofantico, all’intuizione è una forma di falsa coscienza finché non si dirime la questione della sua linguisticità: occorre perciò verificare se le operazioni essenziali dell’esperienza, che il panlinguismo attribuisce appunto al linguaggio – ossia l’articolazione in proprietà del qualcosa e la sua riconoscibilità – siano strutture originarie dell’intuizione.

Per quanto riguarda la prima, in effetti, il termine linguistico può direzionare il guardare poiché, lungi dal ritrarsi in un sistema autoriferito di differenze, si è già accordato con la sfera intuitiva e reso schematizzabile in qualcosa come una proprietà oggettiva; essa, per contro, in sé presa, non ha bisogno del linguaggio per imporsi all’attenzione.

Quanto al secondo problema basta ipotizzare una rete di analogie passivamente formatesi e in grado di accompagnare sempre l’esperienza del qualcosa.

Ecco allora quali sono i punti essenziali di una fenomenologia dell’esperienza; essa deve mostrare che sul piano di un’intuizione in linea di principio “pura”, operano:

  • una sintesi, che dà luogo al “questo” come oggetto già complesso e articolato in proprietà (cfr. infra, §2.1);

  • una coscienza tipologica passiva (cfr. infra, §2.3).

Rivendicare il potere apofantico del linguaggio, tuttavia, non deve andare a svantaggio della sua formatività, non deve portare verso una sorta di naturalizzazione, in cui esso sarebbe un mero specchio dell’intuizione, privo della capacità di riconfigurare l’esperienza, in grado soltanto di riflettere, negli universali, i meccanismi della percezione animale, secondo una coscienza d’analogia indotta dalla struttura biologica. Al contrario, l’insistenza fenomenologica sulla libertà delle presentificazioni intuitive significa rivendicare il potere del linguaggio rispetto a campi analogici nuovi, a cui l’intuizione non è subito portata – il che si riflette poi in un più alto grado di attenzione sulle proprietà stesse.

L’approccio fenomenologico alla teoria del giudizio, dunque, riconosce al linguaggio apofanticità e formatività, senza assolutizzare la prima in un mondo (biologico) della percezione, che esso si limiterebbe a rispecchiare, e la seconda in una pragmatica (sociale) quale modello per ogni uso del linguaggio stesso, che viene così chiuso operazionalmente alle strutture di un mondo intuitivo che c’è.

Questo discorso, come vedremo, non è privo di implicazioni su di un piano in senso lato politico: esso mostrerà che la critica al dispositivo di biopotere interno alla procedura di naturalizzazione non ha alcuna efficacia se viene dal punto di vista del panlinguismo e identificherà nella fenomenologia dell’esperienza l’unico piano possibile su cui essa si possa dare (cfr. infra, §3).

A tali risultati si perverrà attraverso un’analisi del nodo intuizione-giudizio nel pensiero di Husserl, che non ne nasconda i punti controversi. L’itinerario, attraverso cui con Husserl e oltre Husserl essi possono esser raggiunti, è piuttosto tortuoso.

  1. Innanzitutto, a differenza della posizione sostenuta nelle Ricerche logiche, in cui la percezione era un atto semplice e l’articolazione proveniva da una formazione categoriale operata dalla sfera del significato, in Esperienza e giudizio egli ritiene possibile una pura costituzione intuitiva del “questo” nel complesso delle sue proprietà, ossia una sintesi ricettiva.

  2. Husserl tuttavia compie un mezzo passo indietro e affida al giudizio, che fissa un contenuto ideale e identico, il compito di riconoscere il qualcosa in tutte le sue ulteriori occorrenze.

  3. Contemporaneamente egli sostiene che le specie nascono da un campo di analogie passivamente istituitosi e poi sedimentato.

  4. Da questa concezione dunque egli non trae tutte le conseguenze: è proprio questo campo analogico passivamente formatosi a prestarsi al riconoscimento del questo, il quale non è perciò necessariamente un processo linguistico, ma in linea di principio può svolgersi sul piano dell’intuizione.

  5. Ciò non pregiudica la libera formatività del linguaggio: esso non esprime tutti i campi analogici che possono passivamente sorgere, ma opera una selezione e una messa in rilievo di alcuni di essi; d’altra parte i concetti linguistici possono costituire attivamente nuovi campi analogici mediante associazioni che non sono presenti nella sfera intuitiva e a cui essa, anzi, sembra resistere (si pensi all’associazione, sotto la specie “mammifero”, della balena col ratto e col gorilla piuttosto che col pescecane, come sarebbe intuitivamente più immediato). La libera formatività del linguaggio, preservandone il principio di arbitrarietà, ne impedisce la naturalizzazione.

  6. Le operazioni di selezione e di attiva costituzione sono altresì un argomento contro il panlinguismo: esse costruiscono specie a partire da un oggetto articolato in proprietà (1) e da campi analogici passivamente formatisi (4) – e dunque a partire da un antefatto pre-linguistico.

Nell’alternativa tra panlinguismo e naturalizzazione, che sembra costringere il dibattito contemporaneo a rinunciare o all’idea di verità o alla capacità costruttiva del linguaggio, con Husserl e oltre Husserl, ci si presenta la terza via di una razionalità in senso lato fenomenologico, in cui intuizione e giudizio “ingranano” al di fuori di qualsivoglia gerarchia fondazionale.



2. Intuizione e giudizio in Husserl

Stabilito questo quadro generalissimo, vediamo ora nel dettaglio le questioni accennate. La fenomenologia husserliana dell’esperienza, con una buona dose di approssimazione, si può articolare secondo quattro tappe.

  1. La sfera passiva in senso stretto, quella dimensione che precede l’attenzione e in cui si esercita una tendenza affettiva sull’io da parte di un certo campo d’esperienza, costituito in maniera tale da risaltare.4

  2. La sintesi ricettiva pre-categoriale, il volgersi dell’attenzione dell’io, ormai ridestata, alla “scansione” dell’oggetto nei suoi momenti interni, senza che vi sia il compimento volontario di un atto di conoscenza; è in gioco qui l’obbedire dell’io allo stimolo e il suo dirigersi attenzionale all’oggetto e alle sue proprietà .

  3. La sintesi del giudizio, in cui l’oggetto e il complesso delle sue proprietà vengono determinati non più passivamente, come in 2, ma attraverso un atto volontario ed esplicito di conoscenza, che si esercita innanzitutto come giudizio categorico d’esperienza su un sostrato individuale (S è p).

  4. La costituzione delle oggettività universali, in cui, sulla base dei singoli sostrati e dei singoli momenti oggettuali, vengono costituite specie generali; come in 3 siamo di fronte a oggetti del pensiero, ma essi non sono più stati di cose individuali, bensì concetti universali; ciò naturalmente non limita la libertà di atti significazionali che possono anche funzionare secondo una costituzione attiva delle specie.5

Tralasciando per ragioni di spazio la sintesi passiva, ci soffermeremo sugli ultimi tre momenti, da cui scaturiranno i risultati sopra accennati.


2.1) La sintesi ricettiva pre-categoriale

Uno stimolo, o per il suo contrastare con lo sfondo o per l’analogia fra le sue componenti (le finestre a fronte degli altri particolari di un palazzo) o per la sua intensità, una volta costituitosi come campo unitario senza l’intervento dell’io, innesca in esso una tendenza preconscia a volgervisi (sfera passiva in senso stretto)6; in seguito l’io obbedisce allo stimolo e l’oggetto entra nel suo campo d’attenzione (ricettività). Dobbiamo quindi distinguere in maniera netta fra mera passività e ricettività7: mentre la prima è inconscia e pre-egologica, la seconda presuppone l’unità-io; tale unità inoltre, a differenza del grado superiore, quello dell’attività, è un punto di convergenza dei vissuti anziché un centro d’irradiazione.

Stabilità questa differenza fra passività inconscia (1), coscienza ricettiva (2) e coscienza attiva (3 e 4), vediamo in che cosa consiste il secondo livello e quali siano le caratteristiche di una sintesi ricettiva. In essa l’io è spinto a passare in rassegna le molteplici fattezze dell’oggetto, a prenderne coscienza senza ancora compiere un atto volontario di determinazione conoscitiva: in una parola si tratta di un colpo d’occhio pre-teoretico sull’oggetto e sulle sue proprietà.

La sintesi ricettiva consiste dunque in ciò: sullo sfondo di una prensione schietta, ossia l’intuizione dell’oggetto come un tutto, correlato di un unico raggio d’attenzione dell’io, avviene l’esplicazione, ossia l’articolazione delle sue proprietà interne, correlati di molteplici raggi attenzionali; dopodiché, sostrato e proprietà vengono portati a coincidenza: vedo dunque che “S è p”.

Ora, la possibilità dell’esplicazione passiva nella sfera dell’intuizione mostra che essa ha a che fare con correlati determinati e non ha bisogno di attingere dal linguaggio la determinazione e la struttura sostrato-proprietà. Questo è il grande contributo di Esperienza e giudizio rispetto alle Ricerche logiche, in cui la percezione aveva la caratteristica della semplicità e, per procedere all’articolazione delle parti, c’era bisogno di una formazione categoriale operata ab estrinseco dagli atti signitivi in vista del loro riempimento; l’oggetto determinato (S è p) non era il prodotto di un’autonoma sintesi operante nella sfera intuitiva, ma si identificava con il senso riempiente, l’oggetto dato nel modo dell’intenzione di significato:

Nella percezione sensibile la cosa “esterna” ci appare di colpo, non appena su di essa cade il nostro sguardo. Il modo in cui essa fa apparire la cosa è semplice, non vi è bisogno dell’apparato degli atti fondanti e fondati. […] L’unità della percezione non sorge mediante atti sintetici propri, quasi che solo la forma della sintesi mediante atti fondati fosse in grado di riferire alle intenzioni parziali l’unitarietà del riferimento oggettuale. Non vi è bisogno di un’articolazione e neppure di una connessione attuale. L’unità della percezione si realizza come unità semplice, come fusione immediata delle intenzioni parziali e senza l’intervento di nuovi atti intenzionali.8

Ecco che allora, quando lo Husserl di Esperienza e giudizio, contro lo Husserl delle Ricerche logiche, scopre una sintesi esplicativa nella sfera dell’intuizione, egli rivendica con ciò l’autonomia complessiva di quest’ultima dal giudizio. Tuttavia il residuo della vecchia concezione rimarrà nel fatto che egli continua ad affidare al giudizio il riconoscimento, ruolo che, come vedremo, può essere svolto da una coscienza tipologica anch’essa interna alla sfera intuitiva. Ma di questo diremo più avanti (cfr. infra, §2.3).

Ad ogni modo le operazioni di prensione e di esplicazione della sintesi ricettiva ci mettono di fronte non all’oggetto sic et simpliciter, ma all’oggetto nel come della sua datità, nel complesso delle determinatezze con cui si presenta direttamente nell’intuizione, in una parola, a ciò che Husserl nelle Idee chiama noema9. Lo stesso oggetto, com’è evidente, può essere portatore di più noemi; posso infatti percepire ricettivamente:

  1. il gatto”;

  2. che il gatto è nero”,

  3. che il gatto è spelacchiato”,

Questi noemi sono tra loro distinti perché articolano in modo diverso la stessa oggettualità, in 1 con una prensione schietta, tralasciando i momenti interni, in 2 e 3 nel modo dell’esplicazione, facendone emergere uno piuttosto che un altro.

Parallelamente alla variazione dei noemi intorno alla stessa oggettualità, decorre la variazione degli atti che li prendono di mira, ossia le noesi10. Avrò quindi:

  1. ‹‹la percezione “il gatto”››;

  2. ‹‹la percezione che “il gatto è nero”››;

  3. ‹‹la percezione che “il gatto è spelacchiato”››.

Qui gli atti differiscono non secondo la qualità (sono tutti infatti percezioni), ma secondo le materie.11

Ora però, «la percezione che “il gatto è nero”» può avvenire dal punto di osservazione K1 o dal punto di osservazione K2: queste modificazioni le considero differenti effettuazioni della stessa noesi12. Col variare di questi modi di effettuazione ci sarà poi una variazione di apparizioni, che riconduco tutte allo stesso noema: per esempio il fatto “che il gatto è nero” mi può apparire in questo o quel rapporto spaziale, a seconda, appunto, del sito d’osservazione occupato dal mio corpo. Su che base però diverse effettuazioni possono essere considerate singolarizzazioni della stessa noesi e diverse apparizioni singolarizzazioni dello stesso noema? Inoltre come possono diversi noemi appartenere allo stesso oggetto? E infine come può l’oggetto nei suoi noemi essere appreso come qualcosa di identico nel tempo e venire riconosciuto nelle sue ulteriori occorrenze?

I problemi sono quindi tre e vanno tenuti ben distinti:

  • l’identità del noema negli spettacoli percettivi in cui si fenomenizza (e della noesi nella molteplicità delle sue effettuazioni);

  • l’identità dell’oggetto nei molti noemi;

  • l’identità del noema e dell’oggetto al di là del tempo in cui la sintesi li ha costituiti.13

Vedremo che i primi due problemi verranno da Husserl risolti nella sfera ricettiva, mentre per il terzo egli dovrà innestare la sintesi ricettiva nel giudizio.

Ma procediamo con ordine e cominciamo dal primo problema: ora, il parallelismo fra variazione di effettuazioni e variazione di apparizioni, lungi dall’essere una difficoltà, è la soluzione. Cerchiamo di chiarire con un esempio. Prendiamo da un lato le diverse posizioni degli organi di senso del mio corpo vivo nello spazio (k1, k2, k3, …): Husserl le chiama cinestesi14; prendiamo sull’altro versante gli spettacoli percettivi che, col variare di quelle, di volta in volta mi si presentano (o1, o2, o3): Husserl li chiama contenuti ostensivi15. Ora, posso vedere che un contenuto ostensivo (o1) lentamente si modifica in un altro (o2) se e solo se il mio corpo vivo passa dall’uno (k1) all’altro stato cinestesico (k2); nessun contenuto fa eccezione e se lo voglio percepire di nuovo di fronte a me, dovrò ritornare a quella posizione: in questo modo la molteplicità dei dati fenomenici è iscritta fin dall’inizio in un’unità grazie al sistema cinestesico, che regola la trasformazione dell’uno nell’altro16; è questo il fondamento della coscienza d’identità (noema) e dell’identico aver coscienza (noesi).

È inoltre attraverso questo sistema che si può distinguere fra esperienza immanente, in cui un certo contenuto fenomenale è appreso come dato di coscienza, ed esperienza trascendente, in cui esso adombra un che di oggettivo. Tali contenuti, infatti, possono essere considerati separatamente, nel modo atomico della riflessione astraente (questo percetto di due centimetri, preso di per sé, è un mio dato di coscienza rispetto alla vera misura della cosa), o lasciate all’interno del sistema complessivo dell’intuizione (la variazione regolata dei percetti visivi in proporzione alla distanza, fino al grado zero del contatto tattile), in cui, confermandosi reciprocamente, si direzionano intorno ad un polo identico di cui manifestano le proprietà. Le strutture della soggettività possono ritrarsi in se stesse o distendersi intenzionalmente in una polarizzazione sistemica verso la res; il discrimine fra immanenza e trascendenza sta dunque nel considerare il dato fenomenico al di fuori o al di dentro del sistema regolare dell’intenzionalità intuitiva; in termini kantiani: l’oggetto è l’uniforme regola di costruzione delle rappresentazioni.

Veniamo ora al secondo problema, che in parte abbiamo già affrontato con il passaggio dalla prensione all’esplicazione: esso coincide infatti col passaggio da un noema semplice (sostrato) ad un noema complesso (la coincidenza sostrato-proprietà). Condizione necessaria di questa identificazione (ma anche per quella che funge fra diversi noemi complessi) è il fatto che l’esperienza si presenta nella forma di plena spaziali che possono reciprocamente riempirsi in un continuo temporale; nel contesto di una trattazione specifica del nesso giudizio-intuizione, tuttavia, questo tema appare relativamente secondario e non possiamo soffermarci su di esso se non per un rapido accenno.

Rimane dunque il terzo problema: l’identità di un oggetto nel come delle sue determinatezze (noema) deve essere affermata al di là del presente vivente. Ora, tutte le operazioni sintetiche analizzate fin qui avvenivano nel presente vivente; la questione è a questo punto: quali operazioni della coscienza fungono per l’identificazione di un oggetto in decorsi temporali ulteriori? In altri termini, come posso riconoscere un oggetto al di là della sintesi che lo ha costituito nel presente vivente? Come è possibile il riconoscimento dei contenuti non concettuali della percezione (per esempio questo rosso) oltre la loro prima comparsa, se essi per definizione non devono essere assunti come esempi di una specie linguistica di cui già dispongo (il rosso in quanto tale)?

La risposta di Husserl sta nel giudizio individuale d’esperienza.


2.2) La sintesi del giudizio

Prima di vedere se il giudizio d’esperienza possa costituire una soluzione, vediamo come Husserl lo definisca e come ne configuri la genesi.

Sullo sfondo del rapporto intuitivo e ricettivo finora indagato, matura un interesse conoscitivo a stabilire l’oggetto, a fissare attivamente il conosciuto una volta per tutte. Il nesso di inerenza di una proprietà p a un sostrato S, dunque, già delineato nell’esplicazione ricettiva, subisce ora un cambiamento di atteggiamento, che porta da una fenomenizzazione subìta ad un’effettuazione volontaria: l’io compie di proposito l’atto del portare a coincidenza un sostrato con una sua proprietà, riprendendo attivamente l’operazione sintetica che già si era compiuta, facendo della sintesi ricettiva una sintesi attiva17. Ora, lo scopo per cui ciò avviene – e qui veniamo al punto essenziale – è quello di poter re-identificare un senso oggettuale al di là del tempo in cui sta avvenendo l’atto percettivo.

[…] l’io vuole conoscere l’oggetto e fissare il conosciuto una volta per tutte. Ogni passo della conoscenza è guidato dall’impulso attivo di mantenere nel futuro della vita il conosciuto come identico e come sostrato delle sue note determinanti, di porlo in relazioni, etc.18

Se, dunque, nel presente vivente, per costituire l’identità dell’oggetto nel complesso delle sue determinatezze, può bastare la sintesi ricettiva, per oltrepassare il presente vivente e porre l’identità oggettuale al di là del tempo in cui è dato all’intuizione, occorre una sintesi attiva di sostrato e proprietà, poi ripetuta in presentificazioni nuove (per esempio rimemorazioni e prefigurazioni fantastiche entrambe attive); in questo modo sorge il conosciuto, quel nuovo oggetto categoriale che è il correlato del giudizio “S è p”.

Quest’opera della conoscenza è un’attiva partecipazione agli oggetti già dati, ma in modo del tutto diverso dalla mera ricettività del cogliere, esplicare e osservare relazionale. Il suo risultato è il possesso conoscitivo. Nel concetto pregnante di oggetto conoscitivo sta che esso è qualcosa di identico e di identificabile al di là del tempo in cui è dato all’intuizione, che quel che una volta fu dato nell’intuizione debba potersi ancora conservare come possesso permanente pur quando l’intuizione non c’è più. Questa conservazione deve potersi ottenere in formazioni le quali, mediante indicazioni dapprima vuote, possono riportarci alla resa intuitiva dell’identico conseguibile o mediante presentificazioni o mediante un rinnovato darsi da sé. Si tratta quindi di operazioni oggettivanti di genere nuovo, non solo di un’attiva partecipazione alle oggettività già date e colte ricettivamente. [capoverso] Nella conoscenza predicativa e nel suo sedimentarsi nel giudizio predicativo si costituiscono oggettività di nuovo genere che possono essere esse stesse poi colte e fatte diventare tema; sono queste formazioni logiche che noi chiamiamo oggettività categoriali.19


Aggiunge Husserl poco oltre:

Ciò che qui risulta come determinazione (predicativa) dell’oggetto non è qualcosa di meramente accettato, ricevuto nel volgimento dell’io sulla base dell’affezione, ma è totalmente caratterizzato intenzionalmente in sé come prodotto dell’io, come conoscenza prodotta mediante il suo agire conoscitivo. [capoverso] Ciò si vede nel ritornare ancora di nuovo alle conoscenze una volta acquistate, nella riproduzione delle intuizioni in forma di ricordo o di altra presentificazione. Tali riproduzioni sono qualcosa di più che un mero ricordo di un’intuizione precedente. Noi ritorniamo al riprodotto come un nostro acquisto.20

La sintesi attiva avviene dunque nella forma di un giudizio d’esperienza, che pone il conosciuto come unità ideale e identica21. Il dato fenomenologico fondamentale dell’intuizione, ossia l’intendere l’oggetto come qualcosa che permane anche oltre la percezione attualmente in corso, il vedere l’oggetto come un’identità che sopravanza il mio stesso vedere, è il prodotto del giudizio d’esperienza, che fissa l’unità alla luce della quale procediamo al riconoscimento percettivo.

Non vi è riconoscimento al di fuori della sfera del giudizio. L’autonomia dell’intuizione, aperta dalla sintesi ricettiva, è revocata dal carattere esclusivamente linguistico del riconoscimento.

Ma questa posizione è sostenibile date le premesse dello stesso Husserl? Il problema è più complesso di come ci si presenta, poiché le specie di cui si serve il giudizio sono, almeno in prima istanza, formate nella sfera intuitiva e questo riapre la possibilità di un riconoscimento extra-linguistico.

Vediamo più nel dettaglio: l’oggetto categoriale formato dal giudizio è certamente un questo e i termini del giudizio (S è p) ne denotano sempre i momenti individuali (questo sostrato S e questa proprietà p); ciononostante essi di per sé significano delle specie; questo dipende dal fatto che, sebbene idealiter possiamo immaginare la situazione limite di un linguaggio fatto di soli nomi propri e di materie aggettivali individuali, quest’astrazione non ci serve a nulla perché, realiter, l’esperienza è costituita in maniera tale che si diano analogie fra i sostrati e fra le proprietà e che il linguaggio designi, attraverso termini specifici, prima queste analogie e poi, attraverso articoli o deittici, i loro esemplari individuali.

Husserl, in un inciso che non deve passare inosservato, ammette infatti che la distinzione fra le operazioni del pensiero che determina predicativamente e la formazione di universalità è un’astrazione:

Anche qui non si tratta che di una separazione astrattiva e in misura maggiore che nella separazione dei primi due gradi. Non esiste giudicare predicativo né formazione di forme predicative che non includa già in sé parimenti una formazione di universalità.22


Dunque il giudizio presuppone la coscienza di specie; ma questa sorge nella sfera intuitiva come sedimento di analogie passivamente costituitesi. Ora, non siamo così in un circolo vizioso? Come possono le specie formarsi in una sfera intuitiva preliminare al giudizio se esso, in quanto vettore del riconoscimento, è a sua volta preliminare all’intuizione? Come può la specie linguistica essere il presupposto ricognitivo dell’intuizione e al tempo stesso il suo risultato astrattivo? Possiamo uscirne solo ammettendo che la sfera intuitiva sia in grado di operare il riconoscimento proprio in virtù di quel campo analogico da cui traggono origine le specie del giudizio.

Per giustificare questo risultato dobbiamo tuttavia affrontare l’ultimo stadio della costituzione, ossia la genesi della coscienza di specie.


2.3) La genesi delle specie. Il riconoscimento del questo nella sfera pre-linguistica.

L’attività del pensiero logico-giudicativo, abbiamo detto, non si esaurisce nel giudizio d’esperienza sull’individuale: vi è un ulteriore grado che riguarda la costituzione non di questo S nel suo essere p, ma di oggettualità universali, le specie S e p in quanto tali. Vi è infatti una profonda differenza fra giudizi del tipo “questo è rosso” e giudizi del tipo “il rosso è un colore”: nel primo giudizio “rosso” è un momento oggettuale del sostrato che prendo di mira, mentre nel secondo è una specie ideale.

Ora, Husserl ammette esplicitamente che l’universalità concettuale ha come base il meccanismo passivo dell’associazione, che si dà nella sfera intuitiva: vi è un nucleo analogico comune che si forma passivamente, nel rimando associativo di molti individui simili23, attraverso un meccanismo che ricorda quella forza gravitazionale dei fenomeni mentali di cui già Hume aveva parlato24. Ora, tale coscienza tipologica si sedimenta e accompagna il corso dell’esperienza. Di questa vibrazione analogica che associa il simile col simile si può cogliere poi il tema centrale e procedere così alla costituzione attiva di una specie linguistico-giudicativa.

Dobbiamo quindi distinguere fra il preliminare, implicito campo tipologico passivamente istituito nella sfera intuitiva e l’operazione attiva che, cogliendone il nucleo, genera l’universale. La domanda che occorre porsi a questo punto è: per riconoscere l’oggetto dobbiamo ricorrere necessariamente al secondo o è sufficiente il primo?

Qualora dessimo questa risposta, avremmo una chiave per risolvere il problema; l’apparente circolo vizioso di presupporre, nel riconoscimento, il linguaggio all’intuizione e di presupporre, nell’astrazione, l’intuizione al linguaggio sarebbe dovuto al fatto di trascurare la coscienza analogica passiva e di scorporarla dall’intuizione del questo; una volta smarrita, dovremo ricercarla nel linguaggio, con tutti i problemi che si sono incontrati.

Se con Husserl, dunque, possiamo affermare che le specie del giudizio affondano le loro radici nella sfera intuitiva attraverso il meccanismo passivo dell’associazione, oltre Husserl dobbiamo affermare che esso è già condizione sufficiente del riconoscimento.

Il questo, infatti, viene riconosciuto perché il raggio da cui è preso di mira s’imbatte contemporaneamente nel campo di analogie sedimentatosi: questo sostrato che percepisco richiama implicitamente una serie di analoga che ho percepito o che posso immaginare ed è questo richiamo a farmelo riconoscere, per esempio, come un gatto.

Ma si può essere ancora più radicali e, come sostiene Bergson in Materia e memoria, dire che per il riconoscimento non è necessaria neanche l’effettiva esibizione intuitiva di questa cognizione analogica, ma è sufficiente la sua traccia psicomotoria: è per questo che abbiamo parlato della coscienza d’analogia come di una “vibrazione” che segna il campo d’esperienza o di un “sedimento”.

L’abitudine di utilizzare l’oggetto ha dunque finito con l’organizzare insieme movimenti e percezioni e la coscienza di questi movimenti nascenti, che seguirebbero la percezione alla maniera di un riflesso, sarebbe anche qui il fondamento del riconoscimento. 25


Il campo analogico lascia dunque un riflesso psicomotorio che permette il riconoscimento. Ad ogni modo o che la coscienza tipologica sia una forma di cognizione (Husserl) o che sia una forma d’azione (Bergson), resta il fatto che il piano dell’intuizione non si dà mai senza di essa.

Ora, si potrebbe dire che tutto ciò serve, sì, a riconoscere un tipo piuttosto che un altro (vedo qui un gatto e non un cane), ma non ad identificare un che di individuale all’interno di quel tipo (devo poter riconoscere il gatto “Cagliostro” rispetto al gatto “Lucifero”). Abbiamo tuttavia l’elemento per rispondere a quest’obiezione: a far riconoscere l’individuale è il complesso di proprietà che lo determina; il riconoscimento dell’individuale nella sua ecceità è quindi possibile perché la coscienza tipologica non è separata da quella sintesi fra sostrato e proprietà in cui l’oggetto si presenta come qualcosa di articolato e su cui abbiamo già richiamato l’attenzione (§2.1).

Vediamo come può funzionare questo nesso fra coscienza tipologica e sintesi: il raggio della prensione, che mira al sostrato, come abbiamo detto, impatta nel campo di variazioni analogiche che vibra su di esso; allo stesso campo tende il raggio dell’esplicazione, che fa coincidere sostrato e proprietà, e verifica se la coincidenza raggiunta vi rientri o no: per esempio questo sostrato che ho di fronte richiama implicitamente la gamma di variazioni che poi designerò come “gatto”; se fra le variazioni possibili di “gatto” c’è quel “gatto nero” che ora percepisco, il questo sarà riconosciuto nella sua individualità: è questa proprietà, insomma, a farmelo riconoscere; se l’inclusione nel campo analogico trova una qualche resistenza, dovrò o re-identificare il questo in un typos di sostrato già esistente26 o dar luogo ad un inedito typos di sostrato27 o allargare il campo di variazione di quello precedentemente assunto includendovi come nuova variazione la coincidenza realizzatasi28: a decidere fra queste tre opzioni non possono essere che i rinforzi provenienti dall’esperienza.

Sorge tuttavia un’altra possibile obiezione: se il sostrato è riconoscibile in quanto complesso di proprietà, non ne perdiamo così l’individualità? La risposta è negativa per due ragioni; in primo luogo perché le proprietà e i sostrati si configurano come occorrenze non di specie in senso metafisico, ma di campi analogici passivamente costituiti nella corrente che richiama elementi irriducibilmente individuali: dunque il problema dell’individuazione non sussiste ab origine; in secondo luogo perché, anche a volerlo prendere sul serio, altro è il problema dell’individuazione, per il quale si richiede semplicemente, come insegna Kant, che due sostrati occupino due diverse porzioni di spazio, altro è il problema del riconoscimento, per il quale si richiede che i sostrati abbiano proprietà diverse; due sostrati con le medesime proprietà, infatti, pur rimanendo numericamente distinti per via dei differenti spazi che occupano, sono tuttavia indiscernibili, come insegna Leibniz: di due calzini dello stesso colore, della stessa lunghezza, della stessa materia, entrambi integri, non potrò dire quale la volta precedente portavo al piede destro e quale al piede sinistro; senza poter riconoscere la particolare combinazione di elementi che li compone, non sarò in grado di discernere l’uno dall’altro.

Ora, questo ingranare della coscienza tipologica in una sintesi intuitiva è il grande contributo di Kant alla teoria dell’esperienza. Nella prima edizione della Critica della ragion pura emerge chiaramente il nesso fra sintesi della capacità d’immaginazione e ricognizione: la prima è ciò che unifica il molteplice, trascorrendo da elemento a elemento e riproducendo nell’istante attuale quelli già trascorsi29; ciascuno degli elementi, tuttavia, è immediatamente connesso con la coscienza ininterrotta della mia esistenza (appercezione trascendentale). È questo il punto di snodo di tutta l’argomentazione kantiana: poiché l’unificazione si salda alla coscienza di me e questa sopravanza il presente, tale unificazione non è un che di momentaneo, ma si presenta come un typos che potrà in linea di principio essere ritrovato lungo tutta la linea di permanenza della mia coscienza; ora quella forma di unità che sopravanza la percezione presente e si rende ripetibile è ciò che Kant chiama concetto.30

Questo termine merita tuttavia un chiarimento: per il problema del riconoscimento, che ha fatto da linea guida alle analisi finora svolte, il concetto in gioco non è quello che Kant chiamerebbe puro, la categoria, bensì il concetto empirico; ora, se esso è tale, se esso nasce, appunto, dall’esperienza, non può precedere la sintesi del molteplice, ma deve sorgere con essa: l’unificazione da parte dell’immaginazione e il disporsi dell’unità prodotta come qualcosa di ripetibile (concetto) sono due operazioni sistemicamente connesse e questo per via dell’appercezione, che prospetta alla ripetibilità, lungo la linea della propria permanenza, ciò che è stato unificato; quando l’immaginazione unisce fra loro due proprietà empiriche, le unisce altresì alla coscienza e ne fa così un nucleo di determinazioni ripetibile anche in futuro.

Forzando la lettera del pensiero di Kant, oltre che di Husserl, siamo arrivati allo stesso risultato: si può uscire dal circolo vizioso di presupporre il pensiero logico giudicativo all’intuizione e viceversa, mostrando come la sintesi, che in essa opera, ingrani sempre con una coscienza tipologica.

Insomma, per riprendere la terminologia husserliana, la coincidenza di sostrato e proprietà, passivamente costituitasi, non è che l’inizio di un processo di identificazione, il quale passa inevitabilmente per la coscienza tipologica: dunque la pura esperienza del questo è un falso mito. Essa si dà sempre in un campo che vibra di analogie implicite e ne permette il riconoscimento.

Ma è altrettanto mitica la posizione opposta, quella cioè di un’intrinseca linguisticità dell’esperienza del questo, avvalorata dall’idea husserliana che sia l’effettuazione volontaria di un giudizio a permettere il riconoscimento dell’individuale; viceversa proprio la sua concezione della specie come residuo di una rete di analogie, fa sì che tutta l’operazione del riconoscimento si possa svolgere nella sfera intuitiva.

Insomma, nell’alternativa fra il primato dei contenuti non concettuali, che ritiene possibile una pura intuizione del questo individuale, o concettuali, che la ritiene impossibile e la lega perciò alla pratica del linguaggio, tertium datur: la percezione del questo avviene sempre sullo sfondo di impliciti aggregati analogici, non confinati in una singolarità atomica come i primi, ma non perciò necessariamente linguistici come i secondi

L’esperienza del qualcosa come un che di riconoscibile, dunque, si iscrive sempre in una doppia direttrice: da una parte vi è la “vibrazione” di un orizzonte tipologico, passivamente costituitosi nel richiamo reciproco di sostrati analoghi e di proprietà analoghe e poi sedimentatosi, dall’altra vi è l’effettiva operazione sintetica che ne segue il tracciato protensionale, il quale viene così o confermato o sostituito o ricreato o ridefinito. Questo ci dà modo di affermare che due categorie chiave del pensiero husserliano, l’intuizione eidetica e la sintesi, sono strettamente connesse.

Ora, tutto questo non deve andare a svantaggio della formatività del linguaggio: se è vero che l’oggetto dell’intuizione è già di per sé complesso (sintesi) e riconoscibile (coscienza tipologica passiva) senza il bisogno operazioni categoriali operate dal linguaggio, è altrettanto vero che esse rimangono comunque possibili; Esperienza e giudizio mostra infatti che la caratteristica del giudizio è l’attività, la capacità cioè, di rivenire volontariamente e di ripetere tanto la sintesi ricettivamente prodotta quanto il collegamento analogico passivo.

Ma se quest’attività non fosse altro che una reduplicazione delle sintesi oggettuali e dei tipi passivamente costituitisi? Non passeremmo così dalla non-autonomia della sfera intuitiva, come viene delineata dalle Ricerche logiche attraverso il tema della messa in forma categoriale, alla non-autonomia del giudizio?

Per rispondere a questa domanda occorre ancora una volta procedere con Husserl e oltre Husserl: dobbiamo infatti considerare due caratteristiche: da una parte il termine linguistico generale non tiene presente tutti i campi analogici materialmente possibili, ma opera una selezione arbitraria fra essi, in relazione a criteri che hanno a che fare col mondo della vita nel suo complesso e non semplicemente col suo aspetto intuitivo; dall’altra esso associa ciò che la coscienza tipologica passiva non assocerebbe mai. Come esempio del primo caso si potrebbe citare il complesso sistema di designazione della neve presso gli eschimesi rispetto quello messo in campo dalla lingua italiana: di fronte a più campi analogici, la messa in rilievo di un numero cospicuo di essi fa da contrappunto alla messa in rilievo di uno solo; come esempio del secondo caso si potrebbe citare il fatto che il concetto di “mammifero” comprende le balene, malgrado associativamente una balena sia più vicina ad un pescecane piuttosto che ad un gorilla o ad un ratto.

In altri termini: l’autonomia dell’intuizione nel procedere alla sintesi e al riconoscimento tipologico, non pregiudica a sua volta l’autonomia del linguaggio e il principio di arbitrarietà.


3. Fenomenologia dell’esperienza e biopotere

Vale la pena chiedersi se questo discorso abbia implicazioni in senso lato politiche. L’istanza della naturalizzazione, che proviene da un certo modo di guardare alle neuroscienze e al problema mente-corpo, sembra infatti intrattenere una relazione essenziale con ciò è stato chiamato biopotere. Se con Foucault tale termine si riferisce al potere sulla vita31, occorre dire che nella contemporaneità questo accade innanzitutto come procedura discorsiva che riduce a vita biologica i soggetti su cui dovrà esercitarsi, cancellando da essi ogni eccedenza: la naturalizzazione compie proprio quest’operazione, sottraendo al linguaggio la sua formatività.

Ora, se la critica della naturalizzazione viene dal panlinguismo, ci si troverà di fronte ad un’antinomia indecidibile fra apofanticità e formatività; anzi, a ben guardare il panlinguismo sembra svantaggiato in quanto impossibilitato a spiegare come mai i costrutti linguistico-teorici nella realtà funzionino.

Viceversa la fenomenologia dell’esperienza, assumendo un piano apofantico, non solo non sarà soggetta a questa critica, ma potrà anche usare come proprio argomento quella formatività che si esplica o nella posizione di campi analogici che il meccanismo dell’associazione non costituirebbe mai o nella selezione di uno a svantaggio di un altro.

Una volta abbandonato il piano estrinseco del panlinguismo e riconosciuto il carattere apofantico del linguaggio, la fenomenologia dell’esperienza scorge con chiarezza che la naturalizzazione può fare di esso il duplicato di un mondo della percezione biologicamente inteso solo perché nasconde la sua formatività.

Ma forse nessun argomento fenomenologico è tanto efficace nel difenderla quanto il celebre catalogo di Borges:

Tutti gli animali si dividono in a) appartenenti all’Imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini da latte, e) sirene, f) favolosi, g) cani in libertà, h) inclusi nella presente classificazione, i) che si agitano follemente, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello, l) et caetera, m) che fanno l’amore, n) che da lontano sembrano mosche.


Note

1 Questo taglio viene effettuato attraverso le due possibili forme di predicazione individuate da Aristotele: nella prima (essere-in) è un predicato-proprietà a venir compreso nel soggetto, in quanto ne esprime uno stato permanente o accidentale; ciò comporta che altre determinazioni predicative rimangano sullo sfondo. Nel secondo caso (essere-detto-di) è invece il soggetto a venir compreso in un predicato-classe in vista della definizione; in questo modo esso viene escluso dal suo opposto contraddittorio.

2 Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, Max Niemeyer Verlag, Tübingen 1927, §7; trad. it. Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976.

3 L’elemento dirimente di questa distinzione sarà considerare il contenuto iletico inserito o no in un sistema cinestesico (cfr. infra, §2.1).

4 Cfr. E. Husserl, Erfahrung und Urteil, a cura di Ludwig Landgrebe, Claassen Verlag, Hamburg 1948, pp. 81-82; trad. it. Esperienza e giudizio, a cura di F. Costa e L. Samonà, Bompiani, Milano 1995, p. 71; d’ora in poi EG.

5 Cfr. Sezione terza di EG.

6 EG, p. 69.

7 EG, p. 71.

8 Cfr. E. Husserl, Logische Untersuchungen. Zweiter Band. Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis. Texte der 1. und der 2. Auflage ergänzt durch Annotationen und Beiblätter aus dem Handexemplar, Husserliana XIX/1-2, Martinus Nijhoff, den Haag 1984; trad. it. Ricerche Logiche, a cura di G. Piana, 2 voll., Il Saggiatore, Milano 1968; pp. 450-451; d’ora in poi RL.

9 Più precisamente si tratta del senso noematico (cfr. Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch. Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, Husserliana III/1 e III/ 2, Martinus Nijhoff, den Haag 1976, §99; trad. it. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Volume I. Libro primo. Introduzione generale alla fenomenologia pura, a cura di Vincenzo Costa, Einaudi, Torino 2002; intorno ad esso, che funge come nucleo d’identica determinatezza dell’oggetto in un suo esser-così, vi sono variazioni che riguardano: i modi di datità – l’orientazione nello spazio della medesima oggettualità (§98), le sue modificazioni nella sfera delle presentazioni e delle presentificazioni (§99); i caratteri dossici – che riguardano l’esser creduto certo, dubbio, possibile, improbabile di ciò che si percepisce, immagina, giudica etc. (§103); l’attualità e la potenzialità della coscienza – il grado d’attenzione che suscita ciò di cui si ha coscienza (§92 e §113); i modi di posizione fondati – sentimento, volontà etc., che presuppongono la rappresentazione del qualcosa (§116); il noema nel suo complesso è questo insieme stratificato.

10 Idee I; pp. 173-174; trad. it. p. 215.

11 Per questa distinzione cfr. RL; V Ricerca § 20.

12 Nel §21 della V Ricerca logica, infatti, Husserl contempla in modo esplicito la possibilità della “stessa percezione di fronte ad atti fenomenologicamente differenti”; vi è dunque l’idea di un’identificazione in una stessa percezione di differenti modi di effettuazione: è ciò che sopra si diceva a proposito della semplicità della percezione; non vi è tuttavia ancora l’idea, che emergerà con chiarezza nelle lezioni Ding und Raum, che quest’identificazione noetica sia contestuale ad una sintesi sul versante oggettuale (v. sotto).

13 Per schematizzare:

MOLTEPLICITÀ modi di effettuazione / apparizioni

UNITÀ Noesi / Noema

MOLTEPLICITÀ Noesi / Noemi

UNITÀ Oggetto nei suoi noemi presenti

MOLTEPLICITÀ Oggetto nei suoi noemi presenti

UNITÀ Oggetto nei suoi noemi permanenti

14 Husserliana XVI, Ding und Raum. Vorlesungen 1907, Martinus Nijhoff, Den Haag 1973; capitolo VIII. D’ora in poi CS.

15 CS, §9

16 CS, capitolo X.

17 EG, p. 189. Nelle lezioni sul significato del 1908, Husserl distingue terminologicamente fra Sachlage e Sachverhalt: il primo corrisponde all’oggetto nel come della sua datità ricettivamente costituitosi, il secondo all’oggetto nel come della sua datità costituito da una sintesi attiva del giudizio; cfr. Vorlesungen über Bedeutungslehere. Sommersemester 1908, Husserliana XXVI, hrsg von U. Panzer; trad. it. La teoria de significato, a cura di A. Caputo, Bompiani, Milano 2008; §7. D’ora in poi LS.

18 EG, pp. 232-233; trad. it. pp. 180; corsivo mio.

19 Ibidem; corsivo mio.

20 EG p. 183.

21 Tralasciamo il problema se questa unità ideale del giudizio, il significato dei segni “S è p”, abbia uno statuto noetico, come affermano le Ricerche logiche, in cui esso si configura come essenza ideale dell’atto di significazione, oppure se abbia anche uno statuto noematico, come affermano le Lezioni sul significato del 1908; in esse accanto a quella prima accezione (il significato chiamato ora fenologico o fansico) se ne accompagna un’altra (il significato ontico o fenomenologico): da una parte l’unità del giudizio d’esperienza sarebbe il mantenersi identico del raggio intenzionale, dall’altra sarebbe un’oggettualità categoriale fondata su percezioni e presentificazioni intuitive, cfr. LS §8.

22 EG p. 240; trad. it. p. 185; corsivo mio.

23 EG pp. 385-388; trad. it. pp. 295-297.

24 D. Hume, Trattato sulla natura umana, a cura di E. Lecaldano, Laterza, Bari 1987, p. 24.

25 H. Bergson, Materia e memoria, trad. it. a cura di A. Pessina, Laterza, Bari 1996, p. 78.

26 Per esempio un animale che da lontano ci sembrava un gatto e di cui poi sentiamo l’abbaiare; ad un’ispezione più da vicino si rivelerà un cane di piccola taglia.

27 Per esempio la posizione di una nuova specie vivente, come all’epoca fu l’ornitorinco.

28 Pensiamo alla considerazione humiana sulla ridefinizione dell’oro alla luce della scoperta della sua solubilità nell’acqua regia (D. Hume, Trattato sulla natura umana, cit., p. 28).

29 Cfr. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Kants gesammelte Schriften (1. Aufl. 1781), herausgegeben von der Königlich Preuβischen Akademie der Wissenschaften, Band IV, Berlin 1903-11, pp. 77-79; trad it. Critica della ragione pura, a cura di G. Colli, Adelphi 1976; pp. 161-166.

30 Ivi, pp. 79-83; trad. it. pp. 166-178.

31 Michel Foucault, La volontà di sapere, a cura di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, Milano 1984, pp. 122-124.



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