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Francis Bacon, Three Studies of Figures on Beds, 1972 (parziale)

 

 

 

Antonin Artaud: l'altro
e il suo doppio

di Marco Dotti

 

 

 

Occorre pensare allo scrittore (o al lettore, ma è la stessa cosa) come ad un uomo smarritosi in una galleria di specchi: c'è un'uscita dove manca la sua immagine e lì c'è il mondo

Roland Barthes, Il rifiuto di ereditare

Perché non siamo noi a sapere, ma una certa nostra condizione è quella che sa

Heinrich von Kleist, Sulla graduale produzione di pensieri

Chi, allora? Eh, un altro, è entrato per la finestra. Ma se ci sono le sbarre!

Francesco Saba Sardi, Dottor sottile

 

1. Il presupposto: alcuni modi di intendere l'altro

Per Antonin Artaud (Marsiglia, 1896 - Ivry, 1948), la lettera, la traduzione e il disegno (1) rappresentano mezzi privilegiati di apertura verso l'altro. Quest'apertura, com'è ovvio, può degenerare in scontro perché, spesso, chi ci sta di fronte è un "altro" che si nega, non risponde, si sottrae, o aggredisce alle spalle.

Nel caso di Antonin Artaud, quest'altro assume, di volta in volta, almeno tre connotazioni:

  1. l'altro con cui scrivere: un medio necessario ad Artaud per elaborare i propri pensieri;
  2. l'altro a cui scrivere, per liberarlo (spesso si tratta di compagne di sventura che Artaud, negli anni di detenzione nella clinica psichiatrica di Rodez, chiama filles de cœur à naître);
  3. l'altro contro cui scrivere, per liberarsene (questo "altro", in particolare, è la rappresentazione problematica di un'assenza, un fantasma contro cui insorgere, opporre ingiunzioni o reclamare pretese assolute. Artaud vi si riferisce utilizzando una gamma molto larga di dispregiativi - morpions, animalcules - o alterando i nomi di Dio). (2)

2. La questione: l'incontro/scontro con Jacques Rivière

2.1. Anche simbolicamente, la questione dell'altro in Antonin Artaud ha un'origine certa, e un nome noto: Jacques Rivière. Nel mese di settembre del 1924, infatti, mentre appare (col titolo Une correspondance) il suo breve, caustico epistolario con Rivière, in Artaud si delineano i tratti di quella che sarà una sconcertante esperienza (e una disarmante politica) dell'altro. Composta da undici lettere - di cui sei a firma di Artaud (allora ventisettenne) e cinque a firma di Rivière - che vanno dal 1 maggio 1923 all'8 giugno 1924, la correspondance nacque in occasione del rifiuto da parte di Rivière di pubblicare su La Nouvelle Revue Française da lui diretta alcune poesie di Artaud. La questione del rifiuto, per Artaud, non riguarda però il fatto di vedere o meno pubblicate le proprie poesie, ma, collocandosi propriamente su un piano esistenziale di incontro-scontro, "investe il problema più essenziale della propria esistenza stravolta da un male radicato che, dal piano personale, dovrebbe trasporsi su un piano più ampio, di coinvolgimento e di ascolto". (3)

2.2. Per comprendere a pieno questo rapporto con l'altro - prima, dopo, oltre Rivière - deve essere ben chiaro che Artaud orienta (tutto) il proprio lavoro artistico su un piano rigidamente inscindibile da quello esistenziale. Artaud si fa portatore di un significato integrale (e, in parte, integralista) di cultura, come è ben espresso nell'apertura de L'Ombilic des limbes (1925), un'opera giovanile composta per stratificazione e sedimentazione di frammenti poetici: "Là où d'autres proposent des œuvres je ne prétends pas autre chose que de montrer mon esprit. La vie est de brûler des questions. Je ne conçois pas d'œuvre comme détachée de la vie. Je n'aime pas la création détachée". (4) Questa visionarietà radicale, in cui Cardoza individua i tratti di una vera e propria "disperazione ontologica", condurrà Artaud alla ricerca di un linguaggio accessibile anche agli analfabeti (linguaggio che assumerà poi le forme della glossolalia e del fragore radiofonico), (5) e alla definizione di un tratto segnato da un'ignoranza intesa - positivamente - come sapere vissuto dalla carne (embodied knowledge) e come conoscenza immediatamente condivisa tra gli uomini (encultural knowledge o general intellect). Per Artaud questo sapere non è, in una parola, alienazione, è semmai "il prodotto di una natura esigente, rude, difficile, profonda, aspra, intensa, acuta, unica, rara, volitiva, collerica, penetrante, perspicace". Questa prospettiva chiarisce anche la sua concezione dell'artista come capro espiatorio, come martire volontario in un'epoca secolarizzata, ma non de-sacralizzata, e ormai intrisa di millenarismo bellico. L'arte, in questa prospettiva, "ha il dovere sociale di dare sfogo alle angosce della propria epoca", e l'artista "che non ha accolto nel fondo del proprio cuore il cuore della propria epoca, l'artista che ignora d'essere un capro espiatorio, che ignora che il suo dovere è di calamitare, di attirare, di far ricadere su di sé le collere erranti dell'epoca per scaricarla del suo malessere psicologico, non è un artista". (6)

2.3. Nel momento in cui lo scontro con Rivière diventa visibile assumendo una sua dimensione pubblica, l'anomalia-Artaud risulta formalmente costituita. Poesie inizialmente ritenute indegne di pubblicazione diventano pubblicabili, poiché ad esse si aggiunge un elemento destabilizzante extratestuale, una ferita segreta (per usare il linguaggio dell'ultimo Jean Genet) che però non si rimargina e diventa accessibile ad un altro che può, a seconda dei casi, lenirla o aggravarne la lacerazione. È lo stesso Artaud, molti anni dopo (nel 1946), a darne la conferma: "Jacques Rivière me refusa donc mes poèmes, mais il ne me refusa pas les lettres par lesquelles je les détruisais". (7)

2.4. Riprendendo le parole di Roland Barthes, Artaud si può considerare "ciò che, in filologia, si definisce hapax". Da questo momento, la sua singolarità, prosegue Barthes, non sarà mai più "quella del "genio", e neppure quella dell'eccesso", e si manifesterà, in tutti gli anni a venire, "in una maniera molto razionale", poiché "Artaud scrive nella distruzione del discorso". (8) Ciò che entra in gioco con le lettere a Rivière, quindi, non è tanto la velleità artistica di uno scrittore alle prese con un maldestro tentativo di autopromozione, ma la sua concreta, materiale, capacità di presentare - anche sul piano letterario - all'altro, e di preservare dall'altro, una sorta di individualità integrale, carica di tutti quegli "squilibri [...] che inevitabilmente la scrittura avrebbe rivelato" (Carlo Pasi).

2.5. L'altro è, in questo caso, tanto il medio, quanto il termine (iniziale e finale) di un confronto che, in ogni momento, potrebbe radicalizzarsi in conflitto. L'altro è, però, proprio il cardine attorno a cui ruota un pensiero, e grazie al quale impedire una totale irrappresentabilità della creazione artistica (ciò che Artaud chiama, tra l'altro, assenza d'opera). (9) Come ha più volte ribadito lo stesso Artaud, senza l'apporto di quest'altro - un antagonista mite - la sua opera non potrebbe sorgere. (10) Il rifiuto iniziale di Rivière contribuisce, come sottolineato nell'interpretazione di un critico attento come Carlo Pasi, (11) "alla costruzione di quello spazio "dialogico-analitico"" che permette ad Artaud di instaurare un dialogo "transferale" in almeno sue sensi. In primo luogo, operando in lui interiormente, nella direzione di uno "scavo" nella profondità della propria disconnessione tra pensiero e linguaggio. In secondo luogo, nel senso di "un'esposizione orizzontale delle proprie ricognizioni mentali all'ascolto altrui". (12) Lo scontro con Rivière costituisce - per chi accetti questo punto di vista, ovviamente - un vero e proprio "piano di proiezione", che Artaud svilupperà fino alla fine (sintomatiche, in questo senso, e in questa direzione, risultano le sue lettere a Breton) (13) e si concluderà con l'ultima articolazione del suo teatro della crudeltà - la trasmissione radiofonica Pour en finir avec le jugement de dieu, 1948 - come è stata espressa nel Préambule, scritto nell'agosto del 1946 per il primo tomo delle Œuvres complètes. Dal teatro, ai corpi: "le théâtre - scrive - c'est l'échafaud, la potence, les tranchées. Le four crématoire ou l'asile d'aliénés. La cruauté: les corps massacrés". (14) In questo senso, come ha notato Camille Dumoulié, l'intera esistenza di Artaud, "si potrebbe rappresentare [...] come una tragedia del furore di cui le lettere a Rivière costituiscono l'ouverture". (15)

3. La Lettera sulle deportazioni

3.1. Artaud giunge nella clinica psichiatrica di Rodez dopo anni di brutali internamenti. Qui - a dispetto degli elettroshock - ricomincia a scrivere, inizia a tradurre, riprende a disegnare. Dopo un primo periodo segnato da vocazioni mistiche accolte o abbandonate, e da contorsioni mito-linguistiche sulle vicende del bastone di San Patrizio (che sosteneva di aver riportato agli Irlandesi), (16) e, soprattutto, dopo aver "toccato il fondo di una condizione lacerata", Artaud, nel "momento di Rodez" (come lo ha chiamato Jean-Michel Rey), "compie la sua rinascita e scopre, nel linguaggio scheggiato di una nuova poesia, la nervatura essenziale del suo teatro crudele", avviando (prima con le traduzioni da Lewis, Poe e Carroll, poi con le lettere ed infine coi disegni) "un rapporto più creativo con l'alterità". Lettere, disegni e traduzioni diventano il banco di una nuova "prova dell'estraneità". (17) Questa prova acuisce, però, anche il suo scontro con l'altro - come usurpatore. Si nota, infatti, un'opposizione fortissima che da un lato schiera una comunità di esiliati della parola (Artaud e con lui: Nietzsche, Nerval, Kierkegaard, Rimbaud), e, dall'altro, medici, preti, scrittori di fantasticherie, critici da salotto che, per Artaud, oltre che borghesucci ("petits-bourgeois français repus"), sono ormai envoûteurs, ammaliatori, gente che compie strani rituali simbolici attorno al "corpo usurpato" degli uomini. Ad una lettura approfondita, i presupposti a cui Artaud si richiama non lasciano dubbi: lo scontro si svolge, ormai, ad un livello essenzialmente politico: "Mais vous faites bien de la politique, monsieur Totaud", è l'auto da fé artaudiano! (18)

3.2. Le lettere del periodo di Rodez occupano i tomi decimo e undicesimo delle Œuvres complètes curate da Paule Thévenin. Qui si presenta una lettera datata 16 maggio 1946, indirizzata a Pierre Bousquet. Nella lettera in questione è Hitler l'altro concreto contro cui scagliarsi, Bousquet il medio a cui rivolgersi, con cui confrontarsi, e attorno al quale far ruotare il pensiero costruendo uno spazio per la parola non estraniata. Hitler è un usurpatore, Bousquet un altro sé. Hitler è un ridicolo maestro di streghe che evoca spettri, lo Hexenmeister "che non è più in grado di arrestare le forze magiche che i suoi stessi scongiuri hanno scatenato", (19) Bousquet, come Artaud, è un esiliato, una vittima delle deportazioni. Hitler è un pazzo, Artaud no, "perché i veri malati mentali non sono nei manicomi, ma sono fuori, tra di noi, tra i conquistatori". (20)

3.3. "Non sono il solo scrittore ad aver parlato di sortilegio", affermerà citando Là-bas di Huysmans. Lettera e disegno sono mezzi che, disvelando il sortilegio, permettono ora ad Artaud (dal chiuso di un manicomio) di riferire la propria opera all'altro, o di interferire con lui, per opporsi a progetti deliranti, alterandone, a sua volta magicamente, piani e ambizioni. (21) In quest'ottica (un'ottica, in questo caso, fatta di poesia bianca e di magia nera), il disegno si presenta spesso nella forma di sort, di sortilegio, inviato a un agitatore o ad un uomo politico (tipico esempio è il Sort à Hitler) (22) e la lettera nella forma dell'adresse, dell'indirizzo (una specie di monito o di lettera aperta), secondo una pratica già sperimentata durante il periodo surrealista. Destinatari: Pio XII, il Dalai Lama e "Dio".

3.4. Il nome di Hitler tornerà in diverse circostanze, prima e dopo la fine della guerra, negli scritti di Artaud. Sarà vittima della sua dissezione umoristica, del suo tentativo di "danzarne il mito" e di espellere, con esso, "il nero", (23) per farlo cadere nel fango. La contorsione linguistica di Artaud è qui, propriamente, una torsione attorno all'alterità. A parte alcune comunicazioni a convegni (comunicazioni che, a dispetto del valore dei relatori, non vanno al di là di una ricognizione superficiale), (24) il rapporto tra Artaud e il fenomeno nazi-fascista è stato spesso travisato. Questa deformazione è stata resa possibile dalla sopravvalutazione di una dedica al Führer che, ritrovata da un medico di Rodez nel 1943, Artaud appose ad una copia de Les Nouvelles Révélations de l'Être (un'opera del 1937!). (25) Nell'accostarsi ad Artaud, però, non bisognerebbe fidarsi - senza verificarne, per quanto possibile, l'attendibilità e il rigore - di fonti indirette, o di testimonianze (seppur dirette) che selezionano e accatastano dati senza verificarli alla luce del tessuto complessivo della sua opera.

4. La follia non guarda altrove

"Artaud est fixé, il vivra jusqu'à quatre-vingts ans mais n'écrira plus une ligne". Questo impietoso giudizio viene spesso attribuito a Jacques Lacan che, nel 1938, lavorava nella clinica di Sainte-Anne in cui si trovava anche Artaud. (26) Chi dei due fosse il pazzo, non è dato saperlo. Di certo, Artaud non è morto ottuagenario, ed ha scritto ancora - soprattutto - fior di pagine. Leggiamo nei Cahiers de Rodez: "i miei disegni non sono disegni ma documenti, bisogna guardarli e comprendere che cosa c'è dentro". (27) Troppi lettori artaudiani, però, sembra si siano preoccupati più di vedere che cosa ci fosse dentro la testa di Artaud, che dentro i suoi scritti/disegni (e oltre i suoi gridi), quasi dovessero estrarne una tranquillizzante pietra della pazzia, un'idea fissa, forse neppure lacaniana.

In un tempo in cui l'arte è ormai diventata innocua e addomesticabile, il folle - scrive Francesco Saba Sardi, uno dei più sottili indagatori dei paradossi della mente - "col suo delirio dà atto che esistono altre dimensioni e che la logico-discorsività non è l'unica modalità del conoscere". E se "il delirio del matto è un elogio dell'oscurità costitutiva", (28) proprio la follia e, in particolare, la follia consapevolmente eversiva praticata da Artaud, rivela che "l'alterità non è defunta, che è attingibile". (29) Dentro i suoi disegni e le sue lettere, forse, c'è proprio questo: il tentativo - estremo, radicale, sconvolgente - di accedere all'alterità e di aprirsi all'utopia di una vita non alienata. (30) Ripartire dai testi, dopo tanta, troppa, sbornia psichiatrica, anti-psichiatrica o teatrale, mi sembra un atto dovuto. Un modo per farsi altro con, non carnefice di Antonin Artaud.

 

Note:

1) Vedi S. Barber, Artaud. The Screaming Body, London, Creations Books, 1999, pp. 33 segg. Cfr. F. Bartoli, La maschera e il totem nei disegni di Artaud, "Il Castello di Elsinore", IV (1989).

2) Sulle ragioni di questo scontro con Dio, cfr. almeno L. Chiesa, Antonin Artaud. Verso un corpo senza organi, Verona, Ombre corte, 2001, pp. 118 segg.

3) C. Pasi, "Lo specchio della crudeltà: Antonin Artaud", in Id., La comunicazione crudele. Da Baudelaire a Beckett, Torino, Bollati-Boringhieri, 1998, p. 91.

4) "Là dove altri propongono opere io pretendo solamente di svelare il mio spirito (esprit). La vita è un bruciare di domande. Non concepisco un'opera staccata dalla vita. Non amo la creazione distaccata".

5) Cfr. almeno M. Pierssens, Écrire en langues: la linguistique d'Artaud, "Langages", XCI (1988) e G. Rosolato, Artaud: le cri, "Nouvelle Revue de Psychanalise", XXXIX (1989).

6) A. Artaud, La Anarquia social del arte, "El Nacional", 18 agosto 1936, ora in L. M. Schneider (a cura di), Viaje al país de los tarahumaras, México, 1975. Ne esiste un'ottima traduzione a cura di M. Gallucci in A. Artaud, Messaggi rivoluzionari, Vibo Valentia, Monteleone editore, 1994.

7) Cfr. E. Melon, "Della lettera, di Artaud", introduzione a A. Artaud, Lettere a Génica Athanasiou 1920-1940, tr. it. di V. Bono, Milano, Archinto, 1989 e P. Di Palmo, "La poesia della crudeltà", in A. Artaud, Poesie della crudeltà, Roma, Stampa Alternativa, 2002.

8) Un altro critico d'eccezione, Luis Cardoza y Aragon, ricorda in questo modo il tratto alchemico della scrittura di Artaud: "lo más inaudito de Artaud, es cómo trató el lenguaje. Es primero en quien la escritura no es antropomórfica. Escribe como los minerales. Escribe? Imagino que imaginaba como un neolítico. Camina sobre el fuego. Es fuego".

9) Fondamentali, a mio avviso, le osservazioni di G. Agamben, La 121ª giornata di Sodoma e Gomorra, "Tempo presente", XI (1966).

10) Qui rientriamo nel genere, seppur radicale, della "confessione". Per il tipo, cfr. M. Zambrano, La confessione come genere letterario, tr. it. di E. Nobili, Milano, Bruno Mondadori, 1997.

11) Scrittore, saggista, traduttore, Pasi, che insegna Storia della letteratura francese all'Università di Pisa, è autore, tra l'altro, di saggi molto importanti sull'argomento, su tutti: Artaud attore, Torino Bollati Boringhieri, 1999.

12) C. Pasi, "Lo specchio della crudeltà: Antonin Artaud", cit., p. 93.

13) A. Artaud, Sei lettere a André Breton, tr. it. e a cura di C. Pasi, con quattro tavole di Sol LeWitt, Brescia, L'Obliquo, 1992.

14) "Il teatro è il patibolo, la forca, le trincee. Il forno crematorio o l'istituto per alienati. La crudeltà: i corpi massacrati".

15) C. Dumoulié, Antonin Artaud, tr. it. di M. Guareschi, Genova, Costa & Nolan, 1998, p. 17.

16) Cfr. G. Scarpetta, "Artaud scrive o la canna di San Patrizio", in Dell'arte ... i bordi, Venezia, Marsilio, 1979.

17) C. Pasi, "Antonin Artaud. Impresa anti-grammaticale su Lewis Carroll e contro di lui", in appendice a L. Carroll, Humpty Dumpty, traduzione francese di A. Artaud, versione italiana di G. Almansi e G. Pozzo, Torino, Einaudi, 1993, pp. 57-59.

18) A. Artaud, Dossier di Pour en finir avec le jugement de dieu, in Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 1956-1991, vol. XIII, p. 284.

19) L. Parinetto, "La malia del soggetto soggetto ovvero il sabba del capitale", saggio introduttivo a N. Poidimai, L'utopia nel corpo, Milano, Mimesis, 1998, p. 7. Cfr. G. Galli, La politica e i maghi, Milano, Rizzoli, 1995.

20) A. Artaud, "Non sopporto l'anatomia umana", in Id., Per gli analfabeti, Roma, Stampa Alternativa, 2002, p. 11.

21) Su questa tendenza, vedi G. Rohéim, Magia e schizofrenia, tr. it. di F. Saba Sardi, Bologna, Guaraldi, 1973. Cfr., in particolare, G. Weisz, Palacio chamánico. Filosofía corporal de Artaud y distintas culturas chamánicas, México, Gaceta, 1994 e, in generale, C. Daxelmuller, Magia. Storia sociale di un'idea, Milano, Rusconi, 1997.

22) Sort à Hitler (disegno a matita su carta bruciata) è del settembre 1939. Cfr. S. Barber, Artaud. The Screaming Body, cit., p. 37.

23) Cfr. L. Bersani, Artaud, Birth and Defecation, "Partisan Review", XLIII (1976); G. Rosolato, "L'expulsion", in Id., Revelation de l'inconnu, Paris, Gallimard, 1978, pp. 131 e segg.

24) G. Scarpetta, "Artaud fasciste?", in La littérature française sous l'occupation. Actes du colloque de Reims, 30 septembre-1er octobre 1981, Reims, Presses Universitaires de Reims, 1988 e N. Greene, "'All the great myths are dark'. Artaud and fascism", in G. A. Plunka (a cura di), Antonin Artaud and the modern theater, Rutherford, Fairleigh Dickinson UP, 1994.

25) Vedi però G. Deleuze e F. Guattari, Mille plateaux, Paris, Minuit, 1980, p. 292.

26) Cfr. i dubbi di E. Melon, "Artaud con Lacan", in M. Margarito e S. Zoppi (a cura di), Omaggio a Marcella. Studi in onore di Marcella Deslax, Torino, Tirrenia Stampatori, 1992.

27) A. Artaud, Œuvres complètes, cit., vol. XXI, p. 266. Claude Rabant, uno psicoanalista lacaniano che ha affrontato la questione, cita però questo passo a vantaggio di una tesi (suggestiva, invero): l'(auto-)irrappresentabilità della follia, vedi C. Rabant, "Io, la follia, parlo", in G. Damiani (a cura di), Elogium. Strategie della follia, Milano, Fondazione Luigi Berlusconi, 1992, pp. 15-32.

28) F. Saba Sardi, Nascita della follia, Milano, Mondadori, 1975, p. 181.

29) Ibid., p. 185. Nel Diario, Franz Kafka scrive: "Che cos'è allora la non-pazzia? Non-pazzia è stare come un mendicante davanti alla soglia di fianco all'ingresso, marcirvi e crollare. Eppure P. e O. sono pazzi disgustosi. Ci devono essere pazzie più grandi di coloro che ne sono i portatori".

30) Vedi J. L. Rodríguez García, Verdad y escritura: Hölderlin, Poe, Artaud, Bataille, Benjamin, Blanchot, Barcelona, Anthropos, 1994.