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Francis Bacon, Study for Self-Portrait, 1985 (parziale)

 

 

 

 

 

L'esperienza dell'altro
(Riassunto dei corsi 1949-1952)

di Maurice Merleau-Ponty

(cfr. testo originale francese)

 

Il problema di cui ci occupiamo esiste in forma chiara da cent’anni. Perché?

Per alcune filosofie non esiste un problema dell’altro.

Empirismo assoluto. – Per una tale filosofia l’io si riduce ad una serie interna di stati di coscienza che io colgo in me stesso; l’altro costituisce un’altra serie di stati psicologici distinti dai miei ed inaccessibili: la sua posizione apparirà dunque come inconcepibile. Ma per un empirismo consequente non si può affermare l’io più di quanto si possa affermare l’altro, dal momento che si ha esperienza solo di una serie di stati che si succedono, e non dell’io. D’altronde una tale filosofia non pone nessuna certezza, ed ogni filosofia che si voglia empirica viene a trovarsi costantemente in difficoltà.

Concezione puramente riflessiva. – Lo spirito è capace di cogliersi con certezza assoluta; io scopro me stesso come un soggetto assolutamente attivo, l’io è pura coincidenza con se stesso, non può essere ridotto in nessun caso all’individualità di un singolo in una situazione locale e temporale; lo spirito si definisce attraverso la coscienza di sé. L’io passa così sotto il dominio del valore.

L’altro non risiede nel suo corpo, dal momento che questo asserto è incompatibile con la nozione di spirito, e d’altra parte lo spirito, per definizione, non può vedersi all’esterno (l’io può incontrare se stesso ma solo all’interno della sua esperienza), quindi in una tale filosofia ciò che chiamiamo l’esperienza dell’altro è puramente e semplicemente priva di senso. Ritengo che l’altro è per sé ciò che io sono per me stesso (Descartes, Meditazioni).

Si pone il problema dell’altro quando non mi riduco ad essere un semplice flusso di esperienze psicologiche e quando d’altro canto non posso attribuirmi la qualità di essere un soggetto eterno ed unico; allora si può ammettere questo rapporto singolare che esiste tra uno spirito e quell’apparato corporeo cui è esso è legato (Husserl).

Il problema dell’altro si pone quando si sono accantonati questi due punti di vista: esiste allora uno spirito incarnato con cui si può entrare in contatto. La nostra questione, di conseguenza, può essere considerata come una specificazione del problema dell’io.

Vi è implicato al tempo stesso anche il problema del mondo. Abbiamo appena visto che il problema dell’altro non si pone in ogni contesto e in ogni situazione; lo stesso vale per il problema del mondo. Questo non si pone nell’empirismo radicale, in cui il mondo è semplicemente il titolo assegnato all’insieme ed alla serie degli stati psicologici; non si pone neppure nel razionalismo assoluto, secondo il quale è possibile mettersi nella posizione di Dio e percepire la totalità dell’Essere.

La nozione acquista lo spessore di problema allorché si consideri che il mondo è una totalità che non può essere totalizzata (Kant: il mondo è conosciuto come un’idea-limite grazie alla quale designiamo una serie indefinita ed aperta di esperienza connesse tra di loro attraverso legami razionali).

La nozione di esperienza (Erfahrung) mette in evidenza l’elemento di originalità presente nella nostra relazione con l’essere; allo stesso modo, perché l’altro diventi un problema, è necessario che non sia posto in modo assoluto, ma come un’esperienza progressiva.

In realtà, i due problemi non sono soltanto paralleli, ma connessi dall’interno poiché, evidentemente, è nel mondo che possiamo avere una qualche opportunità di incontrare l’esperienza dell’altro. Non si tratta dunque di presupporre queste o quelle concezioni dell’io e del mondo, per poi osservarne le conseguenze rispetto al problema dell’altro, si tratta piuttosto di esaminare come si debba concepire il mondo perché l’altro risulti pensabile.

Riflettiamo quindi sullo stato d’ignoranza in cui ci troviamo rispetto al problema dell’altro, per precisare perché questo problema ci risulta allora privo di senso.

L’atteggiamento principale a partire dal quale non c’è più un problema dell’altro è quello che consiste nel dire che la passività è, per lo spirito, assolutamente impensabile: lo spirito garantisce l’unità del molteplice che costituisce l’oggetto (perché io possa percepire un foglio di carta occorre che io non sia un elemento del foglio); sono io stesso che mi rappresento come passivo, confondendomi con il mio corpo, ma in effetti non lo sono affatto.

Ciò ha come conseguenza immediata una certa concezione dell’oggetto che si definirà allora interamente a partire dall’esteriorità delle sue parti (Descartes: partes extra partes), e l’io dovrà quindi concepirsi non come senso intimo, ma come puro io senza contenuto, non individuato nel tempo. Poiché l’altro non sarà da parte sua incarnato e situato, il problema pertanto viene a mancare. In effetti Kant non percepisce affatto come un problema il passaggio tra ciò che è vero per la mia coscienza e ciò che è vero per tutte le coscienze, dal momento che non pone come situati né l’altro né l’io.

In una tale concezione il problema filosofico non sussiste, ci sono soltanto problemi psicologici (cfr. l’analisi dello spazio): l’altro è solo un problema di contenuto, non un problema trascendentale di struttura.

In fin dei conti l’altro non è un problema perché una tale filosofia ha talmente purificato l’oggetto ed il soggetto da non avere più la possibilità di rappresentarsi qualcosa come l’altro, che dovrebbe essere soggetto-oggetto. Non si avrà altra risorsa che quella di dire che si tratta di una rappresentazione che non resiste alla riflessione.

Questa filosofia rende dunque il nostro tema chimerico ed inespugnabile. Infatti, se si cerca di mostrare al filosofo che riflette che questi oggetti-soggetti fanno comunque parte della nostra esperienza, come, questi dirà, qualche cosa che non ha senso può far parte della nostra esperienza?

Descartes ha trattato molto brevemente questo problema, ma, se si considera l’impianto della sua filosofia, ne aveva ben il diritto; poteva gettare luce sul problema dell’unione dell’anima con il corpo poiché l’identità in Dio dell’essenza e dell’esistenza ci fa cogliere una possibile soluzione. Descartes ci colloca in presenza del mondo nella quinta e nella sesta Meditazione; nella sua filosofia il mondo ha un senso perché è creato da Dio, ma i cartesiani moderni non possono operare tale ritorno al mondo perché non pongono più Dio e dunque il mondo è un non senso.

Se vogliamo confrontarci in modo positivo con il problema del mondo, senza postulare un infinito che offra la soluzione di ogni problema, dobbiamo pensare allora il paradosso che gli è inerente, in particolare il paradosso dell’altro.

Descrizione iniziale

L’obiettivo qui è quello di descrivere i vari oggetti del mondo con le loro radici soggettive, al fine di acquisire la consapevolezza del nostro vero contatto con il mondo; di vedere come il mondo ci parla dell’uomo.

Partiamo da un esempio usato nelle concezioni oggettiviste: la percezione del cubo (cfr. l’analisi di Lagneau, Célèbre leçons et fragments, P.U.F., 1964).

Si può facilmente dimostrare come il cubo sia oggetto di un giudizio in cui la distinzione tra chi giudica e ciò che è giudicato resta netta. In effetti, noi non abbiamo che una visione successiva delle facce; se io credo al cubo, è perché in me lo spirito corregge l’apparenza affinché io percepisca. Da questo punto di vista vedere non ha senso: se c’è una visione del cubo, ciò significa che il nostro sguardo è visitato dallo spirito.

Questa classica analisi si scontra con una difficoltà: suppone, almeno idealmente, che si abbia una certa visione prospettica del cubo e che, a partire da questa visione, un atto di pensiero permetta di ricostruirlo.

Ma stanno veramente così le cose nella percezione?

Guardiamo un uomo a grande distanza: non si può dire che sia grande come una mosca, ma la distanza non è omogenea all’altezza ed alla larghezza: essa è la dimensione dell’inattualità. Quest’uomo è una presenza che, per il momento, è lontana, ma è laggiù una presenza tale, quale io la accerterei se guardassi più da vicino.

Nella percezione libera non c’è alcuna misura comune tra l’oggetto vicino e l’oggetto lontano, perché si situano in due dimensioni differenti.

La strada che fugge verso l’orizzonte non si restringe veramente, ed solamente dopo una certa analisi si può dire che questo spettacolo comporta le caratteristiche che gli sono attribuite dalla descrizione.

Ma la percezione dell’oggetto è differente da quella che ci dà, in seconda battuta, la nostra analisi. L’oggetto (nel senso etimologico di ciò che sta davanti al mio sguardo) è circondato da un orizzonte interiore e da un orizzonte esteriore (Husserl) che annunciano una serie aperta ed indefinita di percezioni complementari, che potremmo ottenere cambiando il punto di vista. La percezione è la sintesi di tutte le percezioni possibili; questa sintesi è realizzata dal potere che ho di spostarmi.

La cosa percepita è un sistema di esperienze: se faccio quel movimento, otterrò quel risultato; è la mia corporeità che rende possibile questo sistema di "Wenn…so"; non è un sistema di rapporti tra variabili oggettive: la percezione gioca sui rapporti tra me, in quanto ho un corpo, e il mondo.

La cosa mi appare secondo certe prospettive; il prospettivismo della nostra percezione non è esprimibile tramite un rapporto oggettivo tra grandezze; non è paragonabile con gli schemi che mi dà la geometria. In effetti, nella percezione il mio corpo gioca il ruolo di misurante assoluto, ma non si tratta già di misurare, si tratta piuttosto di rendere possibile ogni misura; la distanza non è quindi una grandezza oggettiva; è il grado di precisione della presa che il mio sguardo ha sulla cosa. In un certo senso noi, diversamente dai classici, affermiamo che immediatamente, attraverso la percezione, andiamo alla cosa stessa e, in un altro senso, ne affermiamo l’insormontabilità.

Le analisi classiche fanno diventare la percezione un testimone, un terzo, posto tra l’oggetto e colui che percepisce; ci si è posti nella posizione di un soggetto che sarebbe un puro spettatore.

Tutto questo ci spinge a definire la cosa percepita come una fisionomia (Gestalt). A partire da Spinoza, risultò acquisito il fatto che percepire un cerchio consistesse nel ricostruire intellettualmente il cerchio stesso. In realtà, cogliamo una fisionomia del cerchio, che ci dà la sua curvatura, senza implicare già in sé la sua formazione intellettuale. Il cerchio è una certa maniera di mettere alla prova il nostro rapporto generale con lo spazio, come questo si costituisce nello sguardo che gettiamo sulle cose. Il cerchio ha il suo modo particolare di far leva sui legami che abbiamo con le cose: è questa la sua fisionomia. Noi disponiamo di alcuni parametri che rappresentano il nostro ancoraggio nel mondo (orizzontale, verticale, vicino o lontano rispetto all’oggetto, visione netta o confusa) che la fisionomia fa variare. La cosa è interamente strutturata dalla relazione del nostro essere incarnati nel mondo.

Il mondo ha un significato perché ha una direzione; ogni localizzazione degli oggetti nel mondo presuppone il mio essere localizzato; in un certo senso l’oggetto della percezione non cessa mai di parlarci dell’uomo, è espressione di noi stessi in quanto soggetti incarnati. L’oggetto è già di fronte a noi come un altro, ci aiuta a comprendere come si può avere una percezione dell’altro.

Inoltre noi non siamo soltanto un corpo dotato di sensi, ma anche un corpo portatore di tecniche, di stili, di condotte, alle quali corrisponde una serie superiore di oggetti: gli oggetti culturali, che le modalità del nostro stile corporeo destinano ad una certa fisionomia. La nozione di oggetto culturale, quasi non considerata affatto nelle teorie classiche della percezione, oggi acquista invece una estrema importanza.

L’utensile si rivolge alla mia attività, la rende già operante, ed anche la percezione sensoriale comporta tra me e l’oggetto un rapporto fisionomico; perché l’utensile sia riconosciuto è sufficiente un minimo di percezione sensoriale ed è allora che la sua utilità s’impone. La percezione dell’utensile tende a divenire una categoria particolare della percezione (Heidegger: distinzione tra "zu Handen" e "vor Handen").

Analizziamo un oggetto culturale anteriore alla sfera del linguaggio, ad esempio la percezione di un quadro senza nessun personaggio umano.

Un quadro è la traccia manifesta di un certo rapporto culturale con il mondo; chi lo percepisce, percepisce al tempo stesso un certo tipo di civiltà. Quando l’arte ha cercato di essere il meno soggettiva possibile (la pittura italiana del Rinascimento), con questa stessa intenzione si è fatta espressione di un certo modo di essere uomo. La prospettiva planimetrica, inventata a questo scopo, è un modo estremamente deciso di livellare il mondo, poiché consente la rappresentazione coerente della molteplicità degli oggetti senza che questi sconfinino gli uni negli altri; il pittore decide di non sacrificare un oggetto ad un altro. Così compresa, la pittura esprime una certa attitudine oggettivante riguardo al mondo.

Cfr. Panofsky, La perspective comme forme symbolique, Édition de Minuit, 1975.

– La prospettiva non è naturale, ma è un partito-preso. Diversi sistemi sono infatti possibili (la pittura greca utilizzava la prospettiva angolare).

– Una volta acquisita, questa immagine del mondo sembra naturale. Si finisce per percepire attraverso questi parametri. Gli stessi pittori che per la prima volta hanno impiegato la prospettiva hanno creduto di scoprirla nelle cose e non di inventarla.

Quindi per stabilire che la prospettiva è una forma simbolica, occorrerà mostrarne le implicazioni. L’espressione che si realizza nella percezione di un quadro è antropologica ed appare come una proprietà della natura.

La pittura greca privilegia il corpo, la spazialità non vi è conosciuta che come scarto tra due corpi; lo spazio è un aggregato, non c’è in questi quadri un unico punto di fuga, ma diversi assi di fuga divergenti. Ciò che leggiamo in tali quadri è un certo atteggiamento verso il mondo che si esprime attraverso una certa incoerenza e un certo onirismo; la percezione di questa prospettiva è quella di un certo stile dell’essere che ci appare, sopratutto in maniera retrospettiva. Siamo noi che parliamo di "Unfestigkeit", mentre i Greci forse non la provavano affatto; ma non si può supporre neppure per un istante che non la sentissero in qualche modo.

Gli artisti hanno già presente un certo sentimento del mondo: hanno cercato qualcosa che completasse il loro sistema di espressione dello spazio; è l’insieme delle tensioni interiori al loro sentimento ad orientarli.

La pittura romana utilizza un sistema più perfezionato di proiezione: su una superficie curva. I pittori hanno presente il problema, ma allo stato speculativo.

La pittura del Medio Evo "riempie" suoi quadri piuttosto che cercare di riprodurre per loro tramite uno sguardo sul mondo. Il problema della prospettiva è allo stato di latenza; è comunque presente, perché la nuova arte introduce, malgrado tutto, alcune relazioni tra gli oggetti mediante il colore, e ciò corrisponde ad una metafisica della luce.

La pittura bizantina scopre il valore espressivo della linea. È fedele alla pittura greca ma non alla sua ispirazione, così il problema non è ripreso chiaramente e consapevolmente.

L’arte romana conserva e supera insieme l’antichità; la conserva unendo spazialità e corporeità tramite la superficie; la supera affermando la possibilità di espressione grafica che offre la linea.

L’analisi di Panofsky ci mette in guardia rispetto a due errori che riguardano l’interpretazione della storia dell’arte.

1) È sbagliato immaginare che dietro agli artisti ci sia uno spirito del mondo che opererebbe alle loro spalle per raggiungere i propri fini (i superartisti di Malraux). Non si ha a che fare con un inconscio storico che dirigerebbe gli artisti a loro insaputa; bisogna capire che il pittore pensa a dipingere e non alla storia universale.

2) Non bisogna credere che lo sviluppo della pittura sia frutto del caso. Qualcosa guida i pittori nel loro lavoro: un problema sentito sordamente come una situazione non risolta. C’è una sorta di razionalità della pittura; non si può parlare quindi né di "superartista", né di un "fiume della storia", piuttosto tutti i pittori fanno parte dello stesso mondo pittorico, uno stesso problema si presenta a tutti. In un dipinto leggiamo dunque una storia misteriosa nella misura in cui il problema non è esplicito.

Dürer amplia la nostra definizione della prospettiva (Durchsehung), a partire dal momento in cui ha l’idea che se il quadro deve significare il mondo, allora cessa di esserne un elemento. Se si considera il quadro come un’entità culturale, allora esso non abita più la sua superficie, ma i suoi oggetti sono distribuiti a differenti profondità. Ciò implica tutta una concezione del mondo; il dipinto è realizzato per convertire il mondo nel suo significato. Il dipinto non è collocato nel punto dello spazio in cui sta la tela; appare in quel punto, ma non è là (Sartre, L’imaginaire, Gallimard, coll. "Folio-Essais"); il mondo è qualcosa da costruire.

Leonardo da Vinci, come i suoi contemporanei, ha sognato una lingua universale. Secondo lui, il pittore non avrebbe bisogno di un’arte dell’espressione; conformandosi alle leggi della prospettiva, può costruire il bello. Il suo progetto era quello di una pittura che desse un oggetto assoluto, in relazione con un sentimento del mondo.

Ma questa era un’illusione; la pittura è in rapporto con un certo stile di uomo. Panofsky mostra, nella sua analisi, che questo procedimento non poteva da solo garantire ciò che i pittori si aspettavano; i grandi illusionisti impiegavano la prospettiva ma ciononostante non ci restituivano nessun oggetto, ma, al contrario, ciò che vi è di deformante nella nostra prospettiva (i soffitti di Tiepolo), dunque le sue leggi potevano essere utilizzate per esprimere l’apparenza.

Rembrandt non impiega mai l’ortogonale, né la parallela al piano frontale; i suoi quadri ci danno allora l’impressione di ruotare su se stessi. Negli italiani invece l’oggettivismo è prevalente; i loro interni somigliano ad un’architettura in cui è stato tolto un lato. Vediamo dunque quanto la prospettiva sia ambigua in se stessa; essa va soggetta a due critiche:

– un eccesso di soggettività;

– un razionalismo troppo accentuato (critica dei pittori moderni).

Queste due critiche sono giuste e per nulla contraddittorie.

Affinché la pittura possa uscire da questo dilemma occorrerà che rinunci a considerare la prospettiva come un processo autosufficiente, iniziando a considerarla come un elemento dello sforzo creativo da considerare insieme agli altri.

Cézanne: all’inizio non utilizzò la prospettiva e volle rendere l’oggetto tramite il colore, ma nell’ultimo periodo la applicò parzialmente.

La pittura contemporanea saggia un modo di espressione altro che consiste nel rendere inseparabili l’aspetto soggettivo e quello oggettivo (Braque: gli oggetti sanguinano, hanno il valore di complessi in senso freudiano).

La prospettiva planimetrica è una delle forme simboliche con cui gli uomini hanno cercato di conquistare il mondo. Il mondo ci rimanda la nostra immagine; percepiamo negli oggetti culturali una certa atmosfera umana, un rapporto con la vita esteriore e interiore. Il loro significato antropologico non è uno stato d’animo, ma una certa articolazione dell’interiorità rispetto all’esteriorità di una cultura, di un individuo.

Cfr. Hegel (Esthétique, Flammarion, coll. "Champs"): la pittura è la soggettività senziente, che si definisce come rinuncia deliberata alla terza dimensione; così, l’opera d’arte non è più qualcosa che esiste in sé, alla maniera di una statua; il contenuto di un quadro non esiste che per il soggetto, per lo spettatore.

"Si direbbe che lo spettatore sia lì fin dall’inizio…" […]

1) Esame del vissuto e di ciò che è espresso attraverso i gesti

a) Nella coscienza mitica […]

b) Nell’espressione drammatica […]

L’espressione drammatica non consiste nel cercare segni il cui significato sarebbe dato al di fuori di essi; infatti, c’è un rapporto diretto tra l’uso del corpo e il significato della pièce teatrale che resta di natura magica. Si tratta di ottenere un’adeguazione tra una condotta ed un senso, che sarà al tempo stesso un’adeguazione tra il pubblico e lo spettacolo, in un modo tutto da inventare. La relazione tra il modo di recitare e il senso della pièce teatrale non è garantita da un’analisi intellettuale; si può allora ammettere che quanto è espresso e l’espressione sono reciproci ed indiscernibili, tanto quanto lo sono il senso della poesia e l’espressione poetica. La realizzazione del senso nella pièce teatrale è un’autentica ricreazione. È questa "magia" moderna che vorremmo considerare un po’ più da vicino.

Nel Paradosso sull’attore, Diderot aveva in mente qualcosa del genere: "il vero autore è freddo e tranquillo – è un imitatore attento, un discepolo riflessivo della natura", afferma Diderot, ma tra la sua idea iniziale e le sue formulazioni successive esiste uno scarto di cui occorre tener conto; la sua tesi è che l’attore non vive la sua parte come vive la sua vita ordinaria:

– non ci crede come ad una realtà, ma è consapevole di ciò che fa; la sua emozione viene dalla testa e non dal cuore;

– questa comprensione della parte recitata non è un’imitazione convenzionale, ma è un’operazione di carattere pre-logico: assunzione del ruolo da parte dell’attore: "l’attore scivola in un fantasma"; operazione espressiva in cui un corpo si presta ad esprimere un altro ruolo rispetto a quello che gli è normalmente proprio (cfr. Sartre: L’immaginario).

La discussione a proposito della sensibilità o non sensibilità dell’attore è un problema mal posto: l’attore prova emozione nell’irreale o nell’immaginario, egli si mobilita interamente per produrre i suoi personaggi ma, proprio per questo, li vive nell’irreale (se piange, egli coglie che le sue lacrime sono analoga delle lacrime reali); non è il personaggio che si realizza nell’attore, è l’attore che si irrealizza nel personaggio.

Possiamo allora dire che esprimere vuol dire lasciar vivere un certo personaggio attraverso il corpo in quanto esso è capace di lasciarsi afferrare anche da altri ruoli ai quali si presta abitualmente. L’attore percepisce con molta attenzione le espressioni dell’altro, che gli permettono a sua volta di esprimere l’altro. […]

L’emozione del commediante è un’emozione immaginaria, in quanto egli sostituisce l’immaginario al vissuto. Tuttavia, la situazione immaginaria non diviene mai equivalente ad una situazione reale e vissuta; in questo caso esprimere è abitare momentaneamente questo fantasma i cui tratti principali sono fissati dal copione. Appare ora molto chiaramente come l’attore non si risolva semplicemente né in un’intelligenza, né in una sensibilità, ma sia qualcuno che è capace di irrealizzarsi in un personaggio.

L’espressione drammatica, conseguentemente, non è paragonabile alle parole del linguaggio che hanno un senso rigorosamente definito, ma all’uso che facciamo di queste parole nella lingua parlata. […]

L’espressione drammatica consiste nel parlare con il corpo, nel costruire, con i movimenti possibili del corpo, un assemblaggio originale che renda il significato della pièce teatrale. La parte da mettere in scena non è dunque qualcosa di già dato, il che lo differenzia nettamente dal rituale.

[…].

La genesi del personaggio comprende due fasi successive:

1) Costruzione astratta.

Prima di tutto, l’attore deve entrare nella dinamica delle parti. La sua parte appare tra le altre, con una collocazione determinata all’interno dell’opera, con una certa densità.

Poi l’attore deve abbandonarsi ad una nuova analisi della pièce teatrale dal punto di vista del suo personaggio, che allora diventa un particolare modo di agire e non più, come poco prima, una potenzialità di azione. Questo è un lavoro di intelligenza, ma molto particolare; attraverso questa analisi drammatica tutti i personaggi sono percepiti e compresi in quanto condotte: l’intelligenza è già ad un passo dalla rappresentazione drammatica.

2) Costruzione concreta

Passaggio dalla lettura alla rappresentazione della pièce teatrale. L’autore non dà all’attore un personaggio cui semplicemente egli debba aderire, ma un ruolo a partire dal quale costruire un personaggio, proprio perché in materia d’arte non conta altro che la realizzazione.

Una volta finito il lavoro analitico, resta ancora tutto da fare: l’attore non sa ancora come metterà in scena il suo personaggio. Trova certe espressioni che corrispondono alle sue intenzioni; un atteggiamento che egli riconosce come quello che cercava; arriva a trovare in un dettaglio tutto uno stile d’essere; impara a modulare un certo linguaggio, che è quello del suo personaggio. […] Questa ricerca, questo sforzo per assumere una parte da recitare è un’operazione non logica.

Potremmo paragonare questo caso ad altri più semplici: l’abitudine e l’imitazione.

La teoria dell’abitudine è stata per molto tempo intrappolata nell’alternativa: meccanismo corporeo o operazione veramente intellettuale. Il solo fatto di rimarcare che essa è ugualmente distante dalle due opzioni, ha permesso i progressi realizzati negli ultimi venticinque anni.

Non si può parlare di automatismo perché, in questo caso, l’abitudine funzionerebbe secondo precise condizioni; ora è un fatto che le abitudini sono plastiche, infatti né le situazioni, né gli strumenti corporei sono fissati una volta per tutte (transfert di abitudini).

D’altra parte, l’abitudine non è assoggettata a situazioni strettamente definite, ma è l’attitudine a rispondere ad un certo tipo di situazioni con certe forme di soluzione. L’operazione che compie l’abitudine è allora sia corporea che spirituale: è un’operazione esistenziale in cui l’apprendimento di un ruolo da parte dell’attore non ne è che un caso, anche se molto complesso.

Il problema dell’imitazione è anch’esso rimasto irrisolto finché è stato posto nei termini classici […].

Oggi un tale problema è superato per il fatto di aver dato vita alla nozione di struttura. Nel suo funzionamento, il corpo dell’altro realizza nei suoi movimenti lo spostamento di alcune forme corporee che non sono colte come una somma percettiva dei movimenti visti, così come anche il mio corpo non mi è dato come una somma di sensazioni, ma come un tutto. Punto di connessione tra i due è la forma comune delle percezioni visuali e tattili, tramite cui essi comunicano. Tutto accade come se le intuizioni e le realizzazioni motorie dell’altro si trovassero in una sorta di rapporto di sconfinamento intenzionale, come se il mio corpo e quello dell’altro formassero un sistema.

Queste analisi dell’imitazione ci permettono di capire l’operazione dell’attore che presta il suo corpo ad un ruolo teatrale, non abitandolo normalmente. Ciò che imparo a considerare come il corpo di un altro è per me una possibilità di movimento; possiamo dire dunque che quella dell’attore non è che l’approfondimento di un’arte che possediamo tutti, visto che il mio schema corporeo si riferisce al mondo percepito, come anche all’immaginario.

[…]

C’è dunque della magia nel teatro, la recitazione dell’attore è un linguaggio gestuale che secerne da se stesso il suo significato. Ma la magia non sta tanto nel fatto che il senso sarebbe presente nel corpo dell’attore, quanto piuttosto nel fatto che il corpo dell’attore cessa di essere una cosa per significare; per il fatto che l’attore, con la sua gestualità, seduce il mio corpo e lo coinvolge, il senso di ciò che fa non è nello spirito, ma nella virtualità dei suoi gesti, il che è precisamente ciò che chiamiamo "dramma". I pensieri del ruolo teatrale esistono solo nei gesti – sulla scena ci sono soltanto comportamenti e tutti i pensieri sono comportamenti; gli oggetti sono presenti nel dramma solo in quanto integrati ai gesti dell’attore. È la pregnanza del senso della parte nel comportamento sulla scena ciò che distingue realmente il grande attore; c’è il lui una sorta di implicazione degli altri attori (cfr. Moreno: ego ausiliari). La magia drammatica consiste nel fatto che, oltre al corpo dell’attore, tutto il resto è innalzato al livello dell’immaginario attraverso i legami che si stabiliscono tra gli oggetti.

Il significato del teatro deve rimanere qualcosa di obliquo o laterale: tutti i gesti hanno un senso che è da loro indicato, ma non significato nel senso di un indice. Il fondamento della magia è nell’intenzionalità che lega il nostro corpo al mondo; questa non è utilizzata che parzialmente nei gesti della maggior parte delle persone; invece l’attore fa apparire all’apice dei suoi gesti degli oggetti immaginari. Tale magia non è una forza fisica che opererebbe su di noi come un agente farmaco-dinamico, ma risiede piuttosto nel fatto che i gesti fanno apparire sulla superficie del mondo degli oggetti che non esistono affatto, ma che tuttavia hanno un significato pari a quello di un oggetto percepito, se non addirittura ad esso superiore; tale magia scava delle nicchie in cui divengono visibili i comportamenti degli altri uomini.

[…]

L’atteggiamento del commediante è simmetrico rispetto a quello del pubblico; allo stesso modo lo scrittore crea, in fin dei conti, un lettore a modo suo e stabilisce con lui un rapporto a senso unico; il lettore amerà lo scrittore nella misura in cui questi gli dà espressione e al tempo stesso lo odierà perché l’autore avrà sempre l’iniziativa. Si crea così un mito dello scrittore, così come esiste il mito dell’attore. Questo atteggiamento disumano dipende dalla capacità di espressione che sfocia, nello scrittore, in un prestigio bugiardo e inevitabile; mentre nel lettore esso sfocia nella delusione. […]

c) Nella vita di società come la nostra. – Possiamo forse trovare nella vita reale qualcosa di analogo alla proiezione di un individuo in ruolo immaginario?

Sartre lo afferma alla fine de L’immaginario, giacché, secondo lui, ogni coscienza è una coscienza che immagina; prendere coscienza del mondo significa, in un certo senso, superarlo, ma non si può mai superare il mondo verso il nulla (su questo punto Sartre dà ragione alle analisi di Bergson), quindi distraiamo una parte di noi stessi da quella operazione sul mondo che è la percezione, perciò si ha l’immagine; ogni immaginazione è negazione del mondo a partire dal mondo, essa realizza una sorta di distensione dei miei rapporti con il mondo; ogni coscienza è allora necessariamente coscienza immaginante.

Se questo è vero, se ogni coscienza del mondo è al tempo stesso immaginazione del mondo, allora è impossibile, all’interno della coscienza, non incontrare l’immaginario e si dovrà dire allora che l’intera vita è invenzione di un ruolo che esiste solo in virtù dell’espressione che gli do. La vocazione consiste sempre in questa decisione libera di irrealizzarsi in un ruolo. Gide distingueva tra un amore immaginario ed uno reale, Sartre invece non fa distinzioni all’interno della coscienza, dove apparenza e realtà si confondono. In effetti, la coscienza si definisce attraverso la sua presenza a se stessa; di conseguenza il problema della sincerità svanisce perché nel profondo io non sono niente. L’insincerità esiste solamente per coloro che non si irrealizzano completamente nel loro ruolo. L’autenticità consiste nel darsi completamente alla parte che si è deciso di interpretare (ne Il rosso e il nero, ad esempio, i seminaristi compiono degli atti in nome di una pietà che non li abita; insincerità, dice Stendhal; niente affatto, direbbe Sartre, piuttosto: discordanza tra due realtà).

[…]

La mia libertà è ugualmente anche in rapporto con ciò che farò, dal momento che mi metto in gioco in ciò che faccio, quando agisco; se vivere è inventare, è allora inventare a partire da certi dati di fatto. Ad esempio potremmo dire di El Greco che il suo passato gli sia stato dato affinché creasse la sua opera così com’è, ma anche affinché gli eventi della sua infanzia ci apparissero a posteriori come anticipazioni della sua opera; c’è dunque un rapporto circolare tra l’opera e la vita, e tra la vita e l’opera. Nella vita di un individuo ci sono dei momenti fecondi in cui egli è particolarmente espressivo rispetto alla sua individualità, in cui egli carica di un senso inatteso ed affatto originale alcuni dati del suo passato, trovando in essi un significato in vista di qualcosa che sorge in lui o intorno a lui. L’espressione di se stesso è allora uno scambio reciproco tra ciò che è dato e ciò che sarà fatto. Quando si parla di espressione nella vita, si dovrà dire che la creazione espressiva è soggetta ancora a tener conto dell’altro. Negli scritti più recenti di Sartre c’è una tendenza a concepire ogni dato in noi come proveniente dall’altro. Con ciò egli si ricollega, in un certo senso, alla nota analisi dell’amore fatta da Alain, che a sua volta si rifaceva a Pascal: "Non si ama mai qualcuno, non si amano che delle qualità". Alain ammette che tutto ciò che oltrepassa l’amore delle qualità è una costruzione secondo la quale io mi figuro che c’è in me un amore. "Io vi amo" non ha senso, perché non si può donare se stessi. La libertà del soggetto resta affascinata abbandonandosi all’immagine di se stessa che essa ha dato all’altro attraverso le parole (Macbeth dominato dall’idea: "tu sarai re").

Sartre sembra riprendere a sua volta questa analisi. L’amore appartiene al per-altro, non al per-sé, "amare è voler essere amato", afferma ne L’essere e il nulla (L’être et le néant Gallimard, Coll. "Tel"); il ruolo dell’innamorato è creato ed interpretato da noi. Queste analisi sono valide se vogliono affermare che la parte recitata e messa in scena non è scritta a priori, che non c’è fatum; ma queste analisi non sono esatte se significano che creiamo il ruolo da mettere in scena ex nihilo.Da dove si farà iniziare tale condiscendenza dell’amore? Non è già presente nella percezione una presa di posizione più originaria che precede tutte quelle che potranno successivamente essere modificate? Quando percepisco qualcuno, la mia percezione giura; può poi rivelarsi illusoria o valida. Se sapessimo tacere, non ci sarebbe più passione? Non è per il fatto che si smette di parlare ad altri che si cessa anche di parlare a se stessi; occorrerebbe tacitare la voce interiore, arrestare la percezione. Nella più piccola percezione ci sono dei segni. Percepire è già anticipare qualcosa, e, in questo senso, ogni forma annuncia uno sviluppo; un amore riconosciuto prende corpo; qui, il movimento del linguaggio non fa che prolungare il movimento stesso della vita. Le nostre parole costituiscono un mito che esiste per gli altri anche se non diciamo nulla; e il mito di me stesso si sviluppa in quanto io stesso sono espressione.

Esiste anche un’illusione retrospettiva, oltre che un’illusione prospettica del per-sé: non posso far finta che questa creazione di me attraverso me stesso nella vita sia senza alcun rapporto con i dati concreti, non posso sognare di sottrarre l’io ad ogni specie di interpretazione da parte dell’altro; c’è già in me una sorta di presenza dell’altro. Non si può paragonare questo rapporto con una sala per gli spettacoli, in cui l’attore recita e il pubblico assiste senza sentirsi implicato. La differenza con ciò che accade nella vita è la stessa che passa tra il recitare il sonno e il dormire; l’amore consiste nel farsi amare, la differenza con il teatro sta tutta qui: nella vita il ruolo che recitiamo è soggetto a determinati rapporti con il nostro passato e con l’altro. Per questo i rapporti pubblico-attore sembrano comunque ordinati e composti, mentre la vita appare smisurata, perché nella vita, tra l’altro e me, non è possibile limitare le responsabilità, come avviene nell’esperienza estetica. Ci si impegna con l’altro in maniera tale che, a poco a poco, diventa pressoché impossibile porre un qualsiasi limite. A teatro c’è sempre la possibilità di ricominciare da capo; ma per me, tutto ciò che faccio è assoluto; nella vita non si può mai tornare indietro. Questa assolutezza della vita può tradursi negativamente: può darsi che quanto è secondario per me sia invece essenziale per l’altro; oppure, positivamente, l’altro può corrispondere alla mia intenzione. In ogni caso, la vita si svolge per davvero mentre i rapporti scrittore-pubblico sono rapporti caratterizzati da un "come se".

L’espressione di sé nella vita è simile al comportamento che caratterizza una parte teatrale; attraverso un tale comportamento, percepisco che una qualche iniziativa si sta sviluppando. Solo nei momenti fecondi ho l’impressione di percepire non un semplice ruolo, ma di assistere alla manifestazione dell’altro. La percezione dell’altro è quella di una libertà che traspare attraverso una situazione, nel mentre la trasforma. Non si amano che delle qualità, ma non si ama che attraverso le qualità. Ma allora l’altro, in quanto vivente, è sempre minacciato dalla possibilità di stereotipi che irrigidiscono il suo ruolo: egli può sparire lasciando solo la sua parte. L’altro può apparirmi così come è realmente, ma mi è dato anche come qualcosa di nascosto. L’altro non fa che trasparire: appare come senso vivente, senso che si conserva o si degrada.

Di tutta questa analisi è soprattutto da sottolineare il fatto che la percezione dell’altro è percezione di una libertà che traspare attraverso una situazione.

 

Traduzione dal francese di Aldo Pardi e Leonardo Distaso